La sfida al labirinto in «Passaggio a Trieste»
di Siriana Sgavicchia (in “Il Caffè Illustrato”, 66/67, 2012)
Nelle fughe di Bach sono compresenti adattamento e “fuga insensata”, ragione e follia, rispetto della convenzione e libertà da essa. Ma per confrontarsi con il prigioniero, il folle, l’etilista, il drogato, l’omosessuale, la donna, il dissidente politico, l’etnicamente diverso, il seguace di un’altra fede non sono bastate agli uomini né le opere di Benvenuto Cellini o di Genet, di Tasso o di Artaud, di Poe o di Sartre, di Baudelaire o di Ginsberg, di Wilde o di Proust, di Louise Labé o di Elsa Morante, di Dante o di Ignazio Silone, di Omar Khayyâm o di Senghor, di Lutero o di Rushdie, né le più oscure e tenaci opere di migliaia e migliaia di uomini senza fama. (La foto di Fabrizia Ramondino è di Massimo Pastore).
Perciò sempre alla condivisione si è preferita la segregazione, l’intolleranza, la guerra.
L’autrice dell’Isola riflessa evidenzia con queste parole una sconfitta della civiltà di fronte alla diversità ma sembra voler sottolineare anche la rilevanza del ruolo dell’arte nella comprensione dell’alterità e per la denuncia dell’intolleranza. Come Elsa Morante e come Anna Maria Ortese insofferente al potere in tutte le sue forme e alle ortodossie di ogni genere, Fabrizia Ramondino ha individuato, malgré tout, un varco creativo nell’utopia. Anche per questo la lezione e il talento di questa scrittrice, ancora purtroppo poco nota, vanno posti oggi in primo piano. La prospettiva di predilezione nelle sue narrazione è quella del margine; sceglie piuttosto che i centri le periferie della storia, della società, dell’anima. Tale punto di vista, inaugurato anche metaforicamente in Althènopis (1981) con l’espressionista «occhio di vecchia» che si sostituisce al solare sguardo della sirena Partenope, attraversa tutta la produzione dell’autrice in forme diverse. Anche i personaggi delle narrazioni di Ramondino si impongono sulla scena per la loro creativa diversità e marginalità, nei romanzi come nei racconti, nelle scritture per il cinema e in quelle per il teatro. Questa prospettiva non è solo una scelta estetica ma è espressione di una partecipazione politica e civile che l’autrice ha direttamente praticato, coinvolta in più occasioni in iniziative di volontariato, a Napoli dal ‘60 al ‘67 con i bambini dei vicoli all’interno del progetto educativo dell’«Associazione Risveglio», poi con gli operai, i disoccupati, i lavoratori precari (da cui il volume Ci dicevano analfabeti. I disoccupati organizzati di Napoli raccontano, 1977), e negli ultimi anni novanta visitando un Centro di salute mentale a Trieste.
Tra gli scritti di impegno sociale, spicca, anche per la sua raffinata struttura stilistica, proprio Passaggio a Trieste, in cui si racconta il soggiorno, nel 1998, presso un Centro costituitosi come emanazione al femminile dell’esperienza post-manicomiale iniziata negli anni settanta da Franco Basaglia. Il corposo volume pubblicato da Einaudi nel 2000 merita senz’altro un approfondimento, sia come testimonianza, sia come polifonica messa in scena della follia.
Il libro è costruito come un diario e prende avvio con una introduzione in cui si illustra la fisionomia, in principio maschile, della Trieste immaginata dall’autrice. Vi viene nominato il fosco assassinio di Winckelmann, Rilke, Svevo, lo psicoanalista Weiss, poi Joyce, e ancora l’amato Saba e Bobi Bazlen. Successivamente i riferimenti culturali e letterari cedono il passo a una Trieste femminile. Ciò avviene in seguito ad una epifania che pone in relazione lo spazio immaginato e immaginario di Trieste con le radici affettive dell’autrice. Ramondino racconta, infatti, di essere stata attratta dal misterioso interrogativo con il quale si chiude una lettera di Bazlen a Eugenio Montale «Chi è Elio Gianturco?». Il «privatissimo fantasma» di Elio Gianturco, che fu il primo amore della madre dell’autrice e che la abbandonò nella disperazione, attiva il processo della scoperta autentica di Trieste, città che Umberto Saba ha definito «nevrotica» e che ha raccontato in un suo scritto, forse non ignoto a Fabrizia Ramondino, come una «antinapoli, dove (intendiamo a Napoli) i nervi si distendono e le complicazioni della vita appaiono meno tragiche».
