Pat Boran, "The Next Life"

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Anteprima editoriale
Pat Boran, poeta irlandese, sarà in libreria ad agosto 2014 nell’edizione bilingue per le edizioni Kolibris nella traduzione di Chiara De Luca. “La prossima vita”, è il titolo italiano, che esce nella collana di Poesia irlandese contemporanea.
Titolo originale del libro: Pat Boran, “The Next Life”, Dedalus Press, Dublino 2012, pp. 102; €11.50
http://www.dedaluspress.com/p/the_next_life
 

 
 
 
Coal
 
 
My father’s people died for it, one breath at a time,
this sinister cousin of diamond, this blackest of sheep,
hewn from the deep space of earth, the cliff face of night,
the dark matter all the while under their feet.
 
Down on their bellies, like babies, sons trailing fathers
through chambers half‐flooded by seepage and by sweat,
through panics of vermin, pockets of breathable air,
deeper than burial, into the very neighbourhood of death
 
and beyond they crawled; and they didn’t go alone
but with the prayers of those they left above
shallow‐breathing to watch them setting out at dawn,
the men whose shadows dusk would gather home.
 
The mines are long since closed, the channels inundated.
Coal now comes from some underworld a world away.
The engine of empire, cold and alien as ever
it remains as much a mystery today
 
as when I held it for the first time in my hand,
a small boy sensing the story of his tribe,
his blood; asteroid‐tough, history and memory compressed
into one, the darkness brought into the light.
 
 
 
 
 
 
 
 Carbone
 
 
La gente di mio padre ne morì, respiro dopo respiro,
questo sinistro cugino del diamante, la pecora più nera,
tagliato dalle profondità della terra, viso di roccia della notte,
la scura materia tutto il tempo sotto i piedi.
 
Stesi sul ventre come neonati, i figli trascinavano i padri
attraverso stanze semisommerse da fuoriuscite e sudore,
attraverso frane di parassiti, tasche d’aria respirabile,
più a fondo di una sepoltura, nelle vicinanze della morte
 
e oltre strisciavano; e non scendevano soli
ma con le preghiere di quelli lasciati in superficie
a trattenere il fiato, a guardarli partire e andare giù,
uomini di cui il crepuscolo avrebbe riportato a casa le ombre.
 
Le miniere sono ormai chiuse da tempo, le gallerie inondate.
Il carbone ora viene da un mondo infero distante un mondo.
Il motore dell’impero, freddo e straniante come sempre
resta ancora oggi altrettanto misterioso
 
di quando lo tenni per la prima volta in mano, bambino
che sentiva la storia della sua tribù, il suo sangue;
duro come un asteroide, storia e memoria compresse
in una unità, l’oscurità portata alla luce.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 String
 
It starts with string,
that familiar, wholly alien thing
that coils and turns on itself
like a puzzle, like drizzle
making shapes on glass. I write
as fast as I can, the images
blaze past; but it’s late, and I cannot keep up.
 
Next morning I step out into a garden
of sunshine and birds, a breeze
replacing the storm winds, a morning so bright
I wish I could sing, but the memory of string
sings stronger, coiling and turning,
flicking its tail, and my failure
to grasp what it hints at is binding.
 
Since then, nothing at all. The year grows
cold in my hands. Once fresh with dew
the leaves are already falling
home into earth, parting with flesh,
their stems the last remaining
elements, part punctuation, part —ah!—
puzzling alphabet of string.
 
 
 
 
 
 Filo
 
 
 
Inizia con un filo,
quello familiare, cosa del tutto aliena
che si arrotola e gira su se stessa
come un enigma, pioggerella
che sul vetro forme disegna. Scrivo
più in fretta che posso, le immagini
sfrecciano, ma è tardi, e non riesco a seguirle.
 
La mattina dopo esco in un giardino
di sole e di uccelli, una brezza rimpiazza
i venti di tempesta, un mattino luminoso al punto
che vorrei saper cantare, ma la memoria del filo
canta più forte, si arrotola e gira,
schioccando la coda, e il mio fallire
nell’afferrare a cosa allude nel legarsi.
 
Da allora, niente. Gli anni mi divengono
freddi tra le mani. Un tempo fresche di rugiada
le foglie stanno già cadendo
a casa nella terra, separandosi dalla carne,
i loro piccioli sono gli ultimi residui
elementi, parte punteggiatura, parte –ah!–
enigmatico alfabeto del filo.
 
