Martedì della Dante”
Martedì 24 marzo 2015 ore 17:00
Ricordo di Francesco Tentori Montalto, poeta, saggista, traduttore e ispanista italiano (1924 – 1995).
Interverranno Anna Dolfi, Gabriele Morelli, Elio Pecora e Silvio Ramat.
APPUNTI PER FRANCESCO TENTORI
di Francesco Dalessandro
A vent’anni dalla scomparsa di Francesco Tentori Montalto, eccellente poeta e grande traduttore dallo spagnolo, ripropongo, per ricordare l’amico, l’intervento letto durante la presentazione di Il segreto degli specchi (Biblioteca di Ciminiera, 2005), antologia uscita nel decimo anniversario della morte, e sono grato a Luigia Sorrentino che lo ospita.
Francesco Tentori era poeta. Aveva un doppio che si chiamava Francesco Tentori Montalto che era traduttore. Chi dei due fosse più bravo è inutile indagare: la sensibilità era la stessa. Se Francesco Tentori Montalto fu traduttore dallo spagnolo ancora insuperato, chi potrà pensare che Francesco Tentori fu poeta minore? Ma, a petto di Betocchi, di Bertolucci, di Luzi, di Caproni, chi non lo è stato e non lo è?
(Recentemente, un giovane critico, compilando un’antologia di quelli che considera i migliori poeti dal 1960 ad oggi, è stato costretto a riconoscere che finora nessun poeta ha pubblicato un libro che stia alla pari, per esempio, di Viaggio d’inverno, Il franco cacciatore, Su fondamenti invisibili).
E se pure, parola di Bertolucci: “che magnifici poeti sanno essere a volte i minori!” Tentori è spesso un magnifico poeta; Il segreto degli specchi, il libro di cui stiamo parlando, ne è la dimostrazione, perché riunisce poesie tratte da tutte le sue grandi e piccole raccolte, dandone una campionatura davvero esauriente.
I destini, che nel 1949 ne segna l’esordio, segna anche il destino della sua poesia successiva e lo dimostrano bene i due testi accolti in questo libro, perché vi si incontrano già alcune di quelle parole “chiave” che ricorreranno nell’intera sua opera: sogno, esilio, ombra, maschera.
Maschera è la prima poesia che vi leggerò nel corso del mio intervento, che sarà un po’ divagante, ma non svagato, spero, né stravagante.
MASCHERA
Lo spazio in cui respiro è la mia tomba.
Prigioniero di fili, inaridisco
la pena e non sciolgo in lamenti il metallo
dove un colore finge la mia vita.
Neppure una voce conforta la notte:
l’usignolo se canta o il dolce merlo
non possono, piangendo, attraversare il mondo
fino a questo deserto dove muoio.
Qui non foglie, tenere acque, venti,
o la zampogna delle stagioni per variare
nell’anima oscurata, col suono alterno,
l’orribile fuga del tempo: accecato,
sento l’ala mortale che mi sfiora
mentre, impietrito e muto, non ho difesa.
Come divenni un dolore dipinto?
Voi guardate le linee lacerate
dietro le quali anche il dolore è un nome;
toccate sgomenti il mio sguardo svuotato
e vi prende pietà di voi stessi, vedendo
entro un disegno smorta la mia vita.
Ma di me non abbiate pietà: io soltanto
decisi il delirante labirinto
da cui giunsi distrutto a questa forma.
Ricordo ancora giorni in cui il mio cuore
intrecciava coi sogni i disincanti
e com’edera andava dal cielo alla terra.
Ma la mente contratta da ambizioni
s’indurì contro il cielo, finché il cuore
e la vita derisi e in preda a un gioco
affievolirono i battiti – e io venni
a questa angoscia di fili di sangue.
Quanti sono quei poeti che a 23-24 anni sanno scrivere una poesia così matura, così sapiente e così certa dei propri mezzi?
