In libreria dal 18 febbraio 2015
L’antologia poetica, “La ragazza dal fiore pervinca”, pubblicata da DelVecchioEditore, copre tutto l’arco della produzione poetica di Miroslav Kosuta, che si evolve da ormai cinque decenni in un costante processo creativo, e ricopre un posto fondamentale nella produzione lirica slovena contemporanea.
Kosuta, originario di un villaggio nei pressi di Trieste si colloca in quella generazione di artisti della parola fiorita dopo la Seconda Guerra Mondiale, in intimo contatto con la cultura letteraria slovena del tempo: privilegio di cui la generazione precedente, cresciuta sotto il fascismo, non aveva potuto fruire.
Nei primi decenni del dopoguerra la poesia di Kosuta spazia attraverso fasi alterne e antitetiche. La sua poesia resta pregna di echi e influenze legati allo spazio geografico in cui veniva elaborata, uno spazio esposto da tempo a influenze contrastanti di cultura slovena, italiana e germanica, in cui l’identità degli sloveni, la loro coscienza nazionale e la loro lingua sono particolarmente vulnerabili alle sirene del nazionalismo.
Nelle liriche di Kosuta si coglie quindi tutto l’inquietante destino personale e nazionale, inserito spesso in modo evidente nel paesaggio che si estende da Trieste a Duino. Con immagini di tangibile realtà quotidiana (immagini di mare, barche e scogli, reti stese, alghe secche, vele gonfie, ma anche pietre carsiche, vigneti, cespugli di sommacco), il poeta canta il male di vivere, racconta la storia nazionale e sociale della sua gente senza indulgere in toni declamatori, patetici o ampollosi, ma riuscendo, a volte con ironia e acre sarcasmo, a farsi interprete di un’esperienza profondamente umana.
Della poesia: io, un poeta sloveno di Trieste
di Miroslav Košuta
Sono nato in un paese dell’altipiano, alle porte di Trieste, in un tempo lontano, molto lontano, in cui gli unici italiani del luogo erano i carabinieri (mandati per controllarci) e le maestre (per italianizzarci). Forse ci sarà stata pure qualche famiglia che parlava un dialetto diverso dal nostro, ma evidentemente erano dei poveri diavoli come noi e non stavano sull’altra sponda. Sono nato nell’Anno xiv dell’Era Fascista. Questo ha condizionato tutta la mia vita: nel resto del mondo correva l’anno 1936. Sono nato in un paese dove la mia famiglia aveva le sue radici da secoli, un paese con una splendida vista sul golfo e sulla città di Trieste, purtroppo, però, in un’epoca in cui gli sloveni venivano dichiarati razza inferiore e quindi da estirpare, la loro lingua era proibita e i loro libri bruciati, i cognomi italianizzati, i nomi imposti. Sono nato in una famiglia che amava i libri e li nascondeva in ogni dove come il bene più prezioso. Crescendo, imparavo a memoria poesie e brevi racconti (nel nostro piccolo quasi anticipando Ray Bradbury e il suo Fahrenheit 451, un romanzo fantapolitico memorabile, ma non troppo lontano dalla realtà). Leggevo cose che a volte nemmeno comprendevo del tutto, ma mi inebriavano il timbro, la melodia, una musica così diversa da quella lingua che mi veniva imposta a scuola, e con il sapore aspro del proibito. C’era in me come in tutti noi lo spirito della rivolta, la fermezza di resistere, la volontà di sopravvivere e di non arrendersi, non arrendersi mai. Non è un caso se i primi insorti contro il fascismo in Europa siano stati fucilati sull’altipiano carsico alle porte di Trieste.
Perciò le immagini di quei giorni e di quella gente sono velate da qualcosa di incomprensibile a me stesso e non di rado mi chiedo: sono cose realmente vissute o puro frutto di una troppo fervida fantasia? È questa una domanda che mi si pone ogniqualvolta cerco di capire, senza risentimento e rancore, le dure leggi della natura che riguardano la nostra comunità. Ciò che è successo e succede ancora di tanto in tanto è stato difficile da capire, impossibile da accettare. Io sono nato sloveno, ma non è per questo che appartengo alla minoranza. Sono nato qui dove sono nati i miei genitori e i genitori dei miei nonni e faccio parte di quella comunità di sloveni in Italia che da troppo lotta per la propria sopravvivenza. Ma la vera minoranza è un’altra.
