Nadia Campana, "Visione postuma"

E’ appena uscito con l’editore Walter Raffaelli  tutta l’opera di Nadia Campana. Un cofanetto in due volumi  dal titolo “Verso la mente/Visione postuma”, a cura da Giovanni Turci, Milo De Angelis ed Emi Rebuffetti.
Sono importanti questi saggi per comprendere la figura e l’opera di Nadia Campana. E sono tutti percorsi dalla passione per la vita e per la letteratura. Alcuni poi (in particolare quelli sulla Cvetaeva) hanno venature biografiche di impressionante profezia, come se l’autrice avesse scelto questo tipo di scrittura per svelare la parte più segreta di se stessa e il destino che da lì a poco si sarebbe compiuto. (Milo De Angelis)
Abbiamo intitolato “Visione postuma” questa raccolta di scritti di Nadia Campana, in gran parte inediti, prendendo spunto da quello inaugurale, particolarmente caro all’autrice. Il libro è diviso in tre sezioni. La prima raccoglie testi di poetica, ricchi di forza lirica e di presagio, dove il tema della morte volontaria appare centrale. La seconda comprende alcune riflessioni su due scrittrici di lingua inglese – Emily Brontë ed Emily Dickinson – e sull’arte della traduzione. La terza riunisce scritti brevi e di vario genere, dedicati agli interessi di Nadia Campana negli anni ottanta: i libri di poesia usciti in quel periodo, il teatro, l’insegnamento della letteratura nella scuola media.
 
Postilla
di Luigia Sorrentino
Milo De Angelis, qualche mese fa, prima che uscisse “Visione postuma”, mi aveva inviato tre poesie di Nadia per il blog che pubblico in questa occasione.
Sono stata sempre molto vicina alla poesia di Nadia Campana sebbene io non l’abbia mai conosciuta di persona. De Angelis nei nostri diversi incontri a Milano nella casa di Via Rosales, mi regalò i dattiloscritti inediti di molte poesie di Nadia, e anche il dattiloscritto di un saggio su Marina Cvetaeva. De Angelis mi diede, inoltre, due libri della Cvetaeva, “Lettera all’amazzone” (Guanda, 1981), “Le notti fiorentine” (Arnoldo Mondadori Editore, 1983) e il libro delle traduzioni di Nadia Campana su Emily Dickinson, “Le stanze d’alabastro” , (Universale Economica Feltrinelli, 1983).
A Milano, nel 1986, un anno dopo la morte di Nadia Campana, non si parlava di altri che di lei. Mi rammaricavo di non averla conosciuta se non attraverso i racconti delle persone che incontravo allora.
Oggi, a distanza di tanto tempo, rileggendo le poesie di Nadia raccolte nel volume “Verso la mente” a cura di Milo De Angelis e Giovanni Turci (Crocetti, 1990) penso che il suicidio di Nadia sia stato un suicidio voluto, come spiega De Angelis, ma, aggiungerei, “di genere”. E spiego perché. Dai racconti che allora mi venivano fatti, è emerso che Nadia si sentiva discriminata in quanto poeta-donna. E in realtà, se si riflette, le donne-poeta pubblicate in quegli anni sono state davvero poche. Non è un caso che la scrittura in versi di  Nadia ebbe termine, per sua stessa testimonianza, nel dicembre del 1984, dopo aver raccolto una cinquantina di poesie in parte completamente inedite, in parte no, (uscite solo su riviste), sotto il titolo “Verso la mente”.
Perché Nadia chiude con la poesia e poco dopo spegne la sua stessa vita? Dobbiamo porci questa domanda e di certo “Visione postuma” risponde a questo interrogativo.
Nel dattiloscritto inedito sulla Cvetaeva da me custodito, “Circonferenza di Marina Cvetaeva”, Nadia Campana scrive: ” ‘Il mio mestiere è la circonferenza’ diceva Emily Dickinson, racchiudendo in questa definizione la certezza fondamentale del poeta nell’enigma che racchiude l’esperienza.”
Si potrebbe rimanere ore a parlare del tema della ‘circonferenza’ e dell’ ‘esperienza’, importante per la Dickinson e per la Campana, ma  per il momento, mi limiterò a dire soltanto qualche cosa.
visione_postumaNadia ci ha detto che il pensiero del poeta non può essere strutturato,  tenuto sotto controllo, ibrido, freddo. Per Nadia cioè, “la teoria della circonferenza”, è la teoria di angeli danteschi, di una danza fortemente drammatica intrecciata con la storia e il dolore umano. La  parola della poesia per la Campana deve nascere quindi, da uno slancio, da un fluire della lingua, che incontrerà, alla fine,  la tragicità dell’esperienza umana che nulla ha a che fare con il pensiero strutturato o il credo politico. Nadia ci ha fatto capire che non bisogna temere di essere risucchiati o annientati dalla parola della poesia. Ci ha detto che non ci si può sottrarre a un sentire che io definirei,  “androgino”, capace  cioè, di individuare “l’altro da sé”,  per appropriarsene nella totalità “della circonferenza”  e congiungere, la vita dell’uno con quella dell’altro. Ecco perché Nadia ha scritto con assoluta determinazione che  “[…] le donne cantate dai poeti uomini quasi sempre non sono donne vere, cioè non appaiono nella loro concretezza, ma vengono evocate come apparenze meravigliose di cui però non si percepisce la vita.”
È chiaro quindi che la Campana ha inteso contrapporre il suo modo di intendere la poesia a quello del pensiero dominante, in auge fra gli anni Settanta e Ottanta. Nadia ha cercato la fedeltà della parola poetica, consegnata alla sua nudità, a  “quell’istante di bellezza iniziale che viene scoperto” . Nadia sapeva che soprattutto nella scrittura dei poeti-donna, tale sguardo si accende del calore della ‘simpatia’ e si fa ‘commovente’.
Nel saggio sulla Cvetaeva, Nadia ha tracciato una linea di demarcazione tra il maschile e il femminile e non perché lei credeva in questa separazione, ma perché sapeva che un modo ‘maschilista’ o peggio ancora ‘misogino’, non può comprendere l’altro da sé “dall’inizio alla fine”,  non può entrare in questa ‘circonferenza’, nella totalità dell’espressione, in un abbraccio senza mediazione, che riempie tutto, anche l’abisso che si spalanca sotto i piedi.
Come ho conosciuto Nadia Campana
Nadia-CampanaQuando mi trovavo a Milano alla fine degli anni Ottanta, ho avuto modo di ascoltare più e più volte la voce registrata di Nadia Campana in una conversazione telefonica con Antonio Syxty. Ed è attraverso una registrazione “involontaria”, (non consapevole da parte di Nadia e del suo interlocutore), che sono entrata in contatto con lei, nel 1986.  Non sapevo nulla di lei, ma nulla mi pareva più vero, della presa diretta su due voci che dialogano di poesia. Farò parecchie omissioni sul contenuto di quella telefonata per non offendere nessuno. Ricordo però  il tono pacato di Nadia,  una voce che in teatro si chiamerebbe “di petto”. Nadia parlava con Syxty di un testo di Antonio Porta e diceva testualmente: “Mi è piaciuto. È un libro di poesie adatto a mettere su teatro. […] materia teatrale.” E, aggiungeva: “Come ‘roba’ teatralizzabile, penso che sia indovinata questa mescolanza di moderno e melodramma, mi sembra bella…” […]
Io non so esattamente a quale raccolta poetica di versi di Antonio Porta si riferisse Nadia Campana,  quindi, vado per indizi… Ma spero mi correggerete qualora vi accorgeste che non è così.
Credo si possa trattare di “Invasioni”, (Mondadori, 1984) o quanto meno di un testo che sia databile nella cosiddetta “seconda fase” della scrittura di Antonio Porta. In “Invasioni” infatti,  il poeta  realizza un dialogo tra due linee e psicologie di scrittura: una densa e corposa, maschile, l’altra mossa da un’emozione vibrante, femminile, molto vicina a quell’idea di poesia espressa da Nadia Campana nella “circonferenza dickinsoniana”.
 