Viaggio, esilio, corrispondenze, diario, assenza, ombra, sogno, ebbrezza: ecco i temi di Tentori. E su tutti, lo specchio, che tutti li riassume. Temi evidenti fin dai titoli: basta scorrere la bibliografia.
Insieme a quelle parole “chiave”, l’altro elemento che subito caratterizza questa poesia è la chiarezza. “Soltanto la chiarezza può rappresentare ciò che un uomo sente”, secondo Stendhal. E Pavese aggiunge che “la poesia deve dire qualcosa, quindi è inutile che violi la logica e la sintassi”.
Parlo dunque di chiarezza sintattica, che vuol dire scrivere disponendo le parole in un loro “ordine naturale”, senza che esigenze metriche o ritmiche lo pieghino o stravolgano, e nonostante ciò scrivere versi esemplari. Basta aprire il libro e leggere a caso per rendersene conto.
Dopo Diario, suo primo libro, del 1956, si susseguono, a scadenze regolari di quattro anni, Lettere a Vilna nel 1960, Nulla è reale nel 1964, Lo stormire notturno nel 1968; Corrispondenze in una stanza è del 1974, Viaggio in uno specchio del 1978: contengono quanto di meglio Tentori ci abbia lasciato.
A quelle seguono alcune altre piccole raccolte, alcune occasionali, ma sempre di grande raffinatezza, fatte a volte di poesie ritardatarie, spesso d’occasione; di omaggi; di recuperi e stralci per temi dalle raccolte più antiche. Passata l’inquietudine argomentante e dimenticati i grandi interrogativi, resta un ricordare nostalgico e quieto. Nel mezzo, nel 1984, esce, però, una nuova importante raccolta: Animale d’ombra, che marca anche una novità, messa in evidenza dal poeta stesso: la presenza da lì in poi di un interlocutore diretto.
Ma che poeta è Tentori? Vediamo come si definisce lui stesso negli ultimi versi di Nel cerchio della lampada:
… Poeta che incarni
nelle parole l’ansietà e la pena
e con la pena la speranza, cuore
dell’esistere che profondo batte,
dove non sai ma è la forza che infonde
qualche vero nel tuo debole accento.
“Debole accento”, scrive, ma non è così. Anzi consapevole, spesso vigoroso, sempre maturo.
E non è un caso isolato, sapete?, questo suo riflettere in modo obliquo sulle ragioni della propria poesia, specialmente nelle prime raccolte. Se ne possono citare altri.
Leggiamo A Mario Luzi, una poesia che prende lo spunto dal ricordo di Firenze che gli si ripresenta tramite l’amico.
A MARIO LUZI
Movendo su macerie, su rottami,
la memoria disegna oggi la sagoma
della citta, più cara ove finisce
tra case nuove, prato, riva di fiume.
La polvere là, il disordine, intridono l’aria,
fanno uno squallido scenario. Vi s’aggira
attonita la mente, tocca incerta
l’ombra, gli oggetti; ecco, già non esita,
già fa suo il paesaggio maltrattato,
ritrova i luoghi, dolci all’abitudine.
È il conforto, nel sogno e per enigmi,
Luzi; viaggio precario il nostro
nelle tenebre, ma dobbiamo compierlo.
Viaggio al profondo, che non ha risposta
e non offre salvezza; traccia simboli, o forse
nemmeno questi, ma una via al rimpianto,
una trama di ricordi, un intreccio di segni
che aiutino la vita, la decifrino
col loro paziente alfabeto.
E poi:
IN RISPOSTA A UNA CARTOLINA
Il tuo saluto mi ha sorpreso in dubbio
tra l’oggi e l’ieri, tra il ricordo e l’esistere:
ambiguità apparente, ché chi oblia
si perde, chi smarrisce
nella memoria il suo presente è un’ombra,
ma il cuore unico si abbevera al tempo
indiviso, che mesce oblio e ricordo,
presenza e assenza. La vita si nutre
così di corpi e di fantasmi, accoglie
ciò che palpita o è fumo, nel suo scorrere.