La topografia è cambiata, è cambiata la vita, cambia solo lentamente la città, chiusa in falsi miti. Si vive dunque feriti nell’onore e nell’amore. Poiché io amo questa città, l’ho amata da sempre e continuo ad amarla, malgrado tutto e tutti. E non so se mi offende di più il rapporto di taluni con la nostra comunità, questo continuo ignorarci e d’improvviso ricordarsi della nostra eterna presenza in momenti di difficoltà come causa di tutti i mali di Trieste, o questo degrado, costante e inarrestabile, la sua mancanza di voglia di vivere, di rivivere, il suo arroccarsi in difesa di cose che non esistono (ma sono mai esistite?), e che comunque non hanno un futuro. Ogni tanto c’è, per fortuna, qualche spiraglio di luce, qualche leggera brezza che sa di aria pura, ma a volte, poi, tutto ripiomba nell’immobilità e il golfo ridiventa uno stagno.
La vorrei bella e sfrontata, senza falsi pudori (in fondo è una signora di una certa età), aperta ai vicini e ospitale con i passanti. La vorrei solamente così com’era una volta, un interminabile cantiere, una piazza piena di genti di costumi e tradizioni diverse, un cinguettio di voci, di parlate dolci o rudi, un intrecciarsi di canzoni, di preghiere, di imprecazioni che sanno di Nord e Sud, di Oriente e di Occidente, incontratisi per costruire, per mercanteggiare, per conoscersi. Un porto, un faro.
E la minoranza? Ah, già: la vera minoranza in questa città non è la comunità slovena, ma siamo quelli (anche sloveni, questo sì) che guardano al futuro.
È un’abitudine di pescatori e marinai la mattina alzare gli occhi al cielo e poi volgere lo sguardo all’orizzonte per scrutarlo profondamente. Così anch’io pensando a questa mia città guardo il cielo e l’orizzonte: il cielo è incolore, slavato, ma l’orizzonte a volte è ancora cupo.
E la frontiera: questa frontiera fa parte del mio percorso, poiché sono nato nel Regno d’Italia, quando il ricordo dell’impero austro–ungarico era ancora vivissimo. Da ragazzo sono stato poi inglobato nell’Adriatisches Küstenland[1]; nel 1945, dopo quaranta giorni di amministrazione jugoslava, sono passato per quasi dieci anni sotto il governo del Free Territory of Triest – Territorio Libero di Trieste – Svobodno tržaško ozemlje, e infine assegnato alla Repubblica Italiana.
È difficile ammetterlo, ma devo farlo: sono cresciuto rancoroso nei confronti di quella lingua imposta con cartelloni tricolori e scritte: qui si parla soltanto italiano. Era la lingua dei carabinieri che hanno arrestato e deportato mio padre, quella della maestra che mi ha schiaffeggiato, perché non la capivo. Non capivo quale era il mio nome. Solamente più tardi ho scoperto che l’italiano era soprattutto la splendida lingua di Dante, Petrarca, Leopardi e di coloro che pure hanno guidato i miei primi passi nel mondo della poesia: di Umberto Saba, di Giuseppe Ungaretti e anche una delle due lingue di Pier Paolo Pasolini.
Ed è stato proprio Pasolini uno dei primi scogli da registrare sulla mia mappa nautica, un’isola con un faro, da tenere d’occhio e comunque da evitare. Il suo impegno artistico e sociale era di un fascino dirompente, il suo valore, la sua incisività sono ancora tangibili. E lo erano in maniera ancora più pregna allora, in quel delicato periodo di rinnovamento della società e dell’arte in Italia.
Ma dall’altra parte del confine orientale la letteratura slovena cambiava registro. Essendosi la guerra di liberazione trasformata in rivoluzione, nasceva una nuova società in cui l’impegno dei poeti portava il segno opposto a quello degli italiani: contro i dettami del realismo socialista si lottava per imporre l’individualismo e l’intimismo.
Così hanno inizio le mie tribolate scelte poetiche: a ogni angolo un bivio, a ogni bivio una decisione, giusta e sbagliata nel medesimo istante, perché sentivo di appartenere a due mondi che giravano in orbite diverse. E non volevo perdere contatto né con la mia gente né con la mia città, né con il flusso della letteratura slovena né con la realtà sociale europea, ma soprattutto non volevo tradire quel ragazzo dal nome e cognome storpiati, che continuava a vivere con la ferma volontà di difendere la lingua degli avi, cercando di impreziosirla con le particolarità della parlata ai bordi del territorio nazionale sloveno, sulle rive dell’Adriatico che è pure Mare Nostrum.