 
 
 
 
 
 
 
Skipping
 
 
With the intensity of a character in a fairytale
a small girl skips in the street
outside our house. For most of the morning
she has been there, skipping and singing to herself,
now with a friend, now with a whole gang of friends,
now on her own. Each time the rope comes round
she lifts herself up out of her shadow
with just a flick of her toes,
and whether friends chant some muddled rhyme
no small girl ever really understands
or worries much about,
or whether the ice‐cream van goes by,
slows down, tinkling its promise,
on she goes, skipping and leaving the world
over and over, loving
the weight of herself, her weightlessness,
the swoosh of the rope.
 
 
Saltando
 
 
Con l’intensità del personaggio di una fiaba
una ragazzina salta per la strada
fuori dalla nostra casa. Quasi tutta la mattina
è stata là, saltando e cantando per se stessa,
ora con un’amica, ora con tutta una banda di amici,
ora da sola. Ogni volta la corda fa un giro
lei si solleva ed esce dalla propria ombra
con appena un guizzo delle dita dei piedi,
e che gli amici cantino un confuso ritornello
che nessuna ragazzina fino in fondo comprende
oppure di cui non si preoccupa troppo,
o che il camioncino dei gelati passi,
rallenti, tintinnando la sua promessa,
lei continua, saltando e abbandonando il mondo
ancora e poi ancora, amando
il peso di se stessa, la sua assenza di peso,
il fruscio della corda.
 
 
 
 
 
Let’s Die
 
 
‘Let’s die,’ I say to my kids,
Lee aged five, Luca not yet three,
and under an August blanket of sun
we stretch out in the grass on a hill
to listen to the sea just below
drawing close, pulling back,
or to the sheep all around us
crunching their way down towards earth.
 
‘Do you love the clouds, Dada?’
‘Do you love the Pink Panther?’
and ‘Will you stay with us for ever?’
to which I reply, without hesitation,
Yes, Yes and Yes again,
knowing that as long as we lie here
everything is possible, that any of the paths
up ahead might lead anywhere
but still, just in time, back home.
 
Like me, sometimes they act too much,
filling the available space and time
with fuss and noise and argument,
but up here, overlooking the landscape,
the seascape, of their lives, on this hill
they like to play this game, to lie
together and together to die
which, in their children’s language, means
less to expire or to cease
than to switch to Super Attention Mode,
to prepare for travel, to strap oneself
into the booster seat and wait and wait
for the gradual but inexorable lift
up and off and out into motion.
 
For my two boys, things are only
recently made flesh, made mortal—
our uprooted palm tree, two goldfish,
the bird a neighbour’s cat brought down
last week—and they are almost holy
with this knowledge. ‘Let’s die now,
then let’s go home for tea,’ Lee says,
putting into words as best he can
the sea’s helpless love affair with the land.
 
 
 
Dai, moriamo
 
 
‘Dai, moriamo,’ dico ai miei figli,
Lee cinque anni, Luca meno di tre,
e sotto una coltre di sole d’agosto
ci stendiamo nell’erba sulla collina
ad ascoltare il mare che appena
più in basso si ritrae, si avvicina,
o le pecore che tutt’intorno a noi
ruminando si aprono un varco verso terra.
 
‘Ami le nuvole, Papà?
‘Ami la Pantera Rosa?’
e ‘Starai con noi per sempre?’
Al che rispondo, senza esitazione,
sì, e ancora sì,
sapendo che finché saremo stesi qui
tutto è possibile, che ciascuno dei sentieri
più avanti potrebbe portarci dovunque
ma anche, giusto in tempo, a casa nuovamente.
 
Come me, talvolta loro agiscono troppo,
colmando tempo e spazio disponibili
di caos e chiasso e discussioni,
ma quassù, sovrastando il paesaggio,
la vista sul mare, delle loro vite, su questa collina
amano giocare questo gioco, stare stesi
insieme e insieme morire
che, nella loro lingua di bambini, significa
non tanto spirare o finire
quando entrare in mode Super Attenzione,
prepararsi a viaggiare, assicurarsi
sul seggiolino del booster e aspettare
aspettare il graduale ma inesorabile
stacco, decollo e movimento in volo.
 
Per i miei due figli, solo da poco le cose
si sono fatte carne, fatte mortali –
la nostra palma sradicata, due pesci rossi,
l’uccello che il gatto del vicino ha abbattuto
la scorsa settimana – e quasi li santifica
questa scoperta. ‘Dai moriamo adesso,
poi andiamo a casa per il tè,’ dice Lee,
mettendo in parole come meglio può
la storia d’amore disarmato del mare con la terra.
 
 
 
 
The Inverse Wave
 
 
He recorded every sound in the town,
the river, half full, the kids
in afternoon playgrounds, the fool
stood out on the street to sing,
the believers and all of the certain doomed
driving to work, eating their take‐outs,
beached in the mid‐summer heat. All of it,
all of them. And late one night he made
a digital negative, an inverse wave
which the following evening he broadcast so loud
on his stereo (driving around
with the windows rolled down and the volume up full)
that its sound cancelled out the originals
and everything went still:
the factories, the traffic,
the games and the arguments,
the inside and out,
the known world’s perfect din and constant roar,
until all that was left was two lovers
in darkness, whispering together
words never uttered before.
 
