Progetto editoriale ideato e curato da Fabrizio Fantoni con la collaborazione di Luigia Sorrentino
L’anomalia poetica di Arturo Onofri
di Tiziano Salari
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Arturo Onofri (1885-1928) esordisce con un primo volume di versi “Liriche” (1903-1906) dalla tonalità dannunziana, ma esprimendo da subito il senso di un’ascesi, che deve ancora chiarire a se stessa il proprio metodo e le proprie ragioni.
O Vita, o Vita! O sforzo recente/delle imperfette materie/che anelano a perfezioni supreme;/essenziale magnifico Segno/d’altre più antiche ed in numeri composizioni/delle potenze del Cosmo/ per ordine immenso di secoli-/ oggi che il Delfico Nume,/ Apolline auricrinito,/ saettatore di tutte le brame/ degli uomini, aedo del Mondo,/ disse al mio Sogno:”Fa cuore,/ oggi io ti vo’ celebrare,/miracolo grande dell’Essere.
L’ispirazione è paganeggiante, sulle tracce della Laus vitae di D’Annunzio con cui si apre Maia,ma lo spirito è già antitetico. In D’Annunzio manca qualsiasi anelito a trascendere le imperfette materie della vita, ma è:proiettato orizzontalmente ad afferrare la vita nelle sue manifestazioni più istintuali e nella diversità delle creature: lo slancio di Onofri è fin dalle origini verticale.
A 18 anni (aprile 1903) Onofri innalza un inno “Alla poesia” in più di quattrocento versi, in cui donna e poesia (una donna e una poesia più sognate che reali) rappresentano il fantasma da abbracciare in un empito di gioia che toglie il respiro: Parvemi il sangue a un tratto/nell’intime arboree vene/tutto vigoreggiare/come una linfa pura. Il sangue, che rappresenterà l’alambicco di ogni metamorfosi, è già avvertito dall’adolescente come il tramite di una corrispondenza tra poesia e vita, tra poesia e cosmo.
Le grandi vocazioni poetiche sono sempre state assolutizzanti. E particolarmente il Novecento è ricco di figure di martiri della scrittura seduti dietro scrivanie impiegatizie, sedentari sognatori di bellezza e di assoluto come Arturo Onofri. Impiegato presso la Croce rossa romana, egli non solo terrà fede a quei suoi propositi iniziali di amante della poesia, ma li investirà di una missione ancora più grande: quella profetica di una rivelazione di Verità, che sembra già prefigurarsi, nell’anima del giovinetto,come una sostanza aurea.
E il libro si chiude con un “Epicedio per Giosuè Carducci” nel giorno della morte del poeta (16 febbraio 1907), in cui si preannuncia la sopravvivenza del suo spirito (Non morto è colui/ che rimpolpò di sue fibre/gli scheletriti figliuoli d’Italia) e l’invito a sentire il suo canto (il superbo Inno a Satana!) trasvolare attraverso i cieli d’Italia, dalle Alpi al mare.
Una conclusione quanto mai ligia agli spiriti della più recente tradizione. Ma anche un congedo.
Il successivo libro poetico, “Poemi tragici” (1908) non porta quasi più segni di questa dipendenza. La tragedia cui viene fatto riferimento nel titolo è la stessa vita umana nel suo essere per la morte, nel suo alternarsi d’illusioni e di dolore, di noto e d’Ignoto, di tempo e di Eternità.. “I Canti delle oasi” (1909) rappresentano la fase crepuscolare della poesia di Onofri. Non a caso cominciano con una “Sinfonia claustrale” dedicata al poeta Fausto Maria Martini, il cantore dei silenzi conventuali. Il poema inizia con un abbandono della città. Siamo a un contrasto città/campagna, e le oasi del titolo sono il ritiro nella solitudine della campagna. Dopo le grandi astrazioni dei “Poemi tragici”, Onofri, sulla scia della poesia crepuscolare, cerca di inebriarsi d’ogni umile cosa,e passare tutto un dì meditabondo/su di una foglia, un fiore,fuori dal frastuono dell’Urbe e dalle meschinità cittadine. Tuttavia Corazzini o Gozzano non avrebbero mai potuto concepire partiture come quella dei Poemi del sole e scrivere versi in cui la vera anima del poeta (quella che si espanderà senza limiti nella “Terrestrità del sole”) cerca di svincolarsi dall’umiltà e dalle piccole cose.
Anche nel transitorio approdo alla poesia crepuscolare (come, dopo qualche anno, al frammentismo), Onofri è sempre teso a comprimersi nell’anima il tutto, certo lontano da ogni poetica degli oggetti dimessi della quotidianità. Nella Introduzione alle “Poesie edite e inedite” (1900-1914) di Arturo Onofri, Anna Dolfi, dopo aver ricordato un episodio autobiografico del poeta riguardante la madre e la scoperta dell’eros , accenna alla sua tendenza adolescenziale di infierire masochisticamente su se stesso, rievocata sia in un abbozzo di autobiografia (mi tagliuzzavo le mani con le forbici per il gusto del sangue e del dolore) sia nei “Poemi del sole”.
