“Un mistero sconcio, meraviglioso”. Sette poesie di Alberto Pellegatta da L’ombra della salute (Mondadori 2011)
di Chiara De Luca
La poesia di Alberto Pellegatta è dura, scabra, lavorata all’essenziale, sgrezzata e affilata come la lama di un coltello che taglia e scrive “non per riscatto / ma per vendetta”, che incide parole senza lamento, grida da ferite asciutte che non sanguinano più ma bruciano ancora dentro, come la nascita, e come la rinascita da una morte vissuta giorno per giorno. Il poeta si aggira senza paura tra lo sporco, il rumore, la marcescenza, il contagio del male che si propaga strisciando ai nostri piedi e ci corrompe. Per vederlo e difendersene, il poeta abbassa gli occhi, insinua lo sguardo nelle pieghe del terreno, tra le infiltrazioni, negli interstizi, setacciando l’oscurità. Il suo sguardo si radica perciò nel terreno del presente che calpestiamo, lo penetra fino al centro, fino al cuore pulsante, senza attendere un oltre o un altrove, senza speranza se non quella di esistere, ora, su questo sordido suolo, in virtù del mistero “sconcio” e meraviglioso” che ci tiene.
Scrivere “senza calore” è divenire ricettacolo di vita, vena aperta e vuota in cui si versi il sangue del mondo, che parla del poeta in altra voce da distanze non ancora visitate. Così la penna si fa strumento dell’universale e il verso creta per ridare forma fedele agli oggetti e ai volti immersi nel reale, spiccandoli dal fluido magma degli eventi, ritracciato da una discreta melodia di rime interne e assonanze, talvolta spezzata dall’inattesa accelerazione imposta dagli enjambement.
Anche la memoria non è per il poeta né casa né rifugio, bensì gioco di specchi, riflesso infedele di noi stessi, che rende impraticabile il ritorno alla sorgente, confondendo le immagini oggettive con la chimera della percezione e la sua proiezione. Ciò che la poesia tenta di sfiorare è l’inafferrabile intermittenza del presente, la sua cangiante consistenza, che scivola sugli occhi some un lampo, lasciando bruciature, ombre sul tessuto di una luce che si cela ma non smette di bruciare, nutrita della ricerca compiuta dallo sguardo.
Le poesie dell’Ombra della salute sono questi lampi, accensioni intermittenti e simultanei oscuramenti. L’esperienza individuale vi recede sullo sfondo, dominato dalla pienezza e dalla concretezza di una estraneità vitale e fagocitante, spesso annichilente, che cauterizza la memoria e apre nuove ferite sanguinanti. Non vi è appiglio per le mani del poeta se non nell’aria intorno, nel legno, nella pietra, nell’elemento elementare, della materia ripulita dalla soggettività che ha pretesa di nominarla. L’arma che impugna la destra del poeta è la parola stessa, che pesa sopra un foglio già macchiato, strappato, disteso come un terreno sdrucciolevole e infido: il mondo. A nulla serve l’artificio per dirlo, a nulla la sovrastruttura del sapere. Il segreto è nella pietà dello sguardo che scava fino al buio, fino a dove l’aria è un ricordo.
*
La macelleria dell’angolo ha la sua vetrina sconcia.
La morte è una specie
di cottura. Devi essere vivo
per cuocere tanti anni.
Il sangue si fa crema, schiuma,
le gambe si allargano, si gonfiano le nocche
cedono i tessuti. La malattia produce acqua
e persino la nascita brucia.
*
Incomincia in un posto di mare
o in mezzo a una pianura stretta ai laghi,
crede che per vivere si debba aspettare
l’anno prossimo, l’oltre futuro dei morti.
Che sono muffe nere nella testa.
Mentre la salute è un mistero sconcio, meraviglioso
e, finalmente, senza futuro.
*
Non c’è nessuna casa. Andando avanti così
non ci saranno neanche i viali nei quadranti
le mani i nani i cani – le circonvallazioni.
Questo campo è lo schermo delle belle intenzioni.
Non ha smesso di piovere su via Garigliano
tra le infiltrazioni e l’assestarsi delle pietre,
il pulviscolare sgranchirsi del corpo principale…
Facile arrivarci. Però non saprei dire
se va poi verso i morti o all’ospedale
se dai navigli al tribunale è il 30 o il 29.
*
Ha alberi leggeri come elio, terre dure
per coscienza.
Sogna marmotte narcotiche mentre
il bianco dei boschi vira al gas.
Abbandona l’intenzione e§
pulisce bene le formule.
*
La grandezza è una disinvoltura, non è uno stile.
A. Martin
Chi separa e scarta secondo un progetto
crea esuberi incessanti.
Scriviamo senza calore
non ciò che avreste voluto
ma quello che non avete
pensato. Non per riscatto
ma per vendetta.
Non è mai
ciò che abbiamo scritto.
*
Del tuo calore, dolce animaletto,
desidero l’abbraccio, del tuo colore
maledetto.
Mi chiudo in una perla
per sentirti il cuore, lievemente
mare.
Nella lattina ti ho sentito respirare
e un calore mi è salito alle labbra.
Una sommersione.
Dormi nei sospiri più lunghi della notte,
animaletto accoccolato dentro la pupilla.
Hai la pelle bianca e le guance
disegnate con furore. Possibile
pane.
(1998)
*
La memoria ha stanze immense
camere colme di specchi
polvere impraticabile. Invece
l’attualità è intermittente
come un’immagine rotta.
(1998)
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Alberto Pellegatta (Milano 1978) ha pubblicato L’ombra della salute nella collezione de Lo Specchio (Mondadori 2011). Presente nelle antologie I poeti di vent’anni (Stampa 2000), Nuovissima poesia italiana (Mondadori 2004) e Almanacco dello Specchio (Mondadori 2008), ha vinto la prima edizione del Premio Biennale Cetonaverde, il Premio Amici di Milano 2002 e il Premio Meda 2002. Scrive d’arte (L’artista, il poeta, Skira 2010) e collabora come critico con «Gazzetta di Parma», «Nuovi Argomenti», Museo della Permanente di Milano, «Quotidiano La Provincia» e «Juliet Art». È stato corrispondente dalla Spagna della rivista svizzera «Galatea» e segretario di redazione dell’«Almanacco dello Specchio» Mondadori. È direttore editoriale di Edb Edizioni Milano e dirige la collana «Poesia di ricerca».