In libreria dal 19 marzo 2015
La poesia, prima e oltre la parola
di
Antonio Prete
Un libro di prose, una meditazione intorno ad accadimenti, a gesti, a letture, che trova ogni volta la forma essenziale e il tono giusto per farsi racconto e insieme analisi, sguardo sul mondo e interrogazione, confdenza e giudizio. Il dio del mare afferma la necessità e la bellezza della prosa, di questa forma oggi desueta e persino peregrina, e che invece appartiene al proprio della tradizione novecentesca, e più in generale della nostra storia letteraria. Se il trionfo di un romanzesco destinato al facile consumo ha reso marginale e persino azzardato l’esercizio della prosa, il poeta Pierluigi Cappello mostra come nella forma breve che chiamiamo prosa, nel ventaglio delle sue possibilità, possano confuire allo stesso tempo tensione narrativa e grazia del dire, energia rifessiva e leggerezza dell’immaginare. E mostra come la variazione di temi e di ricordi, di scene e di tonalità discorsive possa corrispondere ai diversi punti d’osservazione dai quali guardiamo ogni giorno l’accadere, le forme e i modi dell’accadere. Per un poeta la prosa è un modo d’essere della poesia. Poesia e prosa sono vissute da un poeta come le due sponde di uno stesso fume. Su quel fume c’è lo stesso cielo, ci sono le stesse nuvole, c’è lo stesso vento, che è il vento della vita. «L’uso – dice Leopardi – ha introdotto che il poeta scriva in verso. Ciò non è della sostanza né della poesia né del suo linguaggio, e modo di esprimer le cose» (Zibaldone, 14 settembre 1821). Nella scrittura di Pierluigi Cappello la prosa è in dialogo costante con la poesia: si pensi a Questa libertà, il libro recente che accoglie volti, voci, fatiche, tragedie di Chiusaforte nel Friuli, ed è insieme racconto di sé e meditazione sui nodi gravi dell’esistenza, interrogazione del corpo e del paesaggio, disegno di un’alterità e di un’elevazione, «volo» dei sensi che muove dalla consapevolezza di essere nel recinto della fnitudine. E anche in queste prose de Il dio del mare il lettore potrà ritrovare non tanto espliciti echi quanto affnità – nel vedere e nell’immaginare – con le diverse stazioni del cammino poetico dell’autore, da Il settimo cielo a La strada della sete, passando dall’esperienza del verso friulano 7 de Il me Donzel e Amôrs, cammino raccolto nel libro Azzurro elementare.
La misura, la durata, di una prosa appartiene a una necessità non d’ordine narrativo ma soltanto ideale, nel senso, cioè, di un’idea che cerca ogni volta la forma sua più propria e con essa il tempo e il ritmo più propri. Così ne Il dio del mare le due brevissime prose che aprono e chiudono il libro hanno l’incisività di un incipit e di un explicit, quasi apertura e sigillo di un dire che si svolge in variazioni di diversa durata: da una parte, il pensiero che oppone la moralità del verso, della sua forma essenziale, alla volgarità diffusa nella nostra epoca, dall’altra il pensiero della possibilità – di vita e di forme – che dorme nel silenzio di una libreria.
Due pensieri che aprono e chiudono una meditazione, in cinque movimenti, intorno alla parola, al suo prezioso potere, parola che oggi è depauperata, svilita, fatta equivoca e polverosa, in un mondo perso nell’affanno del suo vuoto discorrere, assediato da un superfuo inerte e da un utile privo di necessità. Che si descriva, come accade con molta cura ed eleganza in queste pagine, l’incantamento procurato dall’epos, dai suoi personaggi, dal lo- 8 ro legame con l’adolescenza, che è stagione incline all’eroico e all’ardimentoso, o si osservino le forme di abiezione e di orrore consustanziali al tragico della guerra, oppure si evochi l’intensità simbolica di un gesto consegnato alla foto di un figlio partigiano inviata alla madre, o si segua infne la sapiente meraviglia della nascita di un verso, è ogni volta in gioco un movimento del dire che nasce dalla particolare relazione tra lo sguardo e la luce, tra il vedere e la presenza delle cose: sono descritti i gradi cromatici e le vibrazioni tonali dell’apparire, e la luce è colta nei tempi e nelle forme del suo trascorrere, che è un trascorrere sulle cose per farle vivere e tenerle vive, per consegnarle a una presenza eloquente, quasi a una sapienza del mostrarsi. Portare la ricchezza di questo apparire verso la parola, anzi nel respiro stesso della parola, è compito proprio del poeta, ma quel che più importa in questo compito è lasciare le cose, per così dire, nella verità della loro presenza, del loro stare, in una loro creaturale e vigile bellezza, quasi in una loro innocenza.
Ed è proprio la luce di questa bellezza che fa risaltare, per contrasto, il tragico e turbinoso che accompagna invece la storia dell’uomo. In questo movimento della scrittura Cappello fa prova di una sorta di tensione etico-poetica, per la quale il dire («sbarbicare le parole dal silenzio») e il descrivere e il narrare hanno sempre a che fare con la domanda sulla condizione umana, sul suo dolore, sulla sua relazione col tragico.