Come ho già accennato il sangue, la meraviglia del sangue, diventerà il filtro privilegiato attraverso cui congiungersi all’universo.
Resta l’immersione nella natura e il piacere di pensare l’isolamento claustrofobico e conventuale in cui anche l’amore per la donna si sublima nella purezza.
Ma il crepuscolarismo è un ambito troppo ristretto per contenere l’empito del suo canto, e infatti Onofri, che mi risulti, non è presente in nessuna antologia dei poeti crepuscolari. Più eclettico è il successivo volume di “Liriche” (1914), in cui vengono ripresi motivi sia dei “Poemi tragici” che dei “Canti delle oasi”, con delle vere e proprie riprese di questi ultimi e il trasferimento di alcune poesie da un libro all’altro. (Emblematica la riproposizione con poche varianti di “A una sorella che non ho” e in “Puer” l’episodio delle mani tagliuzzate con le forbici materne). Non ci sono sostanziali novità di ricerca, se non un approfondimento della sofferenza del limite e del bisogno di spezzarlo.
Nel vasto repertorio onofriano, le tematiche della crisi di quei primi anni del secolo si rifrangono senza soluzione o trovare una via di assestamento stilistico o di concentrazione intorno a una specifica visione del mondo. Dal punto di vista tecnico-metrico rimane legato alle forme tradizionali. La sua ricerca è sempre protesa oltre il testo, o meglio il testo non è altro che un pretesto per indicare una verità più alta che lo trascende.
Tutta la prima fase della poesia di Onofri va inquadrata nella Roma del primo Novecento, all’ombra dei cenacoli modernizzanti in cui le dottrine spiritualiste di Boutroux, Bergson, Laberthonnier, Loisy s’intrecciano con il “Programma dei modernisti”, uscito anonimo, ma di mano di Ernesto Buonaiuti, che ha per obiettivo l’adeguamento della tradizione cattolica alle esigenze della scienza. Il modernismo si proponeva di svincolare il pensiero cristiano dalla dipendenza secolare al tomismo e di promuovere un’esperienza del sacro fondata sul sentimento individuale, senza tuttavia disconoscere la necessità della vita associata. Era un’epoca di fermenti culturali e di crisi dei valori tradizionali che investiva tutta Europa, dalla Russia di Merežkovskij e Rozanov e Šestov alla Francia di Bergson e de “I grandi iniziati” ( Rama, Krihna, Ermete, Mosé, Orfeo, Pitagora, Platone, Gesù) di Edouard Schuré, che rappresentavano, per così dire, il lato di rinascita spiritualista rispetto al lato nichilista, di derivazione nietzschiana, della crisi della ragione, esemplificata in altre tragiche esperienze contemporanee ( da Weininger a Michelstaedter). Come gli altri giovani intellettuali suoi contemporanei, Onofri subiva le suggestioni di entrambe le tendenze, cercandone una conciliazione, o un superamento, a livello estetico.
Nel 1912 Onofri fonda la rivista “Lirica” che si protrarrà fino al Natale del 1913, in cui approfondisce la sua poetica in senso spiritualistico. Sulla rivista pubblica gli Studi spirituali, sorta di prosa poetica tra gnomica e ispirata, in cui Onofri manifesta le sue meditazioni sulla realtà dell’uomo e sulla sua finale destinazione.Come ho già detto, nel 1914, esce il volume “Liriche” (1906-1910) ed. Riccardi, Napoli,e trova un recensore d’eccezione, Giovanni Boine, nella sua rubrica “Plausi e botte” sulla “Riviera ligure”.
Quello che piace a Boine, nelle poesie di Onofri, è il senso di smarrimento e di impotenza che circola nella poesia del tempo, da Campana a Rebora a lui stesso, ma rispetto a Rebora in cui sente vivere ciclopicamente e dibattersi qualcosa di forte e di grande e a Campana che è, se dio vuole, un pazzo sul serio, in mezzo a tanti finti pazzi, in Onofri vede una chiusura rispetto ad ogni svolgimento futuro della poesia.