La più intima e perturbante natura di Trieste si rivela, dunque, alla scrittrice napoletana proprio quando decide di soggiornare presso il Centro Salute Donna diretto dalla psichiatra sua amica Augusta Signorelli. Dopo aver ricostruito l’antefatto del suo viaggio, nell’Introibo di Passaggio a Trieste l’autrice definisce la natura di quella sua rivelazione: Trieste diviene inaspettatamente «il “luogo” per eccellenza dell’esperienza immaginativa ed emotiva della discesa» e il sito in cui si scopre l’identità femminile verso la quale, precedentemente – scrive – aveva ostentato «aristocratico distacco». Trieste aiuta a «scendere […] sino in fondo, laddove sono sepolti tanto il buono che il cattivo seme, per trovare […] una tregua alla lizza, non tanto tra Ragione e Follia, quanto tra Amore e Follia».
Invitata a partecipare alle iniziative organizzate a Trieste per il ventennale della legge 180, e spinta dall’amica psichiatra a superare una crisi di alcolismo, Ramondino parte ai primi di giugno del ‘98 e trascorre una settimana presso l’ospedale della Cattinara per disintossicarsi. Dal 10 al 19 giugno, poi dal 31 agosto al 16 settembre, ospitata in casa dell’amica psichiatra, ogni giorno frequenta il Centro Salute Donna, con un intermezzo d’agosto a Itri.
Dopo l’introduzione si entra nel diario vero e proprio, in cui con materiali di realtà – luoghi, voci, volti, affetti, dolori, manie – si costruisce un teatro dell’anima dalla parte di lei.
Nelle prime pagine del libro che racconta quell’avventura avviene anche il passaggio dalla dimensione privata e autobiografica dell’io a quella della condivisione e del noi. I personaggi, allora, si moltiplicano, tutti femminili – medici, infermiere, assistenti, pazienti -, e le voci si intrecciano e attraversano lo spazio – corridoi, stanze, scale, cucine, mense, luoghi ricreativi -, senza una distinzione netta di grado (si intenda, grado di sanità mentale).
L’impressione nella lettura dell’impegnativo quanto appassionante percorso di scrittura di Passaggio a Trieste è quella di assistere a una messa in scena di realtà in cui l’accesso d’ira, il rapimento, l’esaltazione maniacale, l’abbattimento depressivo prendono corpo e anima in uno straordinario ritmo di parola, sinuosamente disarmonico come i movimenti dei danzatori di una pièce di Pina Bausch. Non è frequente incontrare nella scrittura di documento e neppure in quella letteraria un esempio così pregnante di rappresentazione del corpo femminile come anima – i ritmi della poesia di Amelia Rosselli lo sono ma nel caso di Ramondino si tratta di una scrittura che intende esplicitamente documentare, denunciare, in certo modo guarire, non tanto l’ammalato quanto chi lo emargina. La scrittura del diario triestino ha, in questo senso, a che vedere con la catarsi, filosofica, tragica, anche psicoanalitica. D’altra parte, come già Beatrice Alfonzetti ha suggerito in un suo saggio dedicato proprio al romanzo pubblicato nel 1998, non si può fare a meno di stabilire una continuità fra Passaggio a Trieste e il «diario di bordo» dell’Isola Riflessa; quest’ultimo specchia e forse anticipa nell’invenzione narrativa l’esperienza reale vissuta dalla scrittrice presso il Centro Salute Donna. Nel romanzo, ad un certo punto, si racconta come un gruppo di artiste islandesi, ospiti a Ventotene, decidano di immaginare un dialogo con la natura dell’isola e con la sua storia antica e recente rappresentando una nekuia: «ogni danzatrice sarà affiancata da una cantante, imiteremo la struttura usata da Pina Bausch per il suo Orfeo ed Euridice di Gluck». Le artiste assumono, quindi, i nomi dei personaggi femminili che hanno lasciato nell’isola il segno della loro presenza da un passato remotissimo. Come nel Centro di salute mentale triestino, le protagoniste della immaginata pièce sono donne che hanno subito un’offesa e i cui fantasmi aleggiano tra mare e terra: Ottavia, la moglie ripudiata da Nerone, relegata a Ventotene e fatta svenare, Poppea, preferita a Ottavia da Nerone e poi da lui uccisa con un calcio nel ventre, Scribonia, Giulia, Agrippina, donne costrette a sposarsi giovanissime e con uomini scelti dai padri, ripudiate, relegate e talvolta uccise perché ritenute lascive o sterili, oppure, come Domitilla, per accusa di giudaismo. Queste donne che furono di intralcio agli amori o alla smania di potere dei vari imperatori sono, dice una delle artiste, «immagine della condizione della donna oggi, non solo nel terzo mondo, anche in tanti luoghi del nostro occidente, come si legge nella cronaca nera».
