Progetto editoriale ideato e curato da
Fabrizio Fantoni
con la collaborazione di
Luigia Sorrentino
__
Beppe Salvia
di Claudio Damiani
Beppe Salvia[1] opera, nella seconda metà degli anni settanta, un rinnovamento della nostra poesia, un cambiamento di rotta che sarà poi gravido di conseguenze. Vorrei partire da una breve prosa poetica uscita nel primo numero di Braci, del 1980, intitolata Il lume accanto allo scrittoio, dove nella forma apparentemente banale di un editoriale, è annunciata questa rivoluzione:
Noi proviamo in questa notte a scrivere della vita e della morte. La letteratura ufficiale ancora adombra con grave e dimessa incuria la volontà di lenire (sorridere è uno stile come tacere) e ispira, subìto pentita, nuove rinnovate schiere di verseggiatori sentimentali e scolari giustamente beffardi. In queste nostre pagine dunque noi proviamo a far vivere ogni nostro dolore o limite o sofferenza o gioia poiché vogliamo ridare allo scritto, un pensiero vergato perché rimanga, il suo più immediato valore che è quello di partecipare esso stesso del vivere, e far vivere anche noi che fuggiamo altrimenti, nel suo duplice calore di ricordo e d’attesa. Poiché del presente il pensare è fuggiasco.
E noi, noi moderni, costretti a sperare o dimenticare, riviviamo ogni giorno un giorno troppo uguale. Si perde così ogni passione.
Anche perché le passioni non più scritte o coltivate in una scrittura interiore son tutte eguali.
E il piacere è gioia e la gioia è dolore.
E il ricordo felicità e la felicità dimenticanza.
Allora non più i nostri versi si ingannano se appaiono confusi, ma ben più grato è il nostro amore per essi se un disteso piacere li rende aggraziati e al contempo un rigore di pensiero li provi al diffuso dolore.
Per non rischiare di contemplare i nostri volti abbiano scritto di essi. Poiché un volto pur bello, e se bello ancor più, ha la virtù di sparire rimediarsi allontanare il suo più profondo rilievo.
Altrimenti in quelle parole a fatica tratte a descrivere passioni e orrori la bellezza è seconda. Il favore che ad esse parole scrivendo chiediamo è di rifletterci il volto mille volte lo stesso le mille volte che esso, è mutevole il tempo, s’acciglia e si trasforma.
Non è semplice chiedere questo; è come sedurre il destino, ma nell’opera è l’opera. Il merito e il valore ce ne disinteressiamo.
“Scrivere della vita e della morte”, eccola qui la “vita nuda”, intera, integrale, con la sua morte accanto. Scrivere perché la vita resti, togliersi dal flusso postmoderno dell’usa e getta, della deperibilità, dall’ideologia del gioco e della vergogna, scrivere per davvero e non per finta, con uno scrittoio vero, e un lume vero, nella notte in cui siamo tutti. Scrivere perché siamo veri, e non fantasmi, e la nostra vita ci chiede di essere scritta, fermata nelle sue infinite immagini che sono la nostra carne il nostro cuore la nostra anima.
Scrivere con un “lume” (parola un po’ desueta, ma breve, splendida, che Salvia rimette al centro) e uno “scrittoio”. Scrivere non solo con lo scrittoio, come s’usa, ma con “lume”, anche. Scrivere con una lingua vera, che si raccolga tutta, che chiami all’appello se stessa, che si confronti con tutta la lingua di tutta la poesia. Che chiami la poesia come nella nostra lingua è suonata, e ancora suona, è chiamata. Scrivere con una lingua che parli non solo ai contemporanei, ma anche agli antichi, e ai posteri. Una lingua per tutti i tempi, come è stato sempre dell’arte.
C’è in Salvia, in un momento di grande stanchezza e nichilismo della nostra cultura, in un momento di pensiero e di letteratura debole, una reazione assolutamente forte di arte, una fede nuova nella poesia, e nella sua possibilità di dire noi e le nostre cose, noi tutti interi, che “altrimenti” fuggiamo.