E i giomi spenti di una primavera possono
riaccendersi in un tempo freddo, in quest’aria
di tormenta, d’inverno già alle porte.
Provate a sostituire le parole “saluto” nella prima parte e “vita” nella seconda con la parola “poesia”.
Altro esempio:
IL TENERO DEL VERDE
Il tenero del verde che in ondate
costanti si rinnova alle sponde del treno,
la presenza, oltre i colli, d’altre vette
invisibili ancora,
quest’aria che il crepuscolo già incrina,
dicono all’anima: se tu ritorni
noi riappariamo; la vita ha la forma
che le presta la vostra fedeltà,
riassume in un istante le sembianze
note, se il cuore appena le rianima.
Così tra sguardo e memoria un dialogo
incessante s’intesse, s’infittisce
e le parvenze non sono che i pegni
d’un vivere più fondo:
nulla è reale, se non il succedersi
degli addii, dei richiami, dei ritorni.
E, infine:
LO STORMIRE NOTTURNO
Lo stormire notturno della vita,
l’invisibile vento che in un turbine
mulina l’anima della stagione,
premono alla tua soglia come il fiato
di un animale sconosciuto, mandano
una voce che non sai cosa chieda.
La mente tende le sue forze, interroga
a sua volta, misura il proprio vuoto.
Momenti in cui la volontà vacilla,
il confronto del tempo viene meno,
e sospesi tra passato e avvenire
si rinuncia al giudizio, si attende,
mentre il flutto della memoria irrompe
contro l’argine, sgretola la diga,
sparge di nomi il tuo lido deserto.
Come vedete, divago. Ma vi avevo avvertiti. Non essendo un critico, non è una riflessione di quel tipo che mi spetta fare. Io sto provando a trasmettervi, magari per vie traverse, l’amore che nutro per tante poesie di Tentori, o per singole strofe, o anche per soli versi.
Per esempio, per certi brevi testi che ricordano i poeti amici, omaggi involontari o diretti; come quel piccolo esempio di scrittura “alla maniera di…” che è Scuse tardive per un apparente ritardo, indirizzata a Bertolucci.
SCUSE TARDIVE PER UN APPARENTE RITARDO
per A.B.
Accoglile, se t’è caro l’indugio
quando levato il capo dai tuoi intarsi
riposi gli occhi sui campi di brina
dove passeri già si avventurano.
Non altrimenti indugia la parola
resuscitante stagioni svanite
con quanto amammo, parvenze su strade
nitide nell’orizzonte velato
che diresti di vivi, non ardesse
un lume di mestizia nello sguardo.
Quei due versi centrali: “riposi gli occhi sui campi di brina / dove passeri già si avventurano” sono molto bertolucciani, ma negli ultimi c’è solo Tentori.
Oppure il bel
RITRATTO DI FAMIGLIA
Brucia un lume sul tavolo? La luce
disegna a grandi tagli, squadra e isola
i profili abolendo la penombra.
Nulla distrae lo sguardo dall’evento
minimo eppure arcano: tre figure
distanti e unite, che un lampo ha fissate
in gesti ai quali affidano il segreto
di un istante. O di sempre? ti domandi
e scruti il breve spazio che le ospita.
Assorto in sé, un sorriso che gli sfiora
appena il labbro, un giovane si piega
indietro sulla sedia, forse intento
ad un giuoco di carte o ad un oroscopo.
Protesa avanti la donna ne spia
fra dubbio e orgoglio l’ambiguo atteggiarsi
che vorrebbe sorprendere nell’intimo
inconoscibile di dove nasce.
Ritta fra i due la ragazza è la sola
che sfidi l’obiettivo con il riso
di chi misura su se stesso il rischio
e il bene dell’esistere, deciso
a giocare, sia quale sia, la carta.
