“La carne quando è sola” (Società Editrice Fiorentina, 2011) è un libro potente e intenso scritto da una poetessa brasiliana che insegna in Italia (un raro caso di bilinguismo poetico perfetto) e che sapientemente mescola due tradizioni culturali opposte: quella della poesia del corpo e del suo scontro-incontro con la vita, e quella animata dalla sempre affiorante idea di un oltre-vita, percepito come contraddittorio e sfuggente.
Vera Lúcia de Oliveira lascia parlare diverse personae (una terza persona alternata a un io ora maschile, ora femminile) che mai si impastano davvero con i fatti minuti della realtà riuscendo invece a distaccarsene per giungere a considerazioni generali spesso gnomiche e filosofiche (sulla transitorietà del nostro passaggio terreno, sul desiderio che lo anima e sulla sempre presente percezione di una mancanza) compensate da un inesausto bisogno di ricerca di senso (di cos’altro deve in fondo parlare un poeta?) che si materializza in urli rochi e lamenti sottili, piccole particelle di consapevolezza che ostacolano e contengono la disillusione o il grado zero della speranza (forse la cifra della raccolta) mediante il riconoscimento del valore epigrafico delle parole poetiche, guizzi semivivi del linguaggio divenuto il segno di una evidenza ormai accettata.
Alessandro Polcri
Da: “La carne quando è sola”, di Vera Lúcia de Oliveira
“Sorelle, a voi non dispiace
ch’io segua anche stasera
la vostra via?
[…]
solo ascoltando le vostre anime andare –
solo rubando
con gli occhi fissi
l’anima delle cose -.”
(ANTONIA POZZI)
quanto era bello il mare azzurro d’estate il vento
fra i corridoi il bianco nelle case illuminate dal sole
poi ho visto le cose sformarsi e mettersi a soffrire
come se si fossero pentite della loro felicità
***
se era perché tutto si disperdesse fra le cose
le parole dure gli occhi di odio se era perché
l’amore fosse un muro e la casa una prigione
mi avresti dovuto avvertire mi avresti dovuto
dire che l’amore non poteva bastare
***
ha avuto lunghe giornate di sogno e dentro
mi nascondevo, le cose le costruivo come
a me parevano giuste
poi sono dovuto uscire
mi dicevano ormai sei un uomo
il fatto è che io non avrei mai dovuto
lasciare la mia casa senza una corazza
***
non ce l’ho con chi mi ha convocato alla vita
ma ogni cosa mi doleva ogni cosa mi feriva
non avrei mai voluto vedere l’alba
sapendo di doverla pagare
così cara
***
per telefono ha detto ora mi sposo
vado con lui per il mondo sono vecchia
ma posso amare ancora posso
ricevere il dono di un corpo se pensi
che per me non è più l’età dell’amore
perché Dio me lo avrà messo nel cuore?
***
sai dire se anche di là c’è vita?
se anche di là bisogna nascere e morire
lottare per il pane faticare per l’amore
logorarsi per non perdersi? io qui
mi sono stancato se parto qualcuno
mi deve pure garantire che non
dovrò ricominciare daccapo
***
dalla finestra sentiva il rumore del vento
la vita nel ventre pulsava
i rami sul vetro come unghie
appuntite laceravano la luce
convocavano Dio per vedere
la carne quando è sola
***
aveva una gamba che non ubbidiva più
una gamba malata non lei la gamba
sicché la sua anima era un’maratoneta
la sua anima scorrazzava ovunque
questo era il suo dolore che l’anima
era finita per zoppicare anche a furi
di trascinarsi il corpo come un peso morto
—
Vera Lúcia de Oliveira, nata in Brasile, è ricercatrice di Letteratura Portoghese e Brasiliana all’Università di Perugia. E’ autrice di numerosi lavori su poeti contemporanei pubblicati in riviste italiane e straniere. Scrive in Portoghese e in Italano. Ha ricevuto prestigiosi riconoscimenti, tra i principali il Premio Sandro Penna (1988) e il Premio Internazionale di Poesia Pasolini (2006).