Sillabe è il titolo di una delle ultime sezioni di Cuore, sono cinque poesie (tutti sonetti non rimati), tra le ultime scritte da Salvia (uscirono postume nel numero 16 di Nuovi Argomenti nell’85), e le riportiamo tutte di seguito in questa antologia. La parola “sillabe” potrebbe far pensare a qualcosa di minimalistico, o di ermetico addirittura. Ma le parole che si compongono sono piene e intere, nitide e semplici come negli abbecedari dell’infanzia, piene di colore e di vita, di dolore e di disperazione, e di speranza.
C’è una nuova casa e una nuova vita, fatta di sola anima, di sola ombra. La casa è rotta, fradicia, ma guarda dal terrazzo su una visione bella, una città pacificata. Guarda dal suo cuore indistruttibile interno dentro la beatitudine, come un soldato ferito morente guarda finalmente il cielo e non vuole che il cielo.
Adesso io ho una nuova casa, bella
anche adesso che non v’ho messo mano
ancora. Tutta grigia e malandata,
con tutte le finestre rotte, i vetri
infranti, il legno fradicio. Ma bella
per il sole che prende ed il terrazzo
ch’è ancora tutto ingombro di ferraglia,
e perché da qui si può vedere quasi
tutta la città. E la sera al tramonto
sembra una battaglia lontana la città.
Io amo la mia casa perché è bella
e silenziosa e forte. Sembra d’aver
qui nella casa un’altra casa, d’ombra,
e nella vita un’altra vita, eterna.[2]
E’ questa casa il sogno di un riposo, di una quiete, di una vita nuova, e al tempo stesso un ritorno all’infanzia, alle parole semplici e povere di un abbecedario (anticipate già in Cieli celesti e Primavera, precedenti sezioni di Cuore), a quelle case che si disegnano da bambini, con la finestra, la porta, il sole. Come averla conclusa, già salutata la vita, battaglia che s’allontana dalla nostra vista, e s’avvicina una nuova vita, e una nuova casa, eterna.
il mare è vasto e azzurro come il cielo,
e di questa ritmica melodia
vibrano foglie e fiori e le chiome
ampie dei pini. La malinconia
un tempo m’afferrava quando, vecchio
calligrafo di grigi fogli, ferro
e fuoco sono i versi, della casa
mia infinita, le persiane verdi
e il rosa scialbo e l’edera già grigia,
io sognavo inutilmente. Adesso
io amo questa nostra vita mite
e quei colori e quei versi, e tutta
infinita grandezza e la pazienza
del nulla attorno a queste sillabe.[3]
“Ferro e fuoco sono i versi”, altro che la “leggerezza” di cui si parlava tanto in quegli anni! E “portatore di fuoco” è per Salvia il poeta (lo splendido poemetto Il portatore di fuoco, uscito nell’’82 in una pubblicazione collettiva introvabile, è fortunatamente riapparso tra le Poesie disperse di Un solitario amore[4]), e questo è il senso più vero di Braci, corpi accesi, pura vita che brucia nelle mani del poeta.
Nel terzo sonetto è spiegata la semplificazione della parola e della lingua, come illimpidimento e chiarificazione, sogno di quiete e di bellezza in “prigioni” necessarie (come prigione necessaria è la casa, la nuova casa della prima delle Sillabe) dopo oasi di ambiguità e di errore, “mari d’assenza e di dolore”:
in cielo i nuvoli son grandi vele
bianche, velieri. Io voglio per mare
un fondo di bottiglia e davvero
esitare a scrivere, non vere
le parole han bisogno di severe
prigioni dove snebbiare; più terse
allora seguiranno il verso giusto,
più vere eviteranno le maldestre
oasi d’ambiguità che son rare
ai deserti e frequentissime dove
il deserto è la folla delli errori,
e degli uomini incerti qui nei mari
d’assenza e di dolore. Come fiori
di mandorlo e di pesco le parole.[5]
Torna nel quarto la prigione e la solitudine. Il desiderio irrefrenabile di uscire fuori e l’impossibilità. L’essere tutti noi come cani solitari vagabondi, con dentro un cuore infinito, e negli occhi il cielo, essere la nostra vita solo sogno, “e nulla più”:
Abbiamo nel cuore un solitario
amore, nostra vita infinita,
e negli occhi il cielo per nostro vario
cammino. Le spiagge i cieli, la riva
su cui sassi e rovi e il solitario
equisèto, e colli erbosi grassi
rioni, città dispiegate come
belle bandiere, e nude prigioni.