Tu manchi, com’è giusto se la parte
che ti riservi è di testimone
e fai tua nell’immagine quell’ora,
quell’istante compiuto, irripetibile.
Subito si pensa a tante poesie, tanti versi di Bertolucci, cantore impareggiabile delle intimità familiari; poi, rileggendo e riflettendo, scopriamo che solo la situazione è bertolucciana, perché qui ci sono un’inquietudine e un interrogarsi diversi; c’è, in quell’istante colto “da un lampo”, la ricerca di un senso che va oltre l’occasione e diventa testimonianza.
Oppure la luziana
SERA CHE TORNI
Sera, la sera senza nome, ombra
che si aggira nel vento per le vie
bagnate, appanna i vetri, muove lumi
fiochi su vuote piazze, su banchine,
china sul parapetto fissa l’onda
scorrere sotto il ponte, cerca il caldo
di un antro dove la bevanda, il cibo,
la compagnia illusoria non appagano
ma confortano il cuore, fanno argine
contro la solitudine, la notte.
Sera che torni, ombra che ti aggiri
per le vie del ricordo, appanni il vetro
intento dello sguardo, muovi un lume
nel deserto del cuore.
Ma con l’ombra che s’aggira per le vie del ricordo Luzi non c’entra.
RONDINE
Rondine trafelata,
che tu giunga dall’angolo di casa
o da viaggi che vedono il tuo acuto
profilo disegnarsi sotto i cieli
ai quali chiedi – non il sogno –
ma quanto della realtà si cela
al tuo sguardo impaziente,
è sempre una la fretta
che ti porta alla soglia dove esiti
un istante, forse per rammentare
a te stessa il tuo nome e la tua forma.
Poi ti getti in avanti con un volo
rapido: e qualche piuma ti si sfoglia.
Luzi ha descritto i voli delle rondini in modo inimitabile, cogliendone con precisione e oggettività ogni moto, ogni battere d’ali, senza privilegiarne alcun senso metafisico, ma solo la pura bellezza delle forme.
Anche Tentori a modo suo lo fa, come in Mattina a Urbino. In un’altra poesia, un verso parla di “una pioggia di rondini travolte”. Ma la descrizione di per sé non gli interessa. Ciò che l’interessa è il senso di quello slancio trafelato. E poi… di chi sta parlando? Di una rondine o magari di una giovane donna?
MATTINA A URBINO
Rondini, rondini in tuffi da capogiro tra la coscienza
appena desta e il cielo che svaria dall’opale al celeste
rondini come gridi che dicano “guarda la vita”
mentre il saettare non cessa su orti e giardini
sul grigio mare di tegole tra vento e ombra
che si ritrae dalle valli e dai dossi
e il grido è quanto ha vita nella purezza dell’aria
è quanto dice “io vivo” folgorando
l’ora in cui la finestra aperta al giorno
si libra sopra abissi di luce.
OGNI GIORNO
Ogni giorno si fa più breve il giorno,
più serrato l’assedio; la siepe infittisce
notturna, chiude l’orizzonte.
Ecco, di cenere e ombra
in una luce incerta che la umilia,
è la città diletta, fantasma
doloroso, crudele con chi l’ama:
vuota forma, ora ostenta
l’eco triste, le orme cancellate.
I luoghi sono ingrati, non li turba
il nostro turbamento; riconoscerli
è impresa vana. Tutto
indica diversità, mutamento,
tutto guarda da un ordine straniero
che il ricordo non àltera. Chi osservi,
vedrà segni contrari per ogni dove,
la stagione stravolta lamentarsi
nella stretta del gelo, le contrade
di colpo ignote percorse da un vento
nemico che aizza fuochi, strappa rami.
Il mattino, la sera si susseguono
nell’animo oscurato come i colpi
contro le mura difese a fatica.
Ogni giorno è più ardua la sortita.