Probabilmente lo stesso Onofri, come testimonia il romanzo “Disamore”, composto a Roma nel 1910, pubblicato a puntate su “Lirica” e poi in volume autonomo per le edizioni dell’autore,è consapevole di aver toccato un punto di non ritorno, ricapitolando tutta l’esperienza della sua poesia giovanile. Il romanzo si svolge nell’arco di una sola notte e Jacopo, il protagonista, si dibatte ossessivamente all’interno di quella polarità della poesia onofriana e della stessa tradizione poetica decadente tra donna amante pura (la sorella che non ho) e donna amante concubina, che genera un rapporto distruttivo di passione/odio, disprezzo/desiderio /temi tutti ricorrenti nella poesia onofriana dalle prime alle seconde Liriche). Più tardi verranno gli studi sul “Tristano e Isotta” di Wagner e sul “Nuovo Rinascimento” come arte dell’ io, ma ora Onofri, attraverso l’incarnazione decadente di Jacopo, deve bere fino alla feccia l’estraneità di una colpevole passione amorosa.
Dopo la fine di “Lirica” Onofri entra in un periodo di ripensamento critico sia della sua poesia, che della poesia in generale, con l’inevitabile attraversamento dell’estetica crociana, in cui erano impegnati gli intellettuali del tempo. Nella sua vita dedicata interamente alla poesia, non bisogna dimenticare l’aspetto novecentesco (che l’accomuna ad altri grandi poeti del secolo come Kafka, Pessoa o l’americano Stevens) del risvolto quotidiano, che è la vita d’impiegato presso la Croce Rossa di Roma. Ma nella poesia non vi è quasi traccia di questa quotidianità, all’opposto, appunto, che in Kafka, che fa di K, nel Processo, un impiegato di banca, o di Pessoa, che fa di Bernardo Soares, l’eteronimo del Libro dell’inquietudine, un piccolo dipendente di una società di Import/Export.
Dal punto di vista biografico è determinante, in questi anni, l’incontro con Bice Sinibaldi, che diventerà sua moglie, e che pare fondere, in una sola figura di donna, quella polarità che era apparsa inconciliabile tra la donna/sorella e la donna/concubina. Ma con la chiusura di “Lirica” e la collaborazione alla “Voce” di De Robertis, questo maestro dalla vena sovrabbondante, sia nel corpo delle poesie giovanili, edite e inedite, sia per quanto riguarda il futuro ciclo, sembra ripiegarsi su se stesso, e diventare un apologeta del frammento e dei lampi poetici. Sulla “Voce” appaiono, tra l’altro, due testi teorici , Tendenze e un Saggio di lettura poetica della poesia di Pascoli, che costituiscono il paradigma al quale rapportare la sua ricerca di quegli anni, tra 1915-e il 1917, che lo portano a una giustificazione teorica del frammentismo:
Cioè, dal flusso caotico e magmatico e indifferenziato dell’essere il poeta estrae blocchi emozionali riplasmati dalla sua urgenza creatrice, che non hanno più dunque a che vedere con la MATERIA PRIMA del mondo ma sono rivissuti e ricreati dal suo spirito.
È un Onofri nuovo, diverso sia dal suo immediato passato, sia dal suo immediato futuro. Il poeta di “Orchestrine” vuole farsi assorbire dal particolare, cogliere l’unicità dell’istante o della cosa, fissarlo in un frammento, con una specie di tecnica impressionista appresa attraverso lo studio condotto su Myricae,e la soppressione di ogni invadenza del soggetto lirico sul dato della visione. Vuole, in altre parole, essere fedele alla poetica che aveva delineato in “Tendenze”, creare nuove immagini, o meglio ancora ricreare un mondo alternativo (ma per lampi, per frammenti) rispetto al mondo reale. Mentre le immagini poetiche del passato erano vivificate dallo slancio emotivo, e quelle future saranno riplasmate dallo spirito, quelle di “Orchestrine” intendono imporsi solo per se stesse, per la cosa che rappresentano. Circola, in “Orchestrine”, una strana aria leggera, gioiosa, sensuale, che richiama il termine dannunziano di “epifania”(anche se tale espressione non viene mai usata da Onofri), così come D’Annunzio lo enuncia nel “Proemio alla vita di Cola di Rienzo”, (1913): “La vita mi si manifestava in un procedere quasi ininterrotto di epifanie” Probabilmente la stimmung dell’operetta va proprio collegata, oltre che alla poetica dichiarata in “Tendenze”, all’incontro e al matrimonio con Bice Sinibaldi, e alla riscoperta di una sessualità vissuta senza colpa e sdoppiamenti tra il sacro e il profano. L’atmosfera erotica pervade la percezione delle immagini anche quando la donna non è presente nel quadro, e quando è presente è vissuta come corpo nudo, tensione sessuale diretta allo scopo.
Animali. La guardavo spogliarsi con quell’attenzione concentrata con cui il cane, seduto sulle zampe di dietro, guarda il padrone che apre la cartata della frittura.
“Arioso” è tutto intessuto di questa beatitudine. Siamo lontani da Campana, Rebora, Boine, che pure convissero con lui sulle pagine della “Voce”, siamo in una dimensione totalmente altra rispetto al primo Novecento e che tuttavia rischia di decadere e soffocare se non trova il modo di trascendersi e dirsi in una forma più solenne e più alta.