Questa è la nostra vita. Questi nostri
volti vagabondi come musi
di cani ci somigliano. Il vento
il sole le corolle rosse e blu,
i sogni mai sognati i nostri sogni.
Questa è la nostra vita e nulla più.[6]
Negli occhi il cielo, e il cielo fuori, lo stesso cielo. E tutte le cose nel nostro vagare ai nostri occhi, come di cani rasoterra vaganti qua e là tra spiagge, cielo, sassi, rovi, e insieme anche dall’alto, come occhi celesti, fino a vedere dall’alto anche le città degli umani, con le loro bandiere e le loro prigioni. E come al nostro vagare ci viene incontro il mondo, con spiagge, cielo, sassi, rovi, e il solitario equiseto, e poi colli, rioni, città. Vedete: tutte parole ferme e piene, luminose e intere, interamente dette e suonate, calme e tutt’uno con la cosa, come negli abbecedari dell’infanzia, nuove e antiche, capaci di attraversare il tempo, come in Petrarca, in Pascoli. Parole generalmente brevi, e piane, a parte il “solitario equiseto”, la cui lunghezza e tortuosità sottolinea la sua solitudine e diversità, ma anche eleganza, fragilità, bellezza.
Ed ecco, alla fine, l’arte che ritrae in sé tutta la bellezza del mondo, che coniuga il nostro terrazzo con gli odori di mari lontani, e quegli odori con “queste vicine piante di odori” (si sente L’infinito di Leopardi). Ma i colori son pochi e la tela è “bianco nulla”, e la città brucia come un inferno lontano, e all’alba “già nulla è la vita”:
È quasi primavera, io dipingo
già fuori sul terrazzo, tra odori
di mari lontani e queste vicine
piante di odori. La salvia la menta
il basilico e i sedani dipingo
su tele bianche con pochi colori.
Il verde perché son verdi le piante,
e bianco il bianco nulla della tela,
e il rosso dei tramonti su la vela
del cielo che apre un teatro vero
e questi miei pensieri. Io dipingo
la sera quando i tormenti più vivi
accendono il cielo e bruciano il cuore,
e all’alba quando già nulla è la vita.[7]
Chiudo questa breve antologia salviana con un testo che, in Cuore, segue le Sillabe e è tra le ultime poesie del libro, e tra le ultime scritte da Beppe.
C’è anche qui la sera della Sillabe, quel tramonto sulla città che sembra un incendio lontano, ma più dolce e silenziosa. E’ una lettera a una donna dal nome mite, Serena, e insieme un testo estremamente complesso, una grande sintesi, un testamento.
Torna la sapienza delle Sillabe, “una più vasta scienza”, agognata come un frutto infantile; è l’arte delle Sillabe, il mondo vasto colorato e libero visto dal terrazzo della nuova casa. E torna l’impossibilità di vivere, che chiude (ma anche apre) le Sillabe, l’impossibilità di contenere tutto questo vasto mondo nella solitudine, “in questi tempi segnati dal segreto di cui s’invade la nostra intimità”. La nostra intimità, il nostro cuore, è invaso da un segreto, una segregazione che l’uccide:
Lettera
Viene la sera, è vero, silenziosa
piove una luce d’ombra e come
fossero i nostri sensi inevitabili
improvvisi, noi lamentiamo
una più vasta scienza.
Aver di quella il frutto
appariscente, la bella brama,
e l’ombra perfino, di sussurri
e di giochi, come bimbi.
Ma io lo so Serena io non posso,
in questi tempi segnati dal segreto
di cui s’invade
la nostra intimità,
vivere adesso se non con tale affanno
e così lieve.
Di questo amaro stento già si fa più vero
un sentimento pago di letizia, al modo
che alla sera insieme
andando per le strade
chiare, l’ho visto, d’ombra
e di segreto,
noi siamo tra i perduti lumi
esseri più miti di chi
venuto prima di noi
ebbe solo a soffrire
salvi quasi per caso, e in questo prodighi.
