UMBERTO FIORI
Come per Beppe Salvia, anche per Umberto Fiori il superamento del post-moderno si attua attraverso un ritorno alla lingua, nel senso di un ritorno alla chiarezza e alla limpidezza, che è una fede nuova nelle cose e nella possibilità di dirle, scoperta dell’esistere, quella “vita nuda” di cui si parlò in merito all’esperienza della rivista romana Braci, ma mentre per il lucano-romano ciò implica una ripresa della lingua poetica della tradizione, o comunque un riferimento ad essa, questo è appunto quello che il ligure-milanese Fiori non fa: tornare alla lingua è per lui anzitutto tornare all’atto della nominazione come scoperta meravigliata, nuda, dell’esistere della cosa. Il movente della poesia di Fiori è questa continua nascita del senso dal nonsenso, della grammatica e della logica dal caos, come un evento naturale, qualcosa che ci succede e ci fonda, ci salva, e ci investe anche di una responsabilità immensa, un lavoro enorme che ci aspetta.
Questo evento naturale, questa nascita, avviene in un paesaggio assolutamente urbano, che è la Milano dove Fiori va a vivere già da giovane. Ma la Milano della sua poesia non ha, volutamente, un’identità (come può averla per un Loi o una Merini), è una realtà urbana qualsiasi, fatta di strade, case, palazzi, macchine, gente; è, potremmo dire, assolutamente anonima, ma nel senso letterale appunto, che il nome ancora non c’è, il nome deve nascere, appunto. L’inizio tipico di Fiori è quello ad esempio di un muro nello spazio esterno cittadino, un muro che non è altro che un muro, grigio e vuoto, cemento come materia amorfa, o uno spiazzo della periferia, qualcosa di assolutamente anonimo e immotivato. Oppure un parco cittadino, quei piccoli parchi tutti uguali, dove ogni cosa sta lì perché coincide solo con la sua utilità, la panchina per far sedere le persone, i giochi dei bambini per far giocare i bambini, le piante stesse, pur viventi, esistono solo per fare giardino. Anche i cani, appunto, sono i cani, i soliti cani che sono in tutti i giardini.
Ed ecco all’improvviso, anticipata generalmente da un silenzio e un farsi deserto del luogo, l’apparizione dell’essere, la nascita travolgente del senso, che non è qualcosa di dato, ma è qualcosa che nasce improvviso, cresce e dilaga e occupa tutto di sé:
Giardini
Nelle aiuole qua intorno
sotto gli alberi
corrono i cani.
Poi silenzio, nessuno.
Allora questi tre sedili al sole
e i cespugli pieni di fiori
si lasciano vedere come sono.
Chiari, sono, e diventano
sempre più chiari.
Anche le piante: chiare foglia per foglia.
E le ombre nell’erba esatte,
e nel sentiero i sassi, uno per uno,
fatti così, così,
e sempre più precisi, finché di colpo
non assomigliano a niente:
ci sono, sono qui davvero.
Si sente tutta la salvezza allora,
tutto il pericolo.
E si rimane
lì, dritti, con le mani
in mano. Si sta come in ascensore
con uno, con un signore,
per un paio di piani.
La forma, la figura intera della cosa, si apre e lascia entrare l’occhio che la guarda, si lascia vedere come è. E è come cozzare contro un muro sempre più bianco che è la durezza del suo stesso essere, il suo vero, sempre più nitido confine. E la luce si sparge alle cose intorno, in un processo di chiarificazione che coincide con una progressiva specificazione, sorta di ramificazione verso l’essere di ogni cosa, fino a arrivare all’individuo assoluto, tutto in sé e per sé, sciolto da ogni somiglianza: ogni sasso è fatto “così, così”, ogni cosa è sempre più precisa, finché all’improvviso “di colpo / non assomigliano a niente”.
La chiarificazione linguistica di Fiori si attua come liberazione dalla metafora, che infatti è assente nella sua poesia, e come riproposizione, al suo posto, della similitudine, più rispettosa della individualità e irripetibilità delle cose. La similitudine non avvicina, fino a mischiare, come la metafora, oggetti, esseri, ma avvicina situazioni, modalità, relazioni degli esseri. Nella similitudine le cose, gli esseri, rimangono distinti, chiari. Fiori rifiuta le corrispondences baudleriane e le alchimie rimbaudiane, dimostrando di andare non solo contro il postmoderno, ma anche contro il moderno.