 
 
L’onda inversa
 
 
Registrava ogni suono della città,
il fiume, quasi in piena, i bambini
al parco giochi il pomeriggio, il pazzo
stava in piedi sulla strada a cantare,
i fedeli e tutti i condannati senza appello diretti
in auto vero il lavoro, mangiando cibo d’asporto,
arenati nell’afa d’estate inoltrata. Tutto questo
tutti loro. E una notte a tarda ora fece
un negativo digitale, un’onda inversa
che la sera successiva trasmise così forte
dal suo stereo (aggirandosi in auto
coi finestrini abbassati, a tutto volume)
che i suoi suoni spazzarono via gli originali
e ogni cosa divenne silenziosa:
le fabbriche, il traffico,
i giochi e le discussioni,
l’interno e l’esterno,
il chiasso perfetto e il costante boato del mondo noto,
finché non rimase che una coppia di amanti
nel buio, a sussurrare all’unisono
parole inaudite.
 
The Homeless
 
 
When the homeless left town
the citizens were delighted. The story was
that one old bum had seen the irony
of always sleeping in the same damp doorway,
of being in it, as it were, at home.
 
So as one they rolled their stinking blankets
and left. People gave them money, food,
genuine good wishes. A man
drove a bus free of charge
to the edge of town.
 
In the schools
children sang and waved and small ones
cried as busloads disappeared from view
like emigrant ships.
Within a week
new homeless started showing up,
who knows where from. First a man
sat down on a park bench
and fell asleep. Across the street
Police observed him
from an unmarked car. Two teenage girls
entered a department store
and refused to leave, warming themselves
on a heater in the foyer
in full view.
Within the hour
a child had been observed
sitting on the steps of the Public Library
holding a sign that read: SPARE CHANGE, PLEASE,
his paper cup advertising (and this, I think,
hurt more than all the other disappointments)
a restaurant in the next town up the road.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
I senzatetto
 
 
Quando i senzatetto lasciarono la città
i cittadini ne furono felici. Si diceva
che un vecchio barbone avesse visto l’ironia
di dormire sempre sulla stessa umida soglia,
di esservi, in tal modo, a casa.
 
Così come un sol uomo avvolsero le loro fetide coperte
e partirono. La gente diede loro soldi, cibo,
sinceri auguri. Un uomo
li portò in autobus gratuitamente
fino ai confini della città.
 
Nelle scuole
i bambini cantarono e fecero la ola e i piccoli
piansero quando gli autobus stipati sparirono
alla vista come navi di emigranti.
In una settimana
nuovi senzatetto iniziarono spuntare,
da chissà dove. Prima un uomo
sedette sulla panchina di un parco
e vi si addormentò. Di là dalla strada
la polizia lo osservava
da un’auto civetta. Due ragazze adolescenti
entrarono in un grande magazzino
e rifiutarono di uscirne, riscaldandosi
a un termosifone dell’ingresso
in piena vista.
Nel giro di un’ora
un bambino era stato visto
sedere sui gradini di una Biblioteca Pubblica
tenendo un cartello che diceva: DUE SPICCIOLI, VI PREGO,
la sua tazza di carta reclamizzava (e questo, penso,
bruciava ancor più di tutte le altre delusioni)
un ristorante nella vicina città in fondo alla strada.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Fairouz
 
Siracusa, August 2012
 
Dust lifts and falls in an empty street,
dogs sleep in shadow, and overhead
from an open window a voice drifts free,
at first scarcely audible, the slow motion dance
of rapture and longing, hope and despair;
and now the heartbreak that is Fairouz is everywhere.
 
No greater voice has emerged to sing
the hurt of the world, in love or war,
here on a backstreet where Europe begins
or at home in Beirut, her bloodied flower,
where this afternoon the airwaves again
carry the healing syllables of her pain.
 
All trembling longing, full of the doubt
that is love, and the heart’s brief hope,
hers is the voice of a lover returned
under cover of nightfall, come now on tiptoe,
her breath in your ear, on the nape of your neck,
the rhythm insistent, mesmeric, the melody
lifting you clear of the horrors men do
by their failure to listen, to put difference aside,
and, whatever the cost, to lay down their weapons
and apologize.*
 
* The words of the Syrian poet Nizar Qabbani who once suggested the singer’s voice had the power to persuade men to turn away from violence.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Fairouz
 
Siracusa, agosto 2012
 
Polvere si leva e cade in una strada vuota,
cani dormono all’ombra, e lassù in alto
da una finestra si libera una voce,
d’apprima appena percettibile, la danza alla moviola
di estasi e desiderio, speranza e disperazione;
e ora il colpo al cuore, che è Fairouz in ogni dove.
 
