Prefazione di Davide Rondoni
“Troppo vecchio per lo stupore”, dice di sé il poeta, e perciò forse semisepolto in dubitosità su tutto, e dunque pure su Dio, in ripetizioni del tempo, in riflessioni sulla natura e sull’amore di un crepuscolarismo medio e in grigioscuro. Un poeta completamente del nostro tempo, dunque. Immerso, forse sepolto. Nel senso che in una poesia esatta, coraggiosa nel nitore delle tessiture, spesso incidente nelle clausole, Riva ci dà un autoritratto di uomo contemporaneo che ha un passato con qualche luce, qualche felicità indimenticabile – qualche stupore – ma guardata da una costa irraggiungibile.
La costa del tempo, del destino dei mesi che appare come una ineluttabile perdita.
Come se nel nome stesso del poeta – Riva – si attuasse un destino. D’esser per così dire un bordo, un sasso che non si stupisce e su cui la propaggine della vita sciaborda lasciando le dolcissime tremende luci riflesse del passato, le micidiali malinconie. In questa disponibilità, come una resa di Riva ad esser riva sta la sua tutta affranta dignità, la sua tutta velata gloria.
Sembra che qui – come nella cultura e nella società e vita contemporanea – il passato allunghi sul presente solo una specie di ricatto. La vita intera si trasforma piano piano in un gran Rimpianto, e perciò più duro ricatto: delle felicità passate sulle possibili e presenti, che ne restano schiacciate, offese, umiliate. Fino a una desolata conclusione, contrastata per un istante, fugacemente, da una presunta “terapia” – così s’intitola il penultimo componimento prima del duro mite congedo –.
Riva è poeta colto e agile, passa da un esergo del contemporaneo Ruffilli a uno tratto da parole maestose e dure di Michelangelo, muove un italiano atletico e pur grave, sa di aggirarsi nei dintorni di questioni gravi, anzi lancia la sua poesia a volto fermo “contro” alcune grandi questioni della vita di un uomo: Dio, l’amore, le speranze. Un uomo-autunno, si auto dichiara. Una vita in bianco e nero.
Potrebbe essere – questa – una sorta di furbizia intellettuale, di riva a cui aggrapparsi per cercare un triste scampo al troppo agitato mare di questioni aperte, di drammi sempre rinascenti, di stupori in agguato, di rimesse in questione. Potrebbe in Riva esserci la medesima specie di scetticismo riparato che alligna in gran parte della cultura e della società coeve. Ma in lui convince d’ogni assenza di riparo la sincerità, e la verticale mesta solitudine di trovarsi abbandonato “tra festa e funerale”.
E forse sta appunto in questo senso d’abbandono – che richiama da lontano le voci di poeti che ne cantarono elegie chiarissime e preziose, basti il nome di Cardarelli – la chiave ultima, il gorgo che s’apre dolce ma tremendo e ulteriore in questa poesia. Nessun compiacimento di letterato salva Riva da questa totalità d’abbandono. Essendo poeta – nel paradosso inafferrabile della esistenza della poesia e della sua urgenza – forse la impronta, la cavità, di un’altra totalità. Quella che non era un’idea totalizzante, non una utopia, ma una presenza, un amico, che faceva ardere il petto, come raccontavano i due di Emmaus. Ai quali Riva non si accompagna, malinconicamente. Da qui il suo canto, struggente e trattenuto, di dolore che accetta l’autunno. E che inquieta il lettore, come ogni buon libro di poesia.
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Serata di paese
Declina il sole occiduo di lunghissime
sagome su muri fatti in pietra
e polvere da un angolo residuo
di paese; e lungo i marciapiedi
un rigagnolo d’acqua e di sapone
sporca l’asfalto screpolato, cola
in un tombino. Odore d’ombra umida
dove riposa il vino per l’estate
nelle cantine del vicolo, di fiori
fermentati dal caldo.
In questa sera
trovo per me una nuova
definizione.
Invento un’altra fine.
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Il destino dei mesi
Tendo le mani nella luce stupida
di settembre, consunta dall’estate
in giorni brevi; il cielo è muto, i parchi
più tristi. Resta indietro il sole
dell’ultima stagione.
L’autunno è ancora ingenuo, le giornate
quasi tiepide, ma gli alberi già arresi,
e le siepi non tengono più l’ombra,
spogliate dalle foglie. Disillusi
gli ultimi raggi tremano. Rifletto
guardandomi alle spalle sul destino
di pensierosi mesi ormai conclusi.
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Nei giorni giusti
Durante i giorni giusti, nelle reti
tese tra i tronchi sulla terra dura
di zolle asciutte, schioccano le olive
come una pioggia nera,
l’attesa della terra che si avvera
nel cavo delle mani, nelle ceste
che si vanno colmando a una a una.
Presto saranno l’olio sulla tavola,
con il vino novello di stagione.
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Per un amore ancora non trovato
Con che piacere in questa sola sera,
soli sognando (e tu, sincera mente,
al cuore mio non menti, mi consenti
d’essere vivo e amante) le mie braccia
si riempiono in abbraccio alle tue spalle
morbide e piene, e le tue mani avverto
stringersi alle mie costole
povere e madre in un’unione casta.
Magico posto, umile silenzio,
momento fermo. Tra i tuoi denti sento
un’emozione folle
e forse non è amore ma mi basta.
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Poesie tratte da IL DESTINO DEI MESI di Nicola Riva, Samuele Editore 2011, collana Scilla, prefazione di Davide Rondoni
http://store.samueleeditore.it
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Nicola Riva è nato a Vaprio d’Adda nel 1980, vive a Trezzo sull’Adda (MI). Dopo gli studi classici ha collaborato alla traduzione del Rationale Divinorum Officiorum di Durandus (ed. Vaticane 2001).
Nel 2003 entra in contatto con il circolo “I poeti di ciminiera” (MC), condotto da F. Davoli e diventa co-redattore dell’omonima rivista. Pubblica articoli su Coleridge (con traduzioni inedite), Tagore e Laforgue. È del 2004 la sua prima silloge di poesie, Qui, dove? (GED), e alcuni inediti sono inclusi nell’ebookBachece 2006 a c. di G. Fabbri.
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