“Arioso” fu pubblicato nel 1921. Fa parte, insieme ad “Orchestrine”, di un dittico in cui il poeta sembra essere nuovamente giunto a un punto morto, sia pure colmo di felicità e di accettazione della vita. Tra questi e i libri successivi, sia critici che creativi, assistiamo alla nascita di un nuovo Onofri, in cui tutti gli elementi che abbiamo visto all’opera nella sua poesia fondamentalmente affermativa si ripropongono non più come privati sentimenti poetici, ma come il fluido stesso che alimenta la vita dell’universo. Determinante in questa trasformazione fu l’incontro con l’antroposofia, di cui Onofri, nella Prefazione che scrisse come introduzione a La scienza occulta di Rudolf Steiner, mise in luce quei principi fondamentali alla base dell’esplosione, critica e poetica, degli ultimi anni.
Tra le più alte personalità spirituali che negli ultimi decenni sono apparse in armi contro il drago del materialismo moderno, primeggia in armonia e potenza interiori la personalità di Rudolf Steiner, la cui opera capitale si presenta qui, primamente tradotta, ai lettori italiani.
In primo luogo, al termine scienza occulta, a cui i moderni potrebbero opporre un sorriso di superiorità, Onofri assegna padri nobili, riconosciuti dalla cultura ufficiale, e che furono Tommaso d’Aquino, Dante, Campanella, Bruno.
Ma è intorno agli anni 1920 che si opera in Onofri una sorta di capovolgimento interiore, in cui vengono portati a sintesi, o meglio, vivificati, tutti i motivi che, sparsi contraddittoriamente nella sua opera, tramite, appunto, l’antroposofia di Steiner e una rivisitazione della tradizione culturale, creeranno le condizioni di un’esaltazione lirica che lo accompagnerà negli ultimi anni di vita. A uno sguardo storicistico non può sfuggire che tale svolta avviene in concomitanza con una stretta involutiva della società nazionale, nel mezzo dello scontro sociale dilacerante che porterà alla vittoria del fascismo, e che, ideologicamente e culturalmente, può essere anche interpretata come una sconfitta del materialismo marxista. Dal punto di vista letterario, sono anche gli anni della “Ronda” di Cardarelli e Cecchi, che si propone di restaurare la tradizione aulica e classicistica, il “ritorno all’ordine” contro il disordine e gli sperimentalismi delle avanguardie. Ma la via di Onofri è del tutto antitetica a quella rondista, e sembra anzi voler accogliere in sé le spinte più propulsive dello spirito delle avanguardie.
Un articolo del 1922, dedicato a S.E. Giovanni Gentile Ministro della Pubblica Istruzione, dal titolo Per un rinnovamento spirituale, in cui Onofri traduce e commenta un capitolo “d’un libro su varie questioni d’arte, che Ernst Uehli ha pubblicato quest’anno in Germania, raccogliendo col titolo Tra Sfinge e Graal (Stuttgart, 1922) vari studi di alta critica e teoria”,anticipa molti temi che confluiranno in Nuovo Rinascimento come arte dell’io. Il poeta italiano si colloca, in forme sue proprie, nell’ambito dell’espressionismo, e sembra prenderne coscienza, proprio attraverso lo studio di Rudolf Steiner e di Ernst Uehli, discepolo di Rudolf Steiner. Ecco come Gottfried Benn, in Espressionismo, caratterizzava le ragioni della rivolta espressionista nell’arte:
Ho detto che fra il 1910 e il 1925 in pratica non c’era altro stile in Europa che quello antinaturalistico, anzi non c’era alcuna realtà, tutt’al più solo la sua caricatura. Realtà, questo era un concetto capitalistico. Realtà, questo erano lotti, prodotti industriali, accensione di ipoteche, tutto ciò che poteva essere contraddistinto da prezzi nelle speculazioni. Realtà, ciò significava darwinismo, gli steeplechases internazionali e tutto quanto vi era di privilegiato. Realtà, ciò significava poi la guerra, la fame, le umiliazioni storiche, la mancanza di diritti, il potere. Lo spirito non aveva alcuna realtà. Esso si volse alla sua realtà interiore, al suo essere, alla sua biologia, alla sua costituzione, ai suoi incroci di tipo fisiologico e psicologico, alla sua creazione al suo brillare. Il metodo per esperire questo, per accertarsi di questo possesso, fu il potenziamento del proprio lato produttivo, in modo un po’ indiano, fu estasi, un certo tipo di ebbrezza interiore.