Non c’è voce più grande emersa a cantare
il dolore del mondo, in amore o in guerra,
qui nella strada secondaria dove comincia l’Europa
o a casa a Beirut, il suo fiore insanguinato,
dove oggi pomeriggio di nuovo le onde radio
portano le sillabe convalescenti del suo dolore.
 
Tutto il tremante desiderio, colmo del dubbio
che è amore, e la breve speranza del cuore,
sua è la voce di un amante ritornato
protetto dal calar della notte, viene in punta di piedi
ora il suo fiato al tuo orecchio, sulla nuca sul collo,
il ritmo insistente, magnetico, la melodia che ti solleva
di colpo dagli orrori che gli uomini compiono
per incapacità d’ascoltare, accantonare la differenza,
e, a costi quel che costi, deporre le armi
e chiedere scusa*.
 
* Parole del poeta siriano Nizar Qabbani che suggerì un tempo che la voce del cantante avesse il potere di convincere gli uomini a fare a meno della violenza.
 
 
 
 
 
A Winter Blessing
 
for Nobuaki Tochigi
 
 
Since early evening snow has held us
spellbound at our windows,
erasing our plans, the world itself,
flake by innocuous flake.
 
‘Letters sent from heaven’
the physicist Nakaya called them,
the snow crystals he grew and studied
in Hokkaido before the war,
his camera revealing
miraculous detail
in this deep and wide‐thrown
blanket of forgetting.
 
Across the way, a light goes on
in a room that seems to float
in empty space. Snow
forgets, obliterates, subtracts
(by adding to), yet all the while
asks that we consider
the finer details
of who we are,
of what it is we rely upon
and love — at once
gift and theft, precious
and insubstantial,
and always new,
new as the world the caveman saw
when nothingness flared a moment
on his arm and vanished,
 
or the king waking up
in his stout‐walled castle
impregnable from every direction
but above.
 
 
 
 
 
 
 
Una benedizione invernale
 
per Nobuaki Tochigi
 
 
Poiché la neve della prima sera ci ha tenuti
avvinti alla finestra,
cancellando i nostri piani, il mondo stesso,
fiocco dopo innocuo fiocco.
 
‘Lettere spedite dal cielo’
li chiamava il fisico Nakaya,
i cristalli di neve che creava e studiava
a Hokkaido prima della guerra,
la sua macchina fotografica rivelava
miracolosi dettagli
in quest’ampia e profonda
coltre d’oblio.
 
Al di là della strada, una luce si accende
in una stanza che sembra galleggiare
nello spazio vuoto. Neve,
dimentica, cancella, sottrae
(aggiungendo), eppure per tutto il tempo
chiede che consideriamo
i più fini dettagli
di ciò che siamo,
di ciò cui realmente ci affidiamo
e l’amore – al contempo
dono e furto, prezioso
e immateriale,
e sempre nuovo,
nuovo come il mondo che il cavernicolo vide
quando il nulla gli balenò per un istante
sul braccio per svanire,
 
o il re che si svegliò
nella roccaforte del suo castello
inattaccabile da ogni direzione
fuorché dall’alto.
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Pat_Boran_cover[1]Pat Boran
è nato a Portlaoise nel 1963 ed ha vissuto a lungo a Dublino, dove è stato organizzatore di festival, writer-in-residence, e, più recentemente, conduttore radiofonico ed editore. Tra i numerosi riconoscimenti che gli sono stati attribuiti ricordiamo il Patrick Kavanagh Award (1989) e lo O’Shaughnessy Award for Poetry nel 20089. Ha pubblicato cinque raccolte poetiche e una raccolta antologica che riunisce l’insieme delle sue opere e alcuni inediti. (2005/2007). Edizioni delle sue poesie sono apparse in Italiano, ungherese e macedone. Ha pubblicato il memoir in prosa “The Invisible prison” (2009) il popolare tascabile “The Portable Creative Writing Workshop (1999, edizione aggiornata 2005) e il racconto per bambini “All the Way from China” (1999), finalista al Bisto Book of the Year. Ha diretto l’autorevole rivista «Poetry Ireland Review» e curato numerose antologie, tra cui la più recente è “Shine On” (2011) in supporto delle persone affette da disturbi di salute mentale. È membro di Aosdána.
Pat Boran, “The Next Life”, Edizioni Kolibrì, 2014, Traduzione di Chiara De Luca

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