Sarà un caso che in particolare l’ultimo verso ci ricordi Kavafis? E quella siepe iniziale?
(Tra parentesi, non crediate che i frequenti richiami ad altri poeti siano riduttivi per Tentori. Intanto parliamo di poeti coetanei, oltre che amici, e quindi di un fare poesia che è loro e dell’epoca. Poi, quei richiami esaltano le differenze. Shelley pensava che tutte le poesie sono parti o frammenti di un unico, infinito poema. E Borges annota, con parole italiane prestategli da Tentori traduttore: “Per le menti classiche, l’essenziale è la letteratura, non gli individui”).
Ma ecco due poesie solo di Tentori.
RIDOTTA AD OMBRA
L’anima quando dal fondo dell’essere
sale alla superficie della vita
per pochi istanti, naufrago che fa
i gesti estremi ai quali affida quanto
rimane dell’esistere, l’essenza
ridotta ad ombra, a turbinio, a singulto
e compie moti vaghi, traccia cenni
di richiamo o di addio, già sul cammino
di morte e là si volge, fissa ignara
il volto del reale, è segno certo
che l’ora del congedo è giunta.
Soffrano
nel profondo le tue radici, a patto
che la memoria, il meglio sia sottratto
e viva.
Una similitudine straordinariamente precisa, quasi visionaria; e poi quei versi finali che stanno di nuovo a dirci il compito della poesia.
A P. CHE TORNA DA PRAGA
L’uccello che, tirate a sé le ali,
sta sul sasso, sul tetto ritrovato
che gli promette pace, e stenta ancora
a risentirli suoi, prova con l’unghia
l’appiglio, inquieto, gira attorno l’occhio
in sospetto, confronta il vecchio luogo
con lo spazio per cui raffiche ignote
lo portavano ebbro verso approdi
sempre incerti; e non cessa di chiamarlo
il turbine scrollando la leggera
difesa a cui si tiene.
Tale mi appare il tuo ritorno, mentre
nell’angolo del fuoco asciughi il pianto
di cui t’ha sparsa la tempesta.
Un’altra similitudine esatta, forte, da osservatore acuto.
In questo libro si trovano un’infinità di piccoli gioielli, cose che magari suscitano nella nostra memoria o nel nostro sentimento echi lontani, ma poi s’impongono solo in virtù della loro estrinseca bellezza.
Penso al primo verso di Maschera, che abbiamo già incontrato: “Lo spazio in cui respiro è la mia tomba”, così inquietante nella sua perentorietà.
Penso all’attacco di Addio alla città, con quel primo verso così cardarelliano: “Il fanale sospeso a mezza nebbia” e poi due versi suoi, di Tentori: “schiarisce lento il selciato nell’ora / in cui tutti rinunciano”.
Penso all’immagine dell’assenza come finestra vuota nel finale di Notte, assenza.
Penso a Dalla clinica, poesia dedicata alla moglie, con un titolo bertolucciano, e con un finale che è un delizioso rifacimento, quasi citazione, da Saba: “sei la compagna / dell’allegria e del pianto / che perdona ogni cosa – e nulla scorda”.
Penso a Due lettere d’esilio, e in particolare alla seconda.
DUE LETTERE D’ESILIO
È già autunno da te, le foglie cadono
con rumore nell’anima, disegna
già novembre vicino la sua luna
offuscata sui campi? Nell’aiuola
s’udranno ancora i grilli e vagheranno
lucciole tra i cespugli. Sono scese
le prime piogge ormai e la terra odora
di polvere e di mosto? Se cammini
lungo la via del cimitero e vedi
i luoghi noti, saluta
per me l’erba e le pietre. Ma tu ascolti
il vento, l’aria fredda che ti giunge
con la notte dai monti e scruti il cielo
invisibile. Il silenzio che odi
fa profonda anche questa sera e i suoni
vaghi che lo attraversano son nati
qui, sono la carezza che ti mando.
