Mercoledì 4 giugno 2014 al Teatro Argentina di Roma, Sala Squarzina, ore 17,30, si terrà l’incontro: “Fabrizia Ramondino: scrittrice in “viaggio“. Il titolo si riferisce alla poetica della scrittrice (viaggio come ricerca) e alla dinamica appartenenza-fuga che caratterizza la sua formazione e le sue opere. Queste ultime costituiscono nel loro insieme diverse stazioni attraverso generi e codici espressivi differenti – dal diario al romanzo al teatro al cinema – di quella che la stessa Ramondino ha definito la sua «avventurosa navigazione verso l’isola di Utopia» .
(La foto di Fabrizia Ramondino è di Massimo Pastore).
L’appuntamento si inserisce all’interno di una serie di iniziative che hanno riattivato l’interesse intorno all’opera dell’autrice, evidenziandone la sofisticata ricerca stilistica come anche la ricchezza e l’autenticità dei contenuti. Fra queste si segnalano: la pubblicazione del Dossier Fabrizia Ramondino pubblicato sulla rivista diretta da Walter Pedullà “Il Caffè illustrato”, n. 66/67, 2012, curato da Beatrice Alfonzetti, con contributi saggistici e una inedita fotobiografia; gli Atti del Convegno tenutosi a Londra nel gennaio 2010 Non sto quindi a Napoli sicura di casa pubblicato nella collana di Letteratura italiana della casa editrice Morlacchi di Perugia.
interventi di
– Beatrice Alfonzetti (Docente di letteratura italiana e Direttrice del Dipartimento di Studi greco-latini, italiani, scenico-musicali dell’Università di Roma “La Sapienza”)
– Siriana Sgavicchia (Docente di letteratura italiana contemporanea nell’Università per Stranieri di Perugia)
– Mario Martone (regista di cinema e di teatro)
– letture di Arturo Cirillo, Anna Bonaiuto
– coordina Novella Bellucci (Docente di Letteratura italiana dell’Università di Roma “La Sapienza”)
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Fabrizia Ramondino: dal sogno al libro
(foto di Giovanni Giovannetti)
di Beatrice Alfonzetti (in “Il Caffè Illustrato”, 66/67, 2012)
“Infine anch’io/ ho orecchie lunghissime di carta” disse Fabrizia ad Elsa e in quell’anch’io c’era tutto. Ma tutto cosa? Intanto il fatto che un’autrice da poco venuta alla ribalta osasse confrontarsi con la scrittrice italiana del Novecento; e secondariamente che lo facesse con un sottile gioco d’ironia fra le orecchie dell’asino e le orecchie di carta; infine, che sì, che lanciasse proprio una sfida. A chi poi? a uno dei suoi numi tutelari, presto affiancatosi alla leggendaria Ortese della quale nell’ombroso viale Regina Elena di Napoli aveva sentito parlare alle soglie degli esami di maturità.
Contava pochi titoli Fabrizia Ramondino quando nei primi anni ottanta, poco prima della scomparsa di Elsa Morante, le indirizzava quei versi in una poesia dall’esplicito titolo: A Elsa Morante. Con cassetti pieni di carte, invece, solo dieci anni prima aveva reso omaggio a uno dei romanzi più noti della Morante conun’altra poesia, L’isola di Arturo, in cui Fabrizia confessava quasi un rapporto di filiazione o se non altro indicava una proiezione del proprio universo poetico (l’isola, l’infanzia) ancora clandestino. Un esordio davvero tardivo quello di Fabrizia Ramondino che solo all’età di quarantacinque anni (era nata nel 1936) decideva di dare alle stampe il folgorante Althénopis subito accolto da un editore prestigioso come Einaudi grazie alle due madrine d’eccezione: Elsa Morante e Natalie Ginzburg. Se non poteva più bruciare le tappe, la nostra scrittrice doveva crescere in fretta nell’immagine pubblica, perché in realtà aveva alle spalle trent’anni di libri e letture, di scritture e appunti. Ecco una poesia del 1956 fra tinte tardo-crepuscolari ed esibita citazione proustiana: “Mentre io nella stanza -/ ostinata-/ la penna intingo/ in simpatici inchiostri/ che il tempo perduto/ evidenzia” (L’esile penna).