In fondo credo abbiano prevalso la mia natura, il mio essere schivo, il mio vivere appartato, ma obbligato dagli impegni professionali a stare per tutta la vita in scena e tra la gente.
Premesso tutto ciò che so sui confini, intriso delle mie esperienze e sofferenze personali, devo sottolineare come la frontiera rappresenti, per quanto mi riguarda, non tanto un limite nello spazio, un segno sul mappamondo o sui documenti catastali, ma una meta da raggiungere: non dunque un capolinea, ma una partenza. Dunque non una cosa che riguarda Codici civili o decisioni internazionali, ma una questione di volontà e talento, di visione del mondo e di statura morale.
La mia non è che la flebile voce di un uomo, casualmente anche poeta, che ha vissuto e sofferto i confini, salvato dalle radici profonde e dall’amore per la vita in tutte le sue sfaccettature. Di un uomo che accoglie con rispetto chi arriva e segue con trepidazione chi se ne va verso l’orizzonte. Mi è, però, difficile respirare negli spazi angusti di una città che ormai da troppo tempo va alla deriva. Di una città? Di una regione? Di un Paese?
Cerco di inquadrare una realtà che crede di poter vivere fuori dal tempo, come in una inespugnabile rocca sulle rive del fiume impetuoso della Storia. Magari raccontando favole di prosperità ai ragazzi senza futuro, che ai bordi dei campi dell’oratorio, avvolti in sbiadite bandiere rossoalabardate, sognano glorie calcistiche d’altri tempi; o lungo i binari vuoti dove si animano le interminabili discussioni sui pro e i contro che riguardano collegamenti velocissimi con l’Europa e l’Asia, mentre è stato soppresso l’ultimo accelerato per il Friuli.
Il vorticoso ruotare del mondo è inarrestabile, ma nel golfo la gente spera in un colpo d’ala, in un volo con un bianco gabbiano che è, forse, solo il riflesso dell’aquila bicipite di latta arrugginita, intravisto tra i cimeli di un museo k und k[2].
Non credo questo basti per essere un poeta di frontiera: non lo è certamente Umberto Saba, cresciuto al seno di una nutrice slovena, che non ha, però, saputo o voluto riconoscere l’esistenza della nostra comunità, pur appartenendo egli stesso alla minoranza ebrea. Entrambe furono senz’altro fondamentali per Trieste. Lo avrebbe potuto fare anche dopo il primo abbraccio intimo con una donna, per caso pure lei slovena, o bevendo l’aspro vino di un nostro viticoltore, ma al venerato poeta evidentemente è venuto a mancare il coraggio. Una poesia l’ha scritta, una bella poesia da antologia, quasi subito tradotta anche in sloveno da un altro grande poeta di queste terre, Alojz Gradnik, figlio del Collio, di madre friulana. Parlava dell’“italo e dello slavo” che a tarda notte si incontrano al Caffè Tergeste attorno al tavolo da biliardo. Ma pare che quell’accenno «di carattere conciliativo, agli slavi di Trieste, che i nazionalisti di allora (e forse anche quelli di oggi) gli rimproverano, a torto o a ragione, acerbamente», come scrive egli stesso nella cronistoria del Canzoniere, sia stato uno sbaglio che non andava ripetuto.
Poesia di frontiera è secondo me una definizione di cui non si può abusare, riferendosi a tutti i poeti la cui opera viene in qualche modo toccata dal confine. Ma se vi convergono passione rivoluzionaria e statura morale, allora certamente si tratta di un contesto di poesia di frontiera. E si impone in questo senso il nome di Pier Paolo Pasolini. O di un altro grande contemporaneo, morto a ventidue anni (ma vivo più che mai) che ha rivoluzionato la poesia slovena e allargato il suo campo in modo prima impensabile, ai limiti dell’irraggiungibile – Srečko Kosovel, geniale e visionario figlio del Carso triestino.
Miroslav Košuta
[1] L’Adriatisches Küstenland fu il nome del litorale adriatico, sottratto al controllo della Repubblica Sociale Italiana dopo l’8 settembre 1943 e sottoposto alla diretta amministrazione militare tedesca. Si tratta di un territorio che comprende le città di Udine, Gorizia, Trieste, Fiume e Lubiana, annesse all’Italia dopo la Grande Guerra a seguito del Trattato di Rapallo del 1920. Vi fu istituito, unico in territorio italiano, un campo di concentramento con forno crematorio, la Risiera di San Sabba a Trieste.