Il 1910 (101) fu l’anno di opere memorabili che segnarono la svolta espressionista nell’arte. Pubblicate o concepite in quell’anno furono Lo spirituale nell’arte di Wassily Kandinsky, La persuasione e la rettorica di Carlo Michelstaedter, L’anima e le forme di Gyorgy Lukacs, tutte proiettate a riscoprire nell’interiorità la fonte di ogni rinnovamento spirituale. Il 1925 sarà l’anno di pubblicazione di Nuovo Rinascimento come arte dell’io, in cui, tuttavia, lo slancio iniziale di tragica rivolta che presiedeva alle ricerche di Kandinsky, di Michelstaedter e di Lukacs ( e degli altri grandi artisti della prima generazione espressionista) ,si è stemperata in una più distesa e pacificata navigazione spirituale
L’ispirazione non può più attingere dalla tradizione ma deve essere ricavata da uno sprofondamento nell’interiorità dell’artista.
Lo spirito che si fa corpo, il corpo che si fa spirito, il sangue quale veicolo dell’unificazione di corpo e spirito. Dopo la fine della tradizione cristiana , irrigidita dopo Leonardo e Michelangelo nel sud e Dürer e Grünewald nel nord, nella modernità “ la più profonda corrente degli sforzi artistici di rinnovamento” non può essere che l’espressionismo e venire su dall’inconscio e agire nel sangue. E certo,anche se è in un cero senso sproporzionata rispetto all’avvenimento, la reazione spiritualista di Onofri (come il ritorno all’ordine della “Ronda”), è collegata all’avvento del fascismo (siamo nel 1922), che gli fa salutare , al termine dell’articolo, il nuovo Governo come il più elevato esponente della nazione e favorevole a creare il clima per un vero e proprio Rinascimento.
La prima opera nata dopo il rinnovamento spirituale è Le trombe d’argento, pubblicata con data marzo 1924, un libro di prose ritmiche dall’intonazione esultante del neofita, che differisce totalmente e quasi capovolge la poetica alla base di Orchestrine e di Arioso. Là il dettaglio più minuto e circoscritto legato a emozioni, istanti, paesaggi, qui l’astrazione e l’assoluto di una realtà investita dallo spirito e interiorata nel sangue. La terra è percorsa da un fremito di redenzione e gli echi del cielo non dicono altro che gioia. Ogni elemento naturale subisce una metamorfosi analoga all’incarnazione del Verbo nel Vangelo di Giovanni. Il saggio sul Tristano e Isotta /Guida attraverso il poema e la musica di Riccardo Wagner (1924) e il saggio “Nuovo Rinascimento come arte dell’io” (1925) che è una lucida fondazione critica della nuova poetica. La meditazione sul “Tristano e Isotta” di Wagner rappresentò un altro passaggio necessario a inglobare la potenza dell’amore tra uomo e donna come afflato di reciproca elevazione spirituale. E le radici profonde della potenza di questa arte stanno nell’amore di Wagner per Matilde di Wesendonk, ispiratrice del Tristano.
Dunque Matilde di Wesendonk come Bice Sinibaldi, ma nel ménage incontrastato della vita coniugale, da cui abbiamo già visto maturare i frutti di “Orchestrine e di Arioso” e che, con la mediazione di Steiner, e dopo gli assolo delle “Trombe d’argento”, provocherà la folle avventura poetica del “Ciclo della Terrestrità del sole”, in direzione antitetica alla storia della poesia del Novecento. Onofri vivrà tre anni, fino alla morte precoce nel 1928, di creatività assoluta, fondata teoricamente nel poema critico del Nuovo Rinascimento e nell’abbandono a un flusso ininterrotto di versi. Ma quello che per Wagner fu essenzialmente un rapporto di fecondazione spirituale, divenne, per Onofri, una spiritualizzazione della carne. E se il Tristano nacque dalla passione e dalla rinuncia e dalla separazione di Wagner dall’amata, il ciclo nascerà dal desiderio appagato, sublimato e trasfigurato.
Per Onofri il Tristano di Wagner è apparentato agli Inni alla notte di Novalis.
Novalis e Wagner si fondono con l’influsso di Steiner per una lotta contro “il drago del materialismo moderno”, come scrive Onofri nella Prefazione alla Scienza occulta.
È il logos che si è fatto carne e sangue nel Cristo e che ciascuno può rivivere in sé, imparando via via a riconoscere nel Nuovo Testamento e specialmente nei primi versetti del Vangelo di S. Giovanni e nella sua Apocalisse la via da seguire,magari facendosi accompagnare dal commento del “grande Dottore battistico: Rodolfo Steiner”. Su questa base avverrà, secondo Onofri, un autentico rinnovamento spirituale., da cui fiorirà una nuova stagione artistica, ma soltanto dopo che l’artista avrà riplasmato se stesso. “ Questa sarà la sua prima vera opera d’arte” .