Questa tensione con la madre spirituale doveva durare vent’anni, celandosi e alla fine rivelandosi in un piccolo e prezioso libro che si colloca apparentemente ai margini della letteratura, affidato certamente non a caso, quasi a nasconderlo, a una casa editrice napoletana di nicchia, l’ancora del Mediterraneo. Il libro dei sogni sembrerebbe a prima vista la storia esemplare di una giovin signora aspirante scrittrice degli anni sessanta o settanta con un vissuto fatto di terapie analitiche e grumi sentimentali e con tutto il corredo della sinistra alternativa: viaggi, autostop, sacchi a pelo, libri di poesie, ecc. Sì tutto questo c’è ma non è l’autobiografia il senso, né tanto mento il racconto della propria tormentata analisi. D’altra parte, diciamocelo pure: come potrebbe navigare in acque extraterritoriali il sogno? Esso fa parte della letteratura, come sapeva bene la stessa Ramondino che a Savinio aveva dedicato un pezzo rimasto inedito. Il libro dei sogni voleva sì fissare sulla carta un percorso, ma proprio e individuale, cioè del come Fabrizia Ramondino era diventata “scrittore” (la declinazione al maschile è sua). Aggiungi l’agone sotterraneo, la contrapposizione silenziosa a un libro postumo di Elsa Morante che libro non voleva essere ma diario. Lettere ad Antonio si chiamava il quaderno a quadretti dalla copertina nera su cui la giovane Elsa annotava nel 1938 i sogni e i suoi commenti. Ma nel margine del casalingo frontespizio aveva appuntato un altro titolo, guarda caso proprio Libro dei sogni, altra spia dunque da inserire nello schema della relazione Ramondino-Morante. Per la quale non va certo rispolverato il principio di imitazione di memoria umanistica quanto piuttosto quello di emulazione, come ci continua a spiegare Harold Bloom. Solo così salta subito agli occhi una verità elementare: Elsa Morante rappresentava per Fabrizia Ramondino prima di ogni altra cosa la scrittrice italiana, ciò che lei voleva ma non riusciva ad essere. Cosa significa se non questo la confessione affidata al racconto Guide in In viaggio? Vi è narrato il sogno della supplenza e della vacanza: la nonna è seduta in cattedra al posto della nipote e al suo stupore replica che lei sta occupando quel posto affinché Fabrizia possa correre subito a casa a scrivere “quelle storie” che lei stessa non poté scrivere in gioventù. E la nonna poi si materializzerà come un’apparizione fantasmagorica, secondo la visione del sogno, nell’indimendicabile incipit di Althénopis: “Era sempre vestita di nero, ma quando passava per la piazza di Santa Maria del Mare, come fiamme d’inferno i colori le guizzavano intorno, dei gialli, dei viola, perfino talora dei rossi e dei verdi; non portava bracciali, eppure bagliori dorati sembravano splendere intorno ai polsi”.
(Foto di Marco Rossi Doria)
Seguendo senza saperlo le orme di Elsa, anche la giovane Fabrizia aveva trascritto e commentato i sogni sino alla metà degli anni settanta. Fin qui niente di strano: pure coincidenze, si direbbe. Ma andiamo avanti per vedere che cosa succede. Passati vent’anni da Althénopis e con la patente di guida più volte rinnovata cosa fa la nostra Ramondino? – nel frattempo sono usciti i romanzi Un giorno e mezzo, L’isola riflessa, Guerra d’infanzia e di Spagna, le prose diaristiche Taccuino tedesco, Polisario, Passaggio a Trieste, le raccolte di racconti Storie di patio, Star di casa, In viaggio, ecc. Fa un’operazione classica, la stessa dei nostri primi poeti che costruivano le loro vite nuove o i loro canzonieri scegliendo le poesie che si prestavano a comporre il libro, un libro pensato dopo. Solo che Fabrizia non sceglie sonetti ma sogni, chiamandoli “raccontini” e ci narra così non tanto della sua nevrosi, quanto del passaggio nel simbolico dalla terapia alla scrittura d’autore. Differenza non da poco con il Libro dei sogni di Elsa, rimasto privato, ancorato al passato, preletterario. Qui invece siamo in presenza di una strategia sofisticata avviata dal rapporto competitivo con l’analista di turno, in quanto i sogni sono stati dapprima trascritti indi descritti e interpretati a distanza di molti anni dalla scrittrice. Dalla ‘lettura contro’ all’invenzione: così si è andato componendo il libro che racchiude la via lunga per accettare l’ “invito a diventare poeta”. Del ‘dopo’ vi è un unico sogno: risale al 1993 e si esprime col simbolo dell’ossidiana, pietra dal valore magico e benefico trovata fra il magma petroso di un vulcano spaccatosi in due. Essa viene mostrata all’Hypocrite lecteur per indicare la somiglianza fra il ricercatore di mineralogia e lo scrittore. Pensiamo qui alla scrittura della Ramondino, così curiosamente attenta ai nomi e alle etimologie anche nell’ambito delle scienze naturali e biologiche: ogni pianta, fiore, arbusto, ogni genere di pesce o di essere marino, ogni tipo di uccello o di altro animale sono nominati, catalogati, soprattutto nei romanzi sull’infanzia: Althénopis e Guerra d’infanzia e di Spagna. Questa è la cifra della sua prosa, che a qualcuno appare algida, fredda. Invece in essa, che non conosce l’umorismo ma il fantastico, il registro notarile serve da controcanto ai picchi tragici, come accade nel manifestarsi della follia sempre intarsiata però di filtri letterari o artistici: l’urlo di Münter, la natura morta di Morandi, le rêve di Nerval.
