Nota di Germano Bonaveri
Poesie d’anima e di vissuto sono racchiuse in Un’ombra in due (L’Arca Felice, 2014, pp. 24), collegate da un filo invisibile che si dipana tra la certezza di leggere storie di vite altrui e il dubbio di scorgere tra le pagine la propria. Matteo Bianchi impiega un linguaggio che si muove con proprietà, esplorando la penombra che lambisce e accomuna le due pulsioni dell’enantiodromia: Eros e Tanathos, senza paludarsi in autocelebrazioni, anzi, mostrando un pudore espressivo che spesso nasconde altro, un sussurro che sentiamo lontanissimo, ma ricalca fedelmente il sentire comune dell’umano di fronte al mistero.
È una Venezia portoghese quella che racconta e che pare raccontata da un Pessoa consapevole dell’arcano; di fronte, un Atlantico nostrano immemore di vite e domande coraggiose:
Bassanio è morto, Graziano,
come farai?
Si incrociano passaggi che impressionano, lapidari e risoluti come nel migliore De Andrè, provenendo da quei mondi:
Porzia si è ritirata in monastero:
non aveva il coraggio
di togliersi la vita,
ma la vanità di avvelenarla.
Un epitaffio esistenziale tagliente, uno sfregio sul volto opalescente del giorno quotidiano. L’oscenità impudente del genio umano, la sua irrisolta contraddizione, il terreno sacro dell’indifferenziato: l’arte, in sostanza. E ancora:
L’insofferenza si fa solo muta,
senza espiazione.
Un’evocazione di pavesiana memoria, la stanza di una fotografia di Jan Saudek che si fa parola. L’elemento che più affascina è l’andirivieni cadenzato e quasi ritmico tra il ricordo e la contemporaneità, una danza che rappresenta vivido il cammino difficoltoso di chi si pone domande dal profondo di una vera educazione emotiva. Sempre nel dialogo con l’altro Bianchi cerca la mano tesa di fronte alla consapevolezza della propria buia solitudine. Irrisolvibile. E quando l’incerto lambisce il futuro ci lascia là, insieme alle domande, impotenti davanti al magma. Ci lascia là uscendo di scena, capace di farsi carico di sé e donandoci abilmente l’inquietudine, ancora accomunati dall’estraneità:
Ulisse – mi assillavo -,
ma dove vai?
Una chiusa imponente, fragorosa. Ed è un momento di assoluta poesia. Si sfalsano i piani di esistenza, le realtà si confondono: chi chiede a chi, chi è che parla – forse la coscienza? O ancora una coscienza collettiva? O l’Ulisse che è ciascuno di noi? – avvolti in un carnevale di brandelli di pensieri, memorie, speranze. Si tratta di un riuscitissimo quadro dell’umano resistere alle intemperie del tempo che scorre.