[2] Con k und k s’intende: “kaiserlich und kröniglich”, dunque, dal tedesco, “imperiale e regio”, sigla entro la quale si riconoscevano gli enti della pubblica amministrazione austro–ungarica.
Prvi sklop – Izvor / Primo ciclo – Origine
Pesem o morju
Kadar zaspiš izmučena,
mehka voda, ki so jo ukrotile
trave bregov, kadar zaspiš
s senco strogega vrbja
in z globokim čelom, sanjaš, da je morje
blizu, da se v tolmunih peni
galebji krik.
Tedaj razvijem od časa sprano jadro,
čakam veter od juga, čakam
veter od vzhoda,
božam mrtvi jambor.
In ni vetra od severa
in od zahoda ga ni.
Kje je moje morje, kje si,
prekleti veter, tulim
s pijanim grlom kakor vsi stari mornarji
in iščem po obzorju. Vidim
le tvoje tolmune.
Božam mrtvi jambor.
Razparam staro jadro.
Del mare
Quando ti addormenti sfinita,
morbida acqua domata
dall’erbe degli argini, quando ti addormenti
con l’ombra di salici severi
e con la fronte profonda sogni il mare
vicino, e un grido di gabbiano
schiumare tra i tuoi gorghi.
Svolgo allora la vela logora di tempo,
aspetto il vento di meridione, aspetto
quello di levante,
accarezzo l’albero morto.
E non c’è vento da settentrione
e non ce n’è di ponente.
Dov’è il mio mare, dove sei,
maledetto vento, urlo
con gola ebbra come i vecchi marinai
cercando all’orizzonte. Vedo
soltanto i tuoi gorghi.
Accarezzo l’albero morto.
Squarcio questa vela antica.
Drugi sklop – Beseda, stih / Secondo ciclo – La parola, il verso
Vonj zrelega
Vonj zrelega sadja,
mrak jutranjega neba
in prvi kriki
na peščinah,
stopinje, ki se blešče
kot bele školjke
v produ, hladni,
dolgi požirki odmevov –
tu si in tu ostaneš
in še tako velik
se ti kot drobno zrno
skrijem v molk.
Profumo di maturità
Profumo di frutta matura,
il cielo ambrato del mattino,
le prime grida
sulla spiaggia arenosa,
e orme, splendenti
come bianche conchiglie
sul greto, e lenti,
freddi sorsi di echi –
sei qui e qui rimani
e seppur sì smisurato
come minuto seme
mi celo nel tuo silenzio.
*
Ostani
Ostani suhi jezik molka.
Ogradi se v peščino
na obali. Školji
naj ne spoznajo
tvojega koraka,
naj jih ne opija
slana voda s tvojih nog.
Ostani suhi jezik molka.
Zagrebel te bom
v alge, v slepo peno.
Sam bom gledal
tvoje modre žile.
Nanosil ti bom mračnega
bršljana, da mi
njegov in tvoj okus
bo vezal grlo.
Rimani
Rimani, lingua arsa di silenzi.
Recingiti in quella sabbia
sulla riva. Gli scogli
non riconoscano
il tuo passo,
e non si inebrino
col salso d’acqua dei tuoi piedi.
Rimani, lingua arsa di silenzi.
Ti seppellirò
nelle alghe, nella spuma cieca.
E solitario osserverò
le tue vene blu.
E ti sommergerò
di edera oscura,
che il suo e il tuo sapore
mi stringano la gola.
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Miroslav Kosuta è nato a S. Croce di Trieste (Kriz) nel 1936. Ha frequentato il liceo scientifico sloveno di Trieste e continuato gli studi all’Università di Ljubljana, dove si e’ laureto in letteratura comparata e teoria letteraria. È stato redattore alla Radio di Ljubljana e dopo il ritorno a Trieste, tra l’altro, per più di vent’anni direttore artistico del Teatro Stabile Sloveno. Vincitore nel 2011, del PREMIO PREŠEREN, il più alto riconoscimento culturale in Slovenia, per la sua poesia e il suo contributo alla conservazione della lingua slovena in Italia
«Nel suo rapporto con Trieste, tuttavia, Kosuta non si limita a farsi cantore di una problematica nazionale, ma diventa anche testimone della generale decadenza della città.» Marija Pirjevec
Testo originale a fronte, DelVecchioEditore 2015 – euro 15 –