Ora sulla parola “ricerche” all’interno della sua poetica. Il padre Proust è qui – inutile negarlo – ma lo scarto è dato dalla combinazione del tempo con lo spazio, con il dilatarsi di questa categoria che dall’empireo filosofico vola verso la terra e si fa modo della narrazione. Ma prima lo spazio era stato la genesi della conoscenza, come si legge in Ricerche (In viaggio): “L’intuizione del legame indissolubile tra lo spazio e il tempo è stata l’esperienza più radicale della mia infanzia, quella che mentre mi rendeva consapevole dell’io, mi iniziava alla morte”. L’azzeccato paragone col gioco del puzzle fatto in uno dei pochissimi inserti metanarrativi dell’ultimo grande romanzo, Guerra d’infanzia e di Spagna, chiarisce la logica combinatoria che sta alla base della sua scrittura: “gioco” e insieme “ricerca” perché fondata sul principio “della trasformazione del caos in forma”. Ricerca come ricostruzione per indicare, nella zona della metanarratività, il senso architettonico di una costruzione romanzesca basata sullo spazio, dove non si svolge una trama, ma trame o reti di sovrapposti ricordi veri o presunti, di racconti, di esperienze magiche, perché favoloso e fiabesco è il mondo dell’infanzia e un insieme di favole è quello della letteratura. Ed è sempre In viaggio a introdurci nell’universo simbolico di Fabrizia Ramondino dove i ricordi si mescolano con quelli dell’infanzia e tutti con memorie ed echi letterari, dal celebre libro di G. Bernanos, Les grands cimetières sous la lune all’amata Morante: “Il giorno e il luogo erano radiosi, eppure formulai il pensiero che non il cimitero di Poggioreale a Napoli, ma questo era il vero cimitero dei miei genitori. Non solo perché gli anni trascorsi a Maiorca erano stati per loro più felici di quelli seguenti, almeno così mi è sempre parso […]. E se non fossi stata allora così piena di vita – e quindi inconsapevole, avrei pensato che era anche quello che avrebbe dovuto essermi destinato. ‘Fuori del limbo non c’è Eliso’ è un verso di Elsa Morante in Alibi. Ma lì e solo lì, una parte di Eliso mi era toccata in sorte”.
Con una lente d’ingrandimento si può scorgere il duello sublimato con la scrittrice romana persino nel sottotesto di Terremoto con Madre e Figlia che nella sua valenza rituale riecheggia La serata a Colono unico testo teatrale della Morante, compreso nel Mondo salvato dai ragazzini del ’68. Lo scontro con la Madre su cui si avvitava la terza parte di Althénopis ritorna qui nel suo luogo deputato: il teatro. Sulla scena, come già sperimentato nel più classico romanzo Un giorno e mezzo dalla struttura volutamente teatrale, con i richiami a Mozart e Diderot, i ruoli si scambiano e si sdoppiano. Oltre agli echi intertestuali, quasi allusivi ammiccamenti, dai sonanti monosillabi pa’ e ma’ alla scelta del verso, colpisce la ripetizione di Fabrizia, il non aver voluto pubblicare altro che una pièce teatrale, pur avendone scritte altre, come la sua madrina, la madre spirituale, la madre da affrontare, con uno scambio persino inconsapevole di ruoli, nell’agone drammatico fino all’ultima cena prima della separazione.