Sono lunghi qui i giorni, il tempo versa
solitudine e sabbia
e scorre uguale, in circolo, specchiando
un cielo sempre azzurro, che percorre
solo un canto d’uccello e che confonde
nelle sue acque l’attesa e l’assenza.
Ho nostalgia del tuo giardino. A volte,
se guardo il Renoir sulla parete
con le ombre cosi dense e quei fiori
fatti di sole, all’improvviso
s’alza il melo dell’orto alle mie spalle
e allarga i rami per tutta la stanza.
E non è piu dicembre in Albuquerque,
è estate a casa tua, sono le aiuole
delle rose odorose ancora, è il gemito
della ghiaia al mio passo, sono i tralci
già pesanti, le zucche, i pomodori,
le altre erbe. S’empie
la mia stanza
di tutti quegli odori, un’aria dolce
e libera vi soffia. E nei suoi angoli
raccoglie la malinconia le spire,
si scioglie, è un fumo ormai che s’allontana
nel bosco di Renoir.
Tu conservami
per quando torni la luce dell’alba
coi suoi rumori indistinti, trattieni
il paesaggio intimo e profondo;
fa, cara, che il tuo mondo, il tuo giardino,
con un grido di gioia mi conoscano
e mi chiamino, come nostra figlia.
Penso a certe geografie, reali o immaginarie, e precise descrizioni di luoghi, come in
BAMBINA NEL GIARDINO
È tempo che tu distingua, bambina,
le rose dalle viole, dai garofani,
quando guardi tua madre che li taglia
e li dispone nel vaso. I colori,
vedi, sono diversi: quest’anno
son nati solo garofani bianchi,
ma le rose hanno molte tinte, gialle,
bianche, rossobrune, variegate…
Le viole poi sono quelle che mutano
secondo l’ora del giorno e trapassano
da cupa notte a una pallida alba.
Ora guardi le dalie: sono poche
ma grandi e belle; e quell’albero alto
che ti fa ombra quando giuochi coi sassi
è la magnolia; da là sopra cadono
i fiori profumati che tu odori.
Qui finisce il giardino e ha inizio l’orto
che va fino al cancello, e dove crescono
le verdure; la rete che chiude
quest’angolo è quella a cui sosta il coniglio
con steli fra le zampe. Al filo teso
tra due rami è sospesa la gabbia
del lucherino. Sotto la tettoia
sta ammucchiata la legna per l’invemo,
quando bisognerà scaldare l’aria
gelata dalla neve.
Qui trascorre la tua giornata; desta,
già cerchi con lo sguardo il cane, immobile
nel casotto di legno, ed il gatto
che avanza leggero tra le viti
o affila le unghie alla scorza del melo.
ll cielo qui è vicino, come i monti;
il paesaggio è fuori della soglia,
e il vento fresco che lo muove entra
nelle stanze, ti spettina, e rapisce
petali ai fiori posti sotto i morti.
Penso all’attacco di
L’ASSENZA NUTRE
L’assenza nutre la memoria. Sboccia
da radici d’assenza la tua immagine, ·
viva nell’aria che ti esclude, specchio
per lo sguardo del cuore, e apparsa appena
già domina, è presenza che non tollera
altri pensieri. Chi tu sia e venuta
a che nella mia vita, mi chiedevo
ieri ancora; ora taccio, non distinguo
se do o ricevo, accolgo quanto giunge
sulle acque del vivere e contrasto
quel che posso al saccheggio delle onde.
Penso al verso finale del sonetto La notte: “regnano tenebre, gemiti, notte”, bello da ricordarmi l’andatura di un verso di Góngora interpretato da Ungaretti.
Penso a questi versi di Tramonto:
… la misericordia
delle sere dolcissime, alte, pure,
splendenti invano d’un effuso lume
che non riflette inerte che un’assenza.
Un esempio dell’“intima confidenza” di cui parla Bultrini nell’introduzione.