Ventotene e Trieste stanno l’una all’altra, con un paradosso, come inferno a paradiso. Ventotene, luogo di vacanza nell’Isola riflessa è storicamente e simbolicamente sito della reclusione anche perché prossima al carcere di Santo Stefano (uno dei passaggi più intensi e tragici racconta, quasi come profezia, l’esaltazione autodistruttiva della narratrice che una notte si allontana in mare a nuoto ubriaca). L’altro, Trieste, diventa il luogo di una discesa che libera dalla reclusione e che in certo modo conduce alla visione, cioè, in termini psichici, alla consapevolezza, sia pure di un inferno. Il Centro Salute Donna è il territorio di quella Utopia che la voce narrante dell’Isola riflessa insegue nel corso del suo soggiorno a Ventotene. Il Centro – è opportuno sottolinearlo – rappresenta alla fine degli anni novanta, e anche oggi, un modello e un gioiello di raro pregio dell’assistenza rivolta ai malati mentali perché accoglie ciò che la società esclude e ciò che reclude la psiche: in questo luogo si verifica anche la musicale compenetrazione di adattamento e fuga di cui la scrittura del testo di Ramondino, tra documento e invenzione, tra realtà e mito, diventa espressione.
Il diario triestino è diviso in capitoli che scandiscono di giorno in giorno la discesa ad inferos: in epigrafe, versi di Saba; in chiusura, ogni sera, immagini di cinema, spesso dai film di Marilyn Monroe. Marylin appare la prima volta inquadrata nel celebre volo della gonna sulla grata della metropolitana, non per rappresentare le fantasie di milioni di uomini ma per evocare «un innocente e felice volo dell’anima». In questa cornice Ramondino presenta e rappresenta lo spazio del Centro Salute Donna davvero come un palcoscenico, in cui di volta in volta compaiono personaggi a dire in parole che sono anche corpo la propria disperata esistenza (la natura teatrale di questo testo non è sfuggita alla regista Barbara della Polla che nel 2002 ne ha tratto uno spettacolo messo in scena presso il Teatro Stabile del Friuli).
La «soglia» invisibile di Passaggio a Trieste è rappresentata dalla cucina del Centro, di seguito i diversi spazi in cui si svolgono le attività terapeutiche e ricreative: le riunioni del mercoledì, gli incontri intorno al tema Dal corpo recluso al corpo liberato, i massaggi, lo yoga, i laboratori di mimica, di pittura, di scrittura, di fotografia. L’interno del Centro è come quello di una «nave a vela». Ogni spazio possiede un suo ruolo anche affettivo: le scale sono, ad esempio, il luogo dei litigi, degli incontri, delle riappacificazioni. Una dopo l’altra le donne si presentano, si raccontano: Maria Lourdes esclama «volevo fare la prostituta a Mergellina per fuggire mia madre»; Allegra viene dall’ex Jugoslavia e non avendo soldi fa anche lei la prostituta; la giovane Melania si avvicina con il suo passo brusco e con la remota dolcezza del suo sguardo; Leda ama scrivere e racconta di suo padre socialista passato a Buchenwald e della passione per il rosso, di un viaggio a Cuba, delle piazze in cui ha cantato l’Internazionale e Bandiera rossa, e poi accenna alla crisi maniaco-depressiva che ha spezzato la sua vita a cinquantasei anni; poi avanza Franca che somiglia ad uno spiritello, al matto dei tarocchi, e che contorce il suo corpo come un burattino. Tante altre ancora raccontano e la voce narrante lascia a loro la parola citando discorsi frammentari, reticenti, allusivi, interrotti che si compongono insieme in una partitura in cui la follia sta accanto alla ragione. Le inquadrature, come nella Passione di Giovanna D’Arco di Dreyer, avvicinano i particolari, le chiome, i visi, i corpi; d’improvviso spicca il tono delle voci, e di nuovo si torna a focalizzare i movimenti del corpo, le posture, i gesti, l’andatura del passo.
Nelle pagine conclusive di Passaggio a Trieste è la stessa Ramondino a fornire due immagini che descrivono nel complesso il libro, la sua forma e i suoi significati: una è quella dei manoscritti di Hölderlin custoditi nella biblioteca di Stoccarda in cui al centro di ogni pagina c’è una «parola-nocciolo» che rappresenta l’ispirazione intorno alla quale si aggirano disordinatamente parole, frasi e versi imperfetti i quali confluiscono, a volte, a margine o a fine pagina, in una poesia, proprio come le diverse voci di donna registrate nel corso della narrazione del diario triestino talvolta vanno a definirsi in una storia o in un personaggio, mentre altre volte rimangono significanti, occhi, mani, chiome, dolore, desiderio. L’altra immagine è quella del labirinto che si costruisce tracciando sulla pagina linee che attraversano le parole. Tra quelle linee Fabrizia Ramondino ha nascosto il suo minotauro, un essere «irriducibile alla ragione» che costringe ad attraversare un «complesso intrico di passaggi» e per sconfiggere il quale, come Teseo, occorre affidarsi a un utopico filo di Arianna.