NADIA CAMPANA (1954 – 1985)

Ho fatto un grande sogno ma non ne ricordo
niente babbo amiamo le teste bruciate
dell’amore ma non la misericordia e
i chiodi come coltelli di gelosia
tra poco cadrà la strada su di te
spergiuro sulla mia infanzia scrivo
lettere se non mi dai da mangiare
i capelli mi diventeranno come crine
e come un fucile. Notte di lupi
sprangare l’angelo del vento
qui è la piega
dove non sarà nuovo morire
*
Guardiamo dalla cima del monte
il filo di calma che è nato
del mio petto tu conti ogni grano
e ogni cuore si prende di colpo
il suo tempo: un amore
è tornato e si è accorto
il suo disco ci copre.
Adesso tu devi guardarmi
per quella collana di sì
nella mia pelle che apre
la piana la strada
e i fondi della notte
i centesimi della sete
*
punta tenera di un dardo
ora io esisto ancora
sfinita dal correre è vero,
mi porti sulle ossa
finché la notte non mi contrari più
madre ogni minima cosa
*
il coltello segava segava
datemi un pane datemi un pane
ma questo no, sa di piume
e in bocca si fa masticare
come terra o sabbia dei morti
verso il centro conchiglie
e per questo accelero…
se l’incertezza non mi guarisce
trovo un’eco più potente
posso farlo, è la fine
anche se dietro non sono le orme
il filo dell’alba ha quest’ordine
                         da Verso la mente, Crocetti, 1990
 
nadiellaNadia Campana nata a Cesena l’11 ottobre 1954 è morta tragicamente a Milano nel 1985, a soli 31 anni. Dopo aver conseguito la maturità classica al Liceo Monti, il suo percorso prosegue con lo studio appassionato della letteratura classica e moderna, e delle coeve avanguardie, culminato nella laurea con Luciano Anceschi  su La poetica di Antonio Porta. Segue l’incontro con la letteratura anglosassone, gli studi semiotici, infine la scelta di vivere a Milano, dove si avvicina all’ambiente della rivista  Niebo, diretta da Milo De Angelis. Ha scritto in tutto una cinquantina di poesie raccolte nel libro Verso la mente, (Crocetti, 1990) pubblicato postumo, curato da Milo de Angelis e Giovanni Turci. Ha tradotto Emily Dickinson nel volume Le stanze di alabastro.

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