Un unico grande flusso creativo fondato sulla propria soggettività e interiorità che tenta di inglobare il visibile e l’invisibile, l’organico e l’inorganico, gli uomini e gli angeli, traendo – e qui senza dubbio in concordanza con la Scienza occulta dello Steiner – dal sonno e dal sogno gli elementi di una conoscenza spirituale superiore.
Dall’Uno del mondo divino è derivata la molteplicità dei mondi umani. In perfetta consonanza con la Scienza occulta dello Steiner, e alle esperienze assegnate al sonno e al sogno, e alle zone attraversate dall’anima dopo la morte.
Il primo libro, “Terrestrità del sole”, racchiude centocinquanta componimenti e fu pubblicato da Vallecchi a Firenze nel 1927, ma redatto negli anni stessi del poema critico. Nelle sue pagine parla indubbiamente l’uomo nuovo, rigenerato, il cui sangue e la cui intelligenza esultano all’unisono insieme ad ogni particella dell’universo.
Nel 1957 vi è un epicedio in morte di Rudolf Steiner. All’opposto di Lucrezio, che nel suo poema, tesse un elogio di Epicuro come liberatore dai pregiudizi e dalle paure degli dei e dell’al di là, Onofri pensa a Steiner come immerso in quell’unità che tiene insieme i vivi e i morti, l’al di là e l’al di qua. Siamo di fronte, da qualunque punto lo s’incominci a leggere, a una apologia dell’essere in tutte le sue forme, in cui la corporeità umana e quella angelica sono diventate una cosa sola. L’intero canzoniere onofriano sembra inno ed encomio alla figura muliebre” scrive Oreste Macrì – oscillante tra Demetra e la Vergine Madre. E l’immaginazione dei corpi femminili è quella che dona il massimo della gioia, una Gioia d’angeli: assalti contro il sole/di candori di corpi femminili. Ma non solo. La gioia d’angeli è diffusa per tutto il creato, dal vento tra i pioppi al silenzio che sembra tuonare nel cuore della terra, da cui pare che fuggano torme di gnomi su vulcani e su alpi e soprattutto Gioia d’angeli: il mio essere al mondo, la sua esistenza stessa, ancora prima d’uomo che di poeta. Tutto l’immaginario romantico ritrova un soffio di vitalità rianimato dalla forza interiore dell’Io, di cui l’intera natura non è che un prolungamento, una visibile manifestazione dell’invisibile.
Onofri è un caso patologico, un’escrescenza rispetto al negativismo, al nichilismo che tendenzialmente sono diventati dominanti nella prima metà del secolo.
La necessità, o meglio la certezza, che tutte le infinite manifestazioni della vita e della morte stessa possano essere ricondotte all’Uno, all’Uomo Spiritale, al Corpo immortale/traboccante nel fuoco della Gloria,acutizzano lo sguardo del poeta, gli fanno trapassare i fenomeni e coglierne l’essenza eterna, insieme corporea e spirituale. In fondo questa non è altro che l’arte dell’io teorizzata nel Nuovo Rinascimento, rifondare, attraverso l’io, l’intero universo, o meglio risolvere la pluralità nell’unità, per tornare a dispiegare l’unità nella pluralità (nel suo Nome/unico risonante in mille nomi).
La prima stazione del ciclo , Terrestrità del sole, è composta di 150 brani poetici di lunghezza irregolare e secondo diverse combinazioni metriche.
Il secondo capitolo del “Ciclo della Terrestrità del sole”, “Vincere il drago!”, fu scritto tra il 26 giugno ed il 23 novembre del 1926, e costituisce l’ultima pubblicazione in vita dell’autore, scomparso nel 1928. Sono 151 testi, esattamente una poesia al giorno, perché tanti sono i giorni che intercorrono tra le due date di composizione. Al tono esaltato della prima fase, succede un andamento più meditativo, come se il poeta volesse ripensare organicamente “il disegno di una parola cosciente, il cui fine è la costruzione dell’Uomo Universale”, come scrive egli stesso in una breve nota introduttiva “Vincere il drago!” si annuncia fin dall’inizio come una guerra, la guerra contro il Drago.
Onofri riprende in alcuni testi il problema della duplicità sessuale, o meglio quella che gli alchimisti definiscono la via di Venere, attraverso un’integrazione del maschio e della femmina in un unico sesso. E sembra che Onofri intenda percorrere tutte le vie ermetiche per realizzare la sua metamorfosi in Uomo Universale o Cosmico.
E tutto il Ciclo è un tentativo di rifondare l’Arte Regia, come scelta, atto volontario e razionale dell’Io. Per Novalis, come per Onofri, è attraverso il sonno che si attua la più profonda congiunzione tra Uomo e Natura, e in cui le più profonde rivelazioni avvengono in sogno. È nel sogno che Enrico di Ofterdingen dopo aver a lungo vagato tra infinite lontananze e selvagge e sconosciute contrade, trova il fiore azzurro.