Penso alla bella (machadiana?)
POESIA ESCLAMATIVA
(Lecce)
Anni… Chi vi riporta,
balconate del tempo?
Loggiati, androni aperti sull’aroma
d’edera e d’ombra,
trofei di palme e limoni oltre il muro
segreto: ogive, archi orientali, selve
di gerani, rosoni
di merletto e tramonto,
oh ghirlande e festoni lavorati
al telaio del cuore!
Nel barbaglio
santi e grifoni ostentano un’aureola.
Penso a certi “scambi tra mondo reale e mondo fenomenico” (parole di Tentori per commentare un mio verso, che ora gli restituisco), come: “le foglie cadono/ con rumore nell’anima”; o quello più elaborato che abbiamo incontrato in Sera che torni. (Un altro, molto bello, è in una poesia inclusa in Migrazioni, ma non qui: “la tempesta / dubita, pende inerte dalle nubi”).
Penso a immagini come “l’orma della pena”, “l’acqua del tempo”, “la fronda del passato”, “la vigna dell’infanzia”, “lo stormire dei sogni” e altre.
Penso alla vita, che “cane scacciato, segue da lontano / accendendo fanali sui ponti del Tevere”; a “l’anima che nelle spoglie di vecchia / vuota la scodella”; ai “treni in corsa fra cuore e pianura”; alla verità che “alza nell’anima un volo ferito”; a “la foschia, il piombo liquido dal cielo”; infine a “la sfida che oppone / reale e immaginario, sogno e volto profondo della vita”, ovvero la Poesia in genere, e la poesia di Tentori in particolare, che, come il nipotino (è l’ultimo verso del libro), “si avventura nel bosco dell’età”.
Eccoci quasi giunti alla fine del percorso. Ma prima voglio leggervi e parlarvi di un’ultima poesia. È un testo che si presta in modo perfetto ad esemplificare la poesia riflessiva e argomentante di Tentori, la sua poesia più matura.
Il poeta è davanti allo specchio, reale o metaforico che sia, e vede la sua immagine riflessa, la quale, in un ribaltamento di prospettiva, sembra a sua volta scrutarlo. Entrambi cercano nel sé riflesso le tracce di quel che sono o furono, e ciò che resta di loro dopo il lungo viaggio della vita, destinato a perdersi se solo lo specchio s’incrinasse.
ALLO SPECCHIO
Nulla che tu non sappia è balenato
o è maturato a lungo in questo volto
intento al tuo dal fondo dello specchio
a cui sembra approdato da un errare
che lo vedeva, non è molto, assorto,
smarrito o teso nell’ansia, in un turbine
di speranza e timore, un solo nodo.
Quasi per riconoscerlo, anche tu
figgi nel suo lo sguardo e ti s’interna
nei meandri oltre il vetro disegnati
dal tuo scomporti, essere qui e riflesso
nell’illusione che di vero ha solo,
e lo patisce, il tuo voler rapire
la verita ad un’immagine vana.
Quanto lasciasti della tua persona
lungo le vie della febbre o del sogno,
nella malinconia che ad ogni viaggio
rinasceva dal colmo dell’ebbrezza,
verità colta al fondo dell’esistere
che traluceva ove passavi, ombra
vagante in piazze notturne, scenari
d’irrealtà che fa suoi il solitario,
tutto d’incanto t’auguri ritorni
dai portici che s’aprono profondi
di là dal chiaro schermo cui ti attardi
quasi debba incrinandosi disperdere
quel che sebbene sembri perso è tuo.
Nulla che tu non sappia e non sapessi
già allora che ti trascinava il vento
come spirava, e volgendoti eri
tu stesso chi scorgevi ad un salpare
di vele o nel grido rotto dei treni
lacerante le sere dell’inerme
giovinezza.
Che di lì si accomiata,
testimone ostinatosi a durare
nei tratti appena mutati: non fosse
per lo sguardo che stretto da vicino
si distoglie, cerca nell’ombra l’altro.
