E’ nelle librerie italiane, Coral Bracho, con la raccolta di poesie: Quello spazio, quel giardino, Edizioni Kolibris 2014 – Collana Quetzal, Traduzione di Chiara De Luca, (14 euro)
Coral Bracho è nata a Città del Messico nel 1951. Tra i suoi libri di poesia ricordiamo: Peces de piel fugaz [Pesci di pelle fugace, 1977], El ser que va a morir [L’essere che va a morire,1982], Bajo el destello líquido [Sotto lo scintillio liquido,1998, che raccoglie i suoi libri precedenti], Tierra de entraña ardiente [Terra dalle viscere ardenti, 1992, in collaborazione con la pittrice Irma Palacios), il volume che riunisce i titoli precedenti Huellas de luz [Orme di luce, 1994] e La voluntad del ámbar [La volontà dell’ambra,1991] Ese espacio, ese jardín [Quello spazio, quel giardino, 2003], che ha ricevuto lo Xavier Villaurrutia Prize e Cuarto de hotel [Stanza d’albergo, 2007]. Nel 1981 le è stato assegnato il Premio Nazionale di Poesia Aguascalientes per El ser que va a morir. Fa parte del Sistema Nacional de Creadores de Arte ed ha ricevuto una borsa di studio della Fondazione Guggenheim
VI
Passa la volpe bianca sotto un altro piano;
la sua orma incendia la montagna. Risa:
giallo che canta. Tiepidi soli
davanti all’azzurro.
Un ruscello nelle fiamme,
uno sciame di luce il mormorio del pioppo;
un sussurro di sabbia,
di semi.
La volpe guarda, si nasconde; è anche la neve.
Ogni sole che s’insedia nel suo candore è già di quiete un mare
ogni moneta soave,
ogni foglia precisa e smussata una soglia,
un silenzio avvolgente.
*
E cosa
se quello che passa tra le siepi;
se quello che scende
e si trattiene davanti all’incavo d’accesso della morte
è un bambino?
E se quella bambina che torna,
attraversa la sala, il cerchio
degli sguardi, di lutto – lei,
quella che sfuggiva la sua traccia,
il suo peso lí,
il suo vuoto oscuro, correndo,
volteggiando e correndo a grandi falcate tra mobili privi di gesto?
Lei, in cui un profondo pozzo di dolcezza già s’invischia
e ordisce radichette e venature, profondi orti – entra
rabbrividendo,
in quella sala, e da lì la intravvide:
un gradino di ghiaccio
e un altro?
*
E cosa di questo dolore senza fondo,
di questo mare che già si va vuotando, nero
tra il nero sconfinato? Qualcosa di falso
trema, si nasconde dentro.
Un alfiere; un perimetro.
Una fessura che così respira.
Sgorbio che finge:
e lì il suo assurdo, la sua persistenza,
il suo abietto sfoggio. Aizzante
e fallace
è il vuoto: Nulla
che in esso si risvegli.
Solo alterigia.
Solo il suo errore sghembo.
Imperturbabile.
Un istante,
anche solo un istante del calore del suo corpo,
la sua viscerale estensione.
Solo un istante
dei suoi occhi, delle sue mani!
tenace il vuoto tutto ammutolisce,
– Nulla, nessuno
che in esso si svegli.
*
La volpe femmina guarda,
si ferma.
Anni, secoli, vedendo neve. Vedendo quiete
sulla montagna.
*
E come, da lì,
da questo filo, questo grido
trattenuto, da quell’aspra
orfanezza, si estende un regno?
Tra i cristantemi una soave lucenetezza. Una parola,
una trama.
*
Tutto il peso,
il delirio, della pietra, la sua vastità,
traspare.
Tutto il riflusso ardente della pietra.
Questi tratti lievi e freschezza
la montagna; la sua luce.
Lenta cascata nella calma il suo compatto cristallo.
Lenta, tornita fiamma
il suo interno gesto contenuto: Mare
che protegge. Respiro intatto
che protegge.
Brace profonda che fluisce e si leva
da un altro tempo,
sotto un altro rapimento, altre fessure.
Tutta la pietrosa frana delle nubi,
la sua tornita unità.
*
E come, da qua, da questo specchio
che si raggomitola?
Altro
lo sguardo animale,
la sua profondità soave, la sua carezza. Tempo che si sprigiona
tra le foglie.
VI
Cruza la zorra blanca bajo otro plano;
su huella enciende la montaña. Risas:
amarillo que canta. Soles templados
frente al azul.
Un arroyo entre llamas,
un enjambre de luz el murmullo del álamo;
un susurro de arena,
de semillas.
La zorra mira, se esconde; es también la nieve.
Cada sol que se asienta en su blancura deja un mar de quietud
cada moneda suave,
cada hoja precisa y redondeada un umbral,
un silencio que envuelve.
*
¿Y qué
si aquel que cruza entre los setos;
si aquel que baja
y se detiene ante el brocal hundido de la muerte
es un niño?
¿ Y si esa niña que vuelve,
cruza la sala, el cerco
de miradas, de luto –ella,
la que rehuía su rastro,
su peso ahí,
su hueco oscuro, corriendo,
volteando y corriendo a trechos entre muebles sin gesto?
¿Ella, en quien un hondo pozo de ternura se enreda ya
y urde veneros y raicillas, profundos huertos– entra
tiritando,
a esa sala, y de ahí la entrevé:
Un peldaño de hielo
y otro?
*
¿ Y qué de ese dolor sin fondo,
de ese mar ya vaciado, negro
entre lo negro sin bordes? Algo ficticio
tiembla, se burla dentro.
Un alfil; un perímetro.
Una fisura que así respira.
Garabato que finge:
y allí su absurdo, su persistencia,
su abyecto alarde. Azuzante
y falaz
es el vacío: Nada
que en él despierte.
Sólo altivez.
Sólo su error oblicuo.
Imperturbable.
Un instante,
un instante tan sólo del calor de su cuerpo,
su entrañable extensión.
Sólo un instante
de sus ojos, sus manos!
Acallante y tenaz es el vacío,
–Nada, nadie
que en él despierte.
*
La zorra mira,
se detiene.
Años, siglos, de ver la nieve. De ver quietud
en la montaña.
*
¿ Y cómo, desde ahí,
desde ese filo, ese grito
retenido, desde esa abrupta
orfandad, se extiende un reino?
Un brillo suave entre los crisantemos. Una palabra,
una textura.
*
Todo el peso,
el delirio, de la piedra, su vastedad,
se transparenta.
Todo el reflujo ardiente de la piedra.
Es trazos leves y frescura
la montaña; su luz.
Lenta cascada entre la calma su ceñido cristal.
Lenta, torneada flama
su interno gesto contenido: Mar
que resguarda. Aliento intacto
que protege.
Brasa profunda que fluye y se alza
desde otro tiempo,
bajo otro rapto, otras fisuras.
Todo el deslave pétreo de las nubes,
su torneada unidad.
*
¿ Y cómo, desde ahí, desde ese espejo
que se ovilla?
Otra
la mirada animal,
su hondura suave, su caricia. Tiempo que irradia
entre las hojas.