I fiori d’azzurrità melodiosa di Onofri, per quante metamorfosi possano essere passati, conservano un’eco del fiore azzurro di Enrico di Ofterdingen. Ne I discepoli di Sais Novalis parla di una comunità in cui i futuri scienziati, sacerdoti, artisti, maghi e profeti studiano la natura per progredire nello spirito sono riuniti tra loro dal vincolo, invisibile, dello spirito e dallo stesso vincolo sono uniti al maestro che, superiore ai discepoli in perfezione, è legato a maestri superiori a lui e si rende più perfetto rendendo più perfetti i discepoli. Ecco, la grande illusione di Onofri (e per questo il Ciclo della Terrestrità del sole, insieme al poema critico del Nuovo Rinascimento, ha in sé qualcosa di prodigioso), fu che i tempi fossero giunti a maturazione per portare a compimento questo sogno:dunque il plurale degli uomini, presenti/ nella pienezza unanime in cui dormo. Attraverso il sonno si realizza una comunione sublime dei vivi e dei morti che si uniscono agli angeli a cantare la fanciullezza immortale della vita. Durante la veglia, fra gli esseri del giorno, il celeste ricordo della comunità celestiale dei tuoi mondi nel sonno, il notturno paradiso continua a rivivere nel sangue taciturno, come l’eredità di un Regno che spetta a ciascuno di noi.
E la morte, il corpo estinto, non rappresenta altro che un compimento, un ricongiungimento con lo spirito e con Cristo. E ancora è la sacralità dei corpi a spiritualizzare il piacere sessuale.
La melodia s’allea con le tue lisce
gambe, che vanno in fremiti di danza
così dolci che il grembo trasparisce
d’amore, senz’alcuna peritanza.
Oscilli in piena luce, e a lampi, a strisce
di carezze dorate, la distanza
che da te ci separa, sminuisce
fino a prenderci in te, per tua sostanza.
La tua beltà non è nella promessa
d’un piacere che in noi la passione
può vagheggiare a illuderne sé stessa;
ma potenza celeste è l’aureo dardo
d’amore, che ci sveglia tue persone,
e ci dà tutti i mondi in un tuo sguardo.
Si parla di una donna? O di un fantasma interiore? Ormai, per Onofri, il reale e lo
spirituale sono indistinguibili l’uno dall’altro.
Non c’è dubbio che anche Onofri, insieme al sodale Comi (come d’altra parte testimonia la sua biografia) rientra all’interno di quelle tendenze esoteriche che finirono per far capo a Julius Evola e al “superfascismo”, e che in un certo senso solo la morte prematura gli impedì questo ulteriore passaggio.
Le liriche di “Zolla ritorna cosmo” (210) sono scritte tra il 1°gennaio 1927 e il 30 settembre dello stesso anno. Il libro fu edito postumo a Torino da Buratti nel 1930. Onofri antepose la seguente nota al manoscritto:
Dopo “Terrestrità del sole” e dopo “Vincere il Drago!”, vengono terze, in ordine di tempo, queste altre modulazioni costruttive, o azioni coscienti della parola spirituale, che va verso il suo risveglio cosciente, secondo quanto primamente ho disegnato in quella regola poetica che è stata pubblicata nel 1925 col titolo di Nuovo Rinascimento come arte dell’io – Roma, 29 settembre 1927.
Dunque il percorso verso il risveglio cosciente è concepito sempre in fieri, e non avvenuto una volta per tutte. Come dice nella nota, non solo il risveglio è cosciente, ma anche l’azione della parola spirituale. Un’arte. L’arte dell’io. L’impresa cosmica è vissuta come una costruzione consapevole scandita da diversi passaggi al suo interno
Ma sarebbe invero un obiettivo troppo riduttivo della mia ricerca dimostrare l’insufficienza della critica letteraria, fino alle Antologie di Sanguineti e di Mengaldo, nell’aver affrontato questa poesia.
In un’epoca di crisi e di psicanalisi, Onofri trova una sua personale via di liberazione terapeutica dalla waste land della Modernità, fondandosi sì sull’antroposofia di Steiner, ma soprattutto rifacendosi allo spirito rinascimentale, e anche più indietro, medievale, e attraverso un mescolamento eclettico delle fonti , accompagnato da una conoscenza della scienza moderna e delle nuove teorie sulla composizione della materia, e rivissuto nell’io con un atto di volontà creativa e trasformatrice. In tal senso la sua operazione, insieme a quella di Michelstaedter, di un quindicennio prima, ma di segno opposto, è la ricerca poetico -filosofica più radicale di tutto il Novecento. Sia Michelstaedter che Onofri respingono la civiltà del calcolo e della tecnica che asservisce alla sua logica e impoverisce la vita nell’uniformità delle diverse specializzazioni e nella paura del futuro. E tuttavia, mentre Michelstaedter non vede nessun compromesso possibile tra la “persuasione” e la “rettorica” (l’armatura tecnica e ideologica di cui si è rivestita la società per soffocare al suo interno ogni libera individualità), Onofri attinge una sua superiore persuasione rimuovendo tutti gli aspetti sgradevoli e limitanti la sua “arte dell’io” di capovolgere i condizionamenti in libertà e abolire lo stesso futuro in un eterno presente di intima convinzione e di preghiera quotidiana.