Ed eccola lì negli ultimi versi, la similitudine, luminosa e limpida: vedere che ogni cosa esiste e non è metafora, segno o nostra fantasia, è come stare dritti in piedi con le mani in mano davanti a una persona, in ascensore, schiacciati contro di essa, due esseri, due persone poste fronte a fronte, senza spazio, come se tutto lo spazio venisse occupato dalla persona, e non ci fosse via di fuga, davanti alla presenza dell’essere.
Si sente tutta la salvezza allora,
tutto il pericolo.
“Salvezza”, perché le cose esistono e siamo tutti veri, e salvi. “Pericolo”, perché ciò comporta che non possiamo fare quello che ci pare (come nel postmoderno) ma dobbiamo essere educati, dobbiamo educarci:
Canto
Cosa si deve fare?
Che cosa si può fare?
Innanzitutto
bisogna salutare le persone,
guardarle in faccia, e se salutano
non risparmiare il fiato
e rispondere bene al saluto
ogni volta. Tutto funziona
in questo modo: anche le case – vedi? –
restano in piedi come per miracolo,
per pura educazione.
Eccola anche qui, alla fine della poesia, la similitudine fioriana: tutte le cose stanno in piedi per educazione, come le case. Le case (Case si intitola il primo libro di Fiori ) stanno in piedi non per le leggi della fisica, della statica, secondo le quali sono state costruite, ma, appunto, per educazione. Viene in mente quella proposizione confuciana che dice: “Se non ci fosse la sincerità non ci sarebbero gli esseri”. La fisica stessa, la fisis, la natura, ci dice Fiori, è educazione, in quanto, confucianamente, relazione tra esseri veri. L’educazione da trovare, e praticare, è dunque la natura stessa, la fisis, e “imitazione della natura” torna a essere per Fiori, classicamente, la poesia.
Ecco che l’educazione non è più quella formalità borghese cui ci ha abituati il moderno, sorta di superfetazione ipocrita, ma è l’essenza della natura, è la fisica. L’educazione è qualcosa a cui siamo “obbligati”, come obbligati siamo ad esistere. Ecco che l’educazione “deve” essere la nostra cultura rifondata, il centro della nostra cultura, della nostra società rifondata.
Questo
Buoni bisogna essere: perché
è il bene l’unico bene.
Essere veri, si deve.
Si deve vivere come si deve.
E si deve dovere.
Al centro dell’isolato,
specchiato nel suo specchio l’ascensore
sale, vuoto.
Qui l’ascensore anche è una similitudine, un correlativo oggettivo, un’immagine che spiega il concetto: l’ascensore è fatto per portare le persone, ma può salire anche vuoto, può, e “deve”, esistere di per sé.
L’accordo, l’armonia esistono e possiamo trovarle. Non è solo scambio, dialettica, compromesso la società. Esiste anche l’”accordo”:
Accordo
Quando alla fine di una discussione
a furia di chiarire e di spiegare
ci si trova d’accordo,
è dura guardarsi ancora,
salutare, andar via
ognuno per la sua strada.
Quando il discorso cade,
che ci si è intesi,
è dura poi lasciarsi,
tornare a casa
con il peso di tutta l’armonia.
Come l’ascensore che sale vuoto, è come se l’accordo per Fiori esista anche di per sé, a prescindere dalle parti che si accordano. E’ come una verità che preesiste, come la Via del Taoismo cinese, una strada dalla quale tutti gli esseri provengono, e nella quale camminano:
La strada
Chi – come tanti – è stato messo a tacere,
smentito mille volte, calpestato
anche dall’ultimo imbecille
finché gli sembra falso perfino l’urlo
che gli tocca ingoiare, si ritrova
a una fermata,
tra i marciapiedi e le robinie, pieno
di meraviglia
come un bambino:
vede, alla fine, che non è una cosa
che si toglie o si tiene,
la verità.
Un giorno, mentre cammina,
vede la strada. Sente com’è grande
e santa, la giustizia
che non si fa.