Nell’orizzonte di questa tensione insieme poetica ed etica si spiega l’animazione della parola stessa, il senso visivo della sua percezione («le poche parole smarrite in quella neve con l’ansia di passeri invernali»), ma anche il ricorso a una semantica inventiva (ecco il commuoversi inteso come muoversi insieme alle cose, prossimità forte del vivente con il vivente), e più in generale la costruzione di uno stile che sa unire nitore della percezione e sentimento, esattezza e calore. In particolare è l’esperienza del dialetto, della sua scrittura poetica, che comporta questa fsica attenzione alla parola, questa tutta corporea percezione del nesso tra suono e senso, della sua singolarità e radicata terrestrità. E il dialetto è nel viaggio poetico di Cappello il passaggio allo stesso tempo più intimo e più sociale. Nel senso, certo, di un’affermazione del legame con la terra, con la terra friulana, che sperimenta quanto forte sia la relazione tra il vedere e la parola, tra il sentire e il dire, tra la fsicità della vita quotidiana, il suo orizzonte di gesti, e la lingua. Ma anche nel senso di una percezione fsica delle stagioni, del loro ritmo, e delle forme che defniscono quello che chiamiamo paesaggio. Si può dire che proprio l’esperienza fatta dal poeta nella lingua d’origine – nella scrittura inventiva di quella lingua – si trasferisce poi, con la stessa tensione corporea, nella poesia in lingua italiana («il mio sguardo è germinato, si è dischiuso al vedere col friulano»). E in parole come pioggia, vento, erba, sentiamo una vibrazione che rinvia alla radice, rinvia al cerchio di volti e abitudini, di gesti e affetti che defnisce l’abitare di una piccola comunità e le sue vicissitudini. Come sentiamo, nella rappresentazione del tempo, quasi un’abolizione della sua ordinata scansione, del prima e del dopo, perché tutto è raccolto intorno alla presenza forte delle cose, tutto è osservato nella stessa luce nella quale sono osservati i viventi, tutti i viventi.
Sporgersi sulla vita di un testo classico, rivisitare le sue parole e risentire il suo ritmo, attraversare la temperie della sua invenzione vuol dire, in queste prose, partire ogni volta da una situazione che appartiene alla nostra storia recente: da qui ha radice il confronto, qui si radica il punto d’osservazione.
Così è per le pagine che, muovendo da quel che Primo Levi racconta nell’avvio de La Tregua – lo spalancarsi dell’orrore di Auschwitz dinanzi allo sguardo dei primi soldati che giungono al campo di sterminio il 27 gennaio del 1945 – conducono il lettore nella lingua e nell’umore e nel tremore della nona bolgia dell’Inferno dantesco, brulicante di corpi feriti, mutilati, squarciati. La scena dischiude l’esperienza del tragico, così come Dante stesso aveva potuto conoscere nella battaglia di Campaldino, e suggerisce considerazioni intorno alle forme di rappresentazione della guerra. Così è rilevata la differenza tra due diverse visioni della guerra e più in generale dell’orrore. Da una parte quella d’ordine estetico-ludico, così come appare nei versi del poeta provenzale Bertran de Born, personaggio egli stesso della nona bolgia (nel suo sirventese, o plazer, che comincia Be·m platz lo gais temps de pascor, «primavera e guerra sono intimamente legate fra loro»); dall’altra parte, appunto, la rappresentazione dantesca, che invece mostra il tragico nella sua cruda dimensione corporea, nella ferita che piega a sé anche la lingua. Il richiamo, sulla soglia dell’Inferno dantesco, ad Auschwitz mi ha fatto pensare alle pagine che scrisse su questo tema Edmond Jabès. Se l’Inferno dantesco, diceva Jabès, va pensato in rapporto alle altre cantiche, dunque come male oltre il quale c’è anche la purifcazione e l’elevazione, Auschwitz si chiude in sé, ha cancellato la stessa separazione tra tempo del dolore e tempo della gioia, ha rapporto soltanto con Auschwitz, con la sua cenere.
Queste prose di Cappello possono anche essere lette come una nitida e vigorosa meditazione intorno alla poesia, al suo legame con la terra, con il corpo, con la storia. Quel che, di scena in scena, prende forma è proprio, direi, un’idea integrale di poesia, non formalistica né sentimentale, ma animata sia dalla fducia nell’energia della parola sia dalla necessità dell’invenzione. Per dire della natura della poesia, e della sua lingua, l’autore racconta un episodio singolare che dà il titolo al libro, Il dio del mare (non voglio qui sottrarre al lettore il piacere di seguire i passaggi di quella storia), una vicenda che è come una messa in scena di quel che la poesia è o vorrebbe essere: nella poesia, il mondo possibile irrompe nel reale, l’infgurabile prende forma, la presenza si compone laddove era altro ad apparire. La poesia è un saper vedere che sa trattenere l’immagine. Della poesia si dispiega anche, a un certo punto, il suo divenire, il suo farsi. Siamo nelle pagine intitolate Bosco di Courton, 1918, il luogo che è sottotitolo, cioè tempo e spazio geografco, mentale e fsico della nota composizione di Ungaretti Soldati (raccolta in Allegria di Naufragi nel 1919): «Si sta come / d’autunno / sugli alberi / le foglie». Cappello segue il passaggio dal fango della trincea al silenzio del bosco al disporsi delle parole in rapporto al tragico dell’accadere e alla percezione di quel tragico, ma anche in rapporto al nesso suono-senso. La lettura è un esempio bellissimo di come si possa fare esegesi di un testo poetico, narrando e analizzando insieme, sostando nell’alone creato dal suono e interrogandosi all’ombra dei signifcati, ma non rimuovendo mai quel «legame musaico» tra suono e senso che già Dante vedeva come essenza stessa del dire poetico. Ma è, questa esegesi dei versi di Ungaretti, anche un invito a vivere la poesia collocandosi nel luogo più proprio del suo nascere, cioè nel silenzio che precede la lingua e la sostiene e la anima, e indugiando un poco nel respiro che non è ancora senso, nel ritmo che non è ancora lingua. Poiché la poesia, se è nella vita della parola, è anche prima e oltre la parola.
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da : “Il dio del mare” di Pierluigi Cappello, Prose e Interventi 1998-2006, con introduzione di Antonio Prete, Edizioni BUR, 2015