Per il gioco prospettico mi fa pensare alla Venere allo specchio di Velázquez; con una differenza. Non so se conoscete e avete presente il quadro: un piccolo cupido è in piedi in un’alcova, appoggiato a uno specchio di metallo brunito, posto tra lui e la dea, il corpo della quale è in primo piano, sotto i nostri occhi, languidamente disteso, nudo, florido e stupendo.
Il quadro di Velázquez presenta due punti di vista: il primo, metaforico, è il suo, del pittore (e quindi anche il nostro, di osservatori); il secondo, reale come sguardo, virtuale come vista, è quello di cupido, che vede il corpo della dea come noi non potremo mai vederlo, se si esclude l’opaco riflesso del volto nello specchio.
Nella poesia di Tentori, invece, ci sono due specchi – come in una vecchia bottega di barbiere – che dànno vita a una continua rifrazione: il primo è davanti al poeta, che lo descrive insieme alle immagini di sé viste di riflesso; il secondo, interiore e metaforico, sono i suoi occhi riflessi (e nel contempo è la lingua, ovvero il testo della poesia), dove, oltre a vedere l’altro se stesso, egli scruta nella propria anima (se non intendiamo la parola in senso religioso, ma invece come pensiero, come somma di esperienze: pensiero riflesso); in tal modo mostrandola anche al lettore, il quale, posto dietro gli specchi, nell’uno vede l’immagine del poeta come riflesso di una vita già trascorsa, nell’altro come proiezione di quel che ne avverrà, di “quanto si svolge oscuro” (per usare un titolo di Tentori), in una specie di scambio alla Dorian Grey.
Ecco svelato, dunque, il segreto dello specchio. Passarvi attraverso, andare al di là di esso, ovvero scrivere, significa inseguire il segreto di se stessi, volerne ritrovare le ragioni antiche, l’identità franta o frantumata che sembra essersi smarrita, perduta, o che è solo prigioniera nel suo incantesimo.
Fu pensando a questa poesia in particolare, credo, che Anna Dolfi scrisse tra l’altro (potete trovare il brano nell’antologia critica alla fine del volume): “Il fondo dello specchio era la riserva delle lacrime; attraversare lo specchio era come passare in un liquido fluttuare di fantasmi”.
E riflettendo su tali parole – in un ennesimo gioco di specchi – Tentori scrive la breve e bella poesia (che – peccato! – in quest’antologia manca: è in Migrazioni):
PER ANNA DOLFI
«Il fondo dello specchio era la riserva delle lacrime»
A.D.
… ma quando
la riserva si prosciuga,
lagrime non ne sgorgano, lo specchio
non manda più bagliori
e sul suo fondo
quel che appare e un’immagine
indistinta che peni a riconoscere,
saranno da rimpiangere
lagrime, specchio e il tempo ch’era dato
specchiarsi nelle lagrime?
La riserva delle lacrime come riserva di emozioni. Se la fonte non getta più, la riserva si prosciuga. E se lo specchio non riverbera più bagliori, le immagini al fondo di esso diventano indistinguibili e poco chiare. Forse è questo che il poeta teme di più. Eppure il miracolo, improbabile ma sempre possibile, a volte si ripete. Nascono allora poesie come E anche il ricordo, con la quale chiudo questo breve excursus.
E ANCHE IL RICORDO
Ciclo prossimo a compiersi,
il giorno è al suo tramonto;
tu ti chiedi che lasci
dietro di sé, che resti
del viaggio: volti d’ombra
cui l’amore prestò
il riflesso che illude,
sillabe che evocate
dalla pagina o scritte
colmarono la notte,
luoghi dove avvampò
al suo grado più alto
la brace della vita…
Ti riconosci ancora, ma lo specchio
si offusca, viene meno
la luce e anche il ricordo
perde i contorni, dubita
di se stesso e di te.