È chiaro che un tale obiettivo può essere raggiunto solo astraendo dalla realtà storica contingente, il fascismo trionfante, o addirittura avvolgendosene come in un involucro protettivo, resta comunque il fatto di una sproporzione tra l’impresa poetica di Onofri e un clima culturale atto a favorire una tale sintesi di elementi alchemici e razionalisti di sublimazione di tutta una tradizione scorrente ai margini dell’ufficialità e della tradizione dominante. Onofri muore nel giorno di Natale del 1928, cioè nel giorno di nascita del Cristo, trasformando (involontariamente) anche la propria biografia, in una morte – rinascita simbolica.
Nello sterminato fluire di versi, da cui sarebbero nati i libri postumi Aprirsi fiore, seguito dall’appendice Simili a melodie rapprese in mondo, che dovrebbero essere le ultime liriche scritte dal poeta nel settembre del 1928, è ormai difficile trovare il compiersi di un disegno che, all’opposto, stava dilagando infinitamente e probabilmente avrebbe potuto finire soltanto – come in effetti avvenne – con la morte dell’autore.
OPERE DI ARTURO ONOFRI
Arturo Onofri, Liriche, Roma, Vita letteraria, 1907
Poemi tragici, Roma, Società Editrice Laziale, 1908
Canti delle oasi, Roma, Tipografia Tusculana, 1909
Liriche, Napoli, Ricciardi, 1914
Orchestrine, Napoli, Libreria della “Diana”, 1917
Arioso, Roma, Casa d’Arte Bragaglia, 1921
Le trombe d’argento, Lanciano, Barabba, 1924
Il Tristano di Richard Wagner, guida attraverso il poema e la musica, Milano, Bottega di Poesia,1924
Nuovo Rinascimento come arte dell’io, Bari, Laterza, 1925
Terrestrità del sole, Firenze, Vallecchi, 1927
Simili a melodie rapprese in mondo, Roma, Al tempo della fortuna, 1929
Zolla ritorna cosmo, Torino, Buratti, 1930
Suoni del Gral, Roma, Al tempo della fortuna, 1932
Aprirsi fiore, Torino, Gambino, 1935
Poesie, a cura di A.Bocelli e G. Comi, Roma, Tumminelli, 1949
Letture poetiche del Pascoli, prefazione di E.Cecchi, Bari, L’albero, 1953
Orchestrine-Arioso, a cura di G.Vigolo, Venezia, Pozza, 1959
Poesie d’amore, a cura di V. Vettori, Milano, Meschina, 1959
Poesie scelte, Parma, Guanda, 1960
Poesie scelte, a cura di F. Floreanini, Parma, Guanda, 1961
Omaggio a Onofri, in Poesia Tre, Milano, Guanda, 1981, pp.109-120
Poesie edite e inedite (1900-1914), a cura di A.Dolfi, Ravenna, Longo, 1982
Vincere il drago!, Roma, Tilopa, 1983
Scritti musicali, a cura di A. Dolfi, Roma, Bulzoni 1984
Dei nell’avvenire, Milano, Casa della poesia, 1985
Poesie e prose inedite (1920-1923), a cura di M.Vigilante, Roma, Enciclopedia Italiana, 1989
Pascoli, Scritti editi e inediti,a cura di F.Lanza, Bologna, Boni 1990
Ciclo lirico della Terrestrità del sole, Terrestrità del sole –Vincere il drago!, a cura di M. Albertazzi, Trento, La Finestra, 1998
Ciclo lirico della Terrestrità del sole, Zolla ritorna cosmo, Suoni del Gral, a cura di M.Albertazzi, con uno scritto di F. Cambon, Trento, La Finestra, 1998
Ciclo lirico della Terrestrità del sole, Aprirsi fiore/Simili a melodie rapprese in mondo- Nel Tempio dei mondi (inediti) , a cura di M.Albertazzi, con un intervento di G.Conte, Trento, La Finestra, 1998.
Corrispondenze, a cura di M. Albertazzi e M. Vigilante, Trento, La Finestra 1999
Quaderno di Positano, Pistoia, Via del vento, 1999
Nuovo Rinascimento come arte dell’io, Le trombe d’argento, Scritti esoterici, a cura di M.Albertazzi, Trento, La Finestra,2000
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