I baci sono bellissimi doni.[8]
C’è in Salvia sempre la visione di qualcosa di molto bello che vorremmo prendere ma non possiamo prendere, come un bambino davanti a una vetrina di meravigliosi, intoccabili balocchi. E quindi, come in questa poesia, la consapevolezza di una “più vasta scienza”, di un tempo nuovo di pace e bellezza che forse sta per arrivare, ma non è ancora venuto. Sentiamo di questo tempo di gioia la musica, mentre ci allontaniamo nella sera, “perduti lumi” di consapevolezza, “salvi quasi per caso”.
[1] Beppe Salvia (Potenza, 1954 – Roma, 1985), dalla nativa Lucania a Roma nel ‘71, comincia a pubblicare testi poetici dal ‘76 su varie riviste (tra cui Nuovi Argomenti), nell’’80 fonda la rivista Braci con Claudio Damiani, Arnaldo Colasanti, Gino Scartaghiande e Giuseppe Salvatori. Collabora intensamente a Prato Pagano, prima almanacco e poi rivista. Muore suicida a Roma nel 1985. Tutti postumi i suoi libri: Elisa Sansovino, Estate, Quaderni di Prato pagano, Il Melograno-Abete Edizioni, 1985; Cuore (cieli celesti), Rotundo, 1988; Elemosine Eleusine, a cura di Arnaldo Colasanti, Edizioni della Cometa, 1989. Suoi testi di poesia e di prosa sono raccolti nell’antologia I begli occhi del ladro, a cura di Pasquale Di Palmo, Il Ponte del Sale, 2004, mentre Un solitario amore (a cura di Emanuele Trevi e Flavia Giacomozzi, Fandango, 2006) raccoglie integralmente i primi due libri del 1985 e del 1988, insieme a una scelta da Elemosine Eleusine e ad alcune poesie disperse.
[2] Cuore, op. cit, p. 115.
[3] Cuore, op. cit, p. 116.
[4] Un solitario amore, op. cit., pp. 220-3, dove è riportata anche, in calce, la data di composizione, 1980. Il poemetto uscì nell’82 in Poesia verso…, C.C.R-S., BNL, a cura di Luigi Amendola e Francesco D’Alessandro, poi in Istmi – Tracce di vita letteraria, n.1, a cura di Eugenio De Signoribus, dicembre 1996.
[5] Cuore, op. cit, p. 117.
[6] Cuore, op. cit, p. 118.
[7] Cuore, op. cit, p. 119.
Un bravo poeta che non conoscevo per cui la poesia non era un gioco… una cosa seria come la vita. I suicidi hanno dei momenti di debolezza, un attimo, un istante, e la vita se ne va… non si lascia dominare… i poeti si pensano immortali ed in effetti lo sono.
Grazie a Damiani per questa presentazione ben scritta. (Le pagine di giornale sono illegibili)
“Non voglio più star male…” Credo che questa frase denunci la malattia del poeta, il suo male profondo: la depressione, di cui molto probabilmente soffriva… Anche quando, parlando della primavera, dice: “in questi tristi giorni di primavera…” esprime il tipico atteggiamento del depresso nei confronti della stagione più gioiosa dell’anno, poiché i depressi d’umore nero e tristissimo non sono in grado di accogliere tanta festa e vitalità, per cui il divario con la forza creativa della primavera si dilata in modo intollerabile. La primavera è la stagione più pericolosa per chi soffre di “malinconia”, la più a rischio di suicidio… Posso dirmi esperto del “male oscuro”, poiché l’ho sofferto per decenni, venendone fuori solo utilizzando i farmaci più recenti e nel modo più consapevole, intorno agli anni ’90… Anche aiutato dal fatto d’essere medico.
Non ho conosciuto personalmente Beppe Salvia, e, anche se lo avessi conosciuto, non mi sarei mai permessa di etichettarlo come “depresso”. Cosa dire di Holderlin? E che cosa di Paul Celan? Per fare un salto in Italia, cosa dire di Amelia Rosselli, o di Alda Merini? Niente. Non si può dire niente. Quello che resta è la loro poesia, ed è l’unica cosa che conta.