A madri e padri spirituali tocca la stessa sorte delle figure genitoriali. E allora la sfida non riguarda i padri, tanto meno quelli da cui si è ricevuta la luce. All’inizio infatti ci fu Gadda e un mondo declinato tutto al maschile secondo la compiaciuta confessione del prologo di Passaggio a Trieste (Joyce, Saba); alla fine ci sarebbe stato Pasolini. Così di sé nell’ultima intervista rilasciata a Franco Sepe e apparsa in “Nuovi argomenti”: “Ma perché si dovrebbe entrare in un solo cassetto? In quale cassetto chiuderesti ad esempio Pasolini?”. Al posto delle scrittrici compaiono, nell’intervista, alcuni nomi che ci introducono nel gabinetto di Fabrizia lettrice e autrice e che ci fanno conoscere la sua idea di letteratura, che sembra proseguire l’incrocio fra storie e saggistica dei nostri Calvino, Pasolini, Sciascia. Nell’intervista si parla di “troppa famiglia” dell’ “immensa folla di vivi e sempre più di morti” “cui bisogna aggiungere i tanti scrittori letti” oltre i russi e i francesi dell’adolescenza. Proust, Kafka, Cervantes, Leopardi, Brecht, Simone Weil, Stendhal sono i primi nomi che appaiono in riferimento alla genesi della narrazione come curiosità verso il passato e a una sorta di religiosità laica. Pasolini, la triade Montale, Ungaretti, Campana, Dante, Ariosto, Tasso, Leopardi sono invece indicati come i maestri della lingua poetica e della stessa lingua italiana. Chi conosce la biografia di Fabrizia sa bene che dalla nascita all’adolescenza era tutto un mescolarsi di luoghi e di lingue il maiorchino, il castigliano, il napoletano, il francese, l’italiano e poi … il tedesco. Come fare allora per chi, come lei ragazzina, sognava già di diventare scrittrice? Appropriarsi della lingua della nostra tradizione letteraria e costruirsene una propria sarebbero stati gli obiettivi di una pratica diventata autentica passione per l’etimologia, Dante, i dizionari, soprattutto il classico Tommaseo Bellini. Lorca, Neruda, Prévert, Majakovskij sono raggruppati come gli autori del nesso poesia e politica degli anni Cinquanta, ai quali era seguita la scoperta di Gadda, anzi del romanzo La cognizione del dolore, una scoperta talmente suggestionante da generare quasi l’ultima parte di Althénopis: “Infine a metà degli anni ’60 durante il mio secondo soggiorno milanese, vi fu per me la scoperta di La cognizione del dolore di Gadda. A quell’epoca scrissi la terza parte di Althénopis, rimasta tanti anni nel cassetto”.
Verso il padre il debito è dichiarato. Anche se non è un caso che alla Cognizione del dolore, insieme alla Coscienza di Zeno, avesse guardato negli stessi anni anche Giuseppe Berto per inquadrare Il male oscuro, mix perfetto di ironia e nevrosi. Pur potendosi situare nello stesso orizzonte di antiromanzo o di romanzo e non – secondo le parole di Berto – Althénopis non conosce la strategia narrativa dell’umorismo, ma quella della distanza, restituita attraverso la memoria che riversa sulla carta le immagini di una vita che va dai sette anni alla prima adolescenza; una vita recuperata attraverso le cose, i luoghi e soprattutto gli interni. Prima serpeggiante sotto le cangianti forme dell’ansia, la follia irrompe nella terza, prefigurata dal Requiem di Brahms e dall’uso della terza persona sostituitasi alla prima per narrare della relazione felina fra la Figlia folle e la Madre in preda alla demenza senile e poi morente. Sono questi densissimi capitoletti (nove per l’esattezza multiplo del tre come in Dante e nella tradizione ermetica, cabalistica e cristiana) a portare impressa l’impronta del libro di Gadda centrato sull’impossibile relazione affettiva fra il figlio e la madre, così ripetutamente chiamati dal narratore per evidenziare l’assoluta centralità dei due ruoli. Tante le suggestioni che confermano la partogenesi e fra queste un piccolo particolare, ad esempio lo scorpione che compare alla madre rintanatasi nella cantina per sfuggire all’angoscia del temporale e lo scarafaggio osservato con paura dalla madre tornata bambina in Althénopis. Rileggiamo nella Cognizione la sequenza dell’arrivo del figlio come un’ombra nella villa abitata da una madre ostinatamente arroccata a questo suo decaduto e lacero possesso (“L’alta figura di lui si disegnò nera nel vano porta-finestra, di sul terrazzo, come l’ombra d’uno sconosciuto”). Pena e pietà si alternano rispetto alla tragica irriducibilità del figlio (negazione nel linguaggio di Gadda) a poter essere tale, ad avvertire la tenerezza materna, perso nel delirio di ricordi e risentimenti che il narratore ci restituisce in brevi squarci lirici di struggente intensità. Tutto l’inquietante rapporto madre-figlio è proiettato in un male non medicabile, “il male oscuro”, lo stesso che attanaglia la Figlia in Althénopis sin dal suo riapparire dopo il ritorno dal Nord: “La Figlia ritornò dal Nord all’improvviso nella casa di altri ritorni, di altre peripezie, preparata per altri naufragi”. L’attacco è denso, laconico. La prosa assume, pur nella sua incisività, un andamento lirico, intessuta com’è di raddoppiamenti e allitterazioni, quasi in contrasto con il lessico tragico adoperato (peripezie, naufragi o catastrofi), che ha il suo corrispettivo nel personaggio senza nome del più alto teatro novecentesco da Strindberg a Pirandello, personaggio che ritorna in Terremoto con Madre e Figlia.
I luoghi sono ricordi, ma il modo narrativo è scarnificato sino all’osso, limitandosi all’elencazione delle cose del passato, per poi saltare alle metafore di una prosa lirica che vuole parlare della follia con una cifra ermetica riecheggiante Campana, riscattando (o elevando) la nevrosi dalla banalità della sua quotidiana atrocità e farne canto, immagine (un uccello, un cuore e “nel groppo della gola, sbarre tra il cielo e il carcere”). L’alternanza di due registri narrativi – l’uno figurato e lirico che partecipa della tensione frantumata dell’interiorità della Figlia, l’altro che restituisce asetticamente i crudeli convenevoli scambiati fra Madre e Figlia – crea un’atmosfera raggelata fatta di sequenze di spazi, di tempi verbali al passato. Tutto è già stato prima, lo scontro tribale e rituale all’ultimo sangue nella versione civilizzata delle “Maniere” si ripete nel salotto, nel bagno, nella camera da pranzo, interni cui sono intitolati brevi capitoli volti verso la fine (la morte della Madre e la rinascita della Figlia).
Nel mezzo di Althénopis c’è Proust: una presenza enfatizzata, quasi esibita come le copertine Gallimard della Recherche posseduta in due esemplari dal personaggio dello zio, avverso a Croce ed estimatore di Proust e Bergson, ma anche, da inguaribile dandy, di Proust e D’Annunzio: “Lo zio venerava molto Proust […] oltre che Proust, venerava D’Annunzio”. Ma se D’Annunzio resta confinato alla passione proiettiva dello zio Celeste, Proust è autore della Ramondino e insieme a Gadda uno dei due padri letterari del romanzo che tuttavia riuscì subito, nel suo modularsi, a conquistarsi una struttura e una cifra tutte sue. Se il senso della perdita affiora sin dalle prime pagine, la memoria fattasi ricerca ed esercizio di scrittura lavora al contrario, recupera le cose, raggelandole, o fissandole in luoghi favolosi, mentre ad allontanare il romanzo dell’esordio dai due grandi modelli intervengono l’uso della prima persona (nelle prime due parti), la stessa partizione numerica dei luoghi senza raccordi diegetici, lo stile elencativo, a tratti notarile, che smorza le punte tragiche e le digressioni liriche.
Perdita, ricerca e viaggio nel passato costituiscono l’ossatura del suo romanzo più complesso, Guerra d’infanzia e di Spagna, che mette fine nel 2001 al ciclo alto della sua produzione. La ricerca ‘magica’ si era conclusa andando più indietro di Althénopis ai primi sette anni di vita. Guerra d’infanzia e di Spagna è il romanzo dello spazio, quale originaria esperienza del mondo, cui sopraggiunge, inevitabilmente, quella del tempo. Anche la percezione di quest’ultimo è restituita attraverso la spazialità, grazie alla commutazione del tempo in spazio, come in Star di casa. Da Salgari a Defoe a Stevenson, le memorie dei romanzi di avventura che aleggiano nei tramonti a Ventotene, dove è ambientato L’isola riflessa, si intrecciano qui con le silhouette di tanti personaggi dell’infanzia, Caterì dalle “bellissime” e “straordinarie avventure”, il bambino narratore del Visconte dimezzato e ancora Pin il “bambino vecchio” che filtra il racconto della Resistenza nel Sentiero dei nidi di ragno. L’impianto narrativo di Guerra è sin troppo robusto, grazie all’incastro di molte voci narranti che si alternano al racconto principale della narratrice infante: oltre a varie lingue entrano nel romanzo filastrocche, fiabe, favole popolari, leggende, storie vere. Alcune riguardano la guerra dei grandi (quella civile spagnola e quella mondiale sino all’armistizio del ’43) che interferisce con la guerra dei piccoli. Anche lei, la bambina dal pagliaccetto sporco e i dolorosi capricci, è immaginaria come Dulcinea, citata in epigrafe, appartenendo al mondo favoloso della letteratura.
E per finire una ‘mirabilia’: Un giorno e mezzo, il romanzo politico delle mense separate della galassia anarchica e socialista dopo il settembre 1969, il romanzo dello sdoppiamento maschile/femminile, è il più classico, teatrale, fantastico. Ci sono intarsi e tracce di Tasso, Ariosto, Leopardi e soprattutto c’è la coppia che ha ancora il primato della fantasia, don Chisciotte e Sancho Panza. Secondogenito, Un giorno e mezzo è stato offuscato dal primo, ma varrebbe proprio la pena di leggerlo a patto che se ne trovasse ancora qualche esemplare, magari nei remainders come alcuni anni fa. Esso ci aiuta a sciogliere la matassa Ramondino; scrittrice iperletteraria del sogno e dello spazio, della follia e soprattutto delle favole, che tutto vestono e investono: le isole, il mare, gli interni e gli esterni, gli eroi della Resistenza e del Risorgimento, i senzatetto, i rinchiusi, il margine…
E per il congedo scegliamo questa volta la fine di Un giorno e mezzo con la morte onirica, come in sogno, di Giulio “’o Barone”. Moribondo, don Giulio si vede trasportato da un asino che ha le sembianze dell’ “arida pendice del Vesuvio”. Al risveglio dall’incubo intona i versi della Ginestra, perché soltanto ora vi scorge il legame con la solitudine e la desolazione. Nel sogno intermittente favole e tradizioni popolari napoletane (il presepe, la cuccagna) si sovrappongono a echi letterari dal Morgante al Don Chisciotte. Vita e morte si intrecciano in quest’agonia senza coscienza, durante la quale si mescolano sogni del sonno e sogni della veglia, visualizzati nel fantastico sdoppiamento dell’io in don Chisciotte che cavalca l’asino di Sancho Panza o nello stesso asino che porta don Chisciotte.
Ma, allora, dai, forza, rileggiamo Ramondino e chissà se riusciremo a dare un nome a tutti gli intarsi della sua prosa: sono tanti, tantissimi, ma intanto daremo la caccia al suo tesoro.
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Fabrizia Ramondino (1936-2008), napoletana di nascita e cosmopolita per esperienza esistenziale come per formazione letteraria (è vissuta in Spagna, Francia, Italia, Germania), è autrice studiata e apprezzata più all’estero che in Italia, sebbene la sua produzione, pubblicata per lo più presso Einaudi, sia di indiscutibile qualità e di rilevante attualità. Esordiente nel 1981 con Althènopis, ha scritto diversi romanzi (Un giorno e mezzo, 1988, L’isola riflessa, 1998, Guerra d’infanzia e di Spagna, 2001, La Via, 2008), raccolte di prose e racconti (Star di casa, In viaggio, Il calore, 2004, Arcangelo e altri racconti, 2005) e un libro di poesie (Per un sentiero chiaro, 2004). Per il teatro ha scritto Terremoto con madre e figlia e per il cinema la sceneggiatura di Morte di un matematico napoletano. È autrice di diari e taccuini: Taccuino tedesco, Polisario. Un’astronave dimenticata nel deserto, Passaggio a Trieste.