Nota e traduzione di Chiara De Luca
“Mi costringo a scrivere ogni giorno, come un impiegato. Scrivere è la mia vita. Mi piace farlo, non mi dà da vivere, però è la mia maniera di essere”, dice Nuno Júdice a Antonio Jiménez Barca su «El Pais». Eppure nessuna delle sue poesie appare in alcun modo esito di costrizione o forzatura, né ha il sapore di un testo d’occasione o di un esercizio virtuosistico. Il poeta è simile piuttosto al pellegrino, che talvolta non vorrebbe partire per luoghi sconosciuti, poi fa leva su se stesso e si mette in viaggio verso una meta che non ha, per approdare al vuoto (lo stesso che occasiona la poesia), e scoprirvi cose inaspettate, tornando carico di tesori al punto di partenza, all’intersezione tra più mondi. Apprestandosi al viaggio del comporre, Júdice si lascia trasportare dalla propria stessa scrittura, interroga le parole, le lascia risuonare, riverberare nell’eco di se stesse, poi prova nuove combinazioni alla ricerca di quella “musica delle parole” che costruisce anche – a livello incosciente, talvolta, ma pienamente dominato nella tradizione poetica, una musica del senso” (La poesia nel mondo). Dalle sue poesie traspare un raffinato gusto del linguaggio, il poeta pare divertirsi nel manipolare la lingua a piacimento, cercando di forzarne i limiti, pur sapendo di non poterli mai del tutto valicare. Alcuni testi di La materia della poesia sono particolarmente complessi dal punto di vista sintattico, le idee vanno concatenandosi verso dopo verso, generando l’andamento di un discorso che a sua volta si riflette, attuandosi, inscenandosi. Il poeta incastra sapientemente tra loro i mattoni del linguaggio per costruire l’edificio del discorso filosofico, che si traduce spesso in una riflessione meta poetica: la poesia interroga se stessa e le singole parole si tendono all’estremo del proprio senso, frastagliandosi nelle sue molteplici sfumature, quasi a voler mettere alla prova la propria resistenza. In altre poesie Júdice veste con estrema naturalezza panni altrui, assume nuove identità, reali o presenti nell’immaginario collettivo, racconta o rievoca storie che non gli appartengono, o che gli appartengono solo in forma mediata, simbolicamente, quali proiezioni di sé e di esperienze pregresse. Vi sono infine poesie in cui sveste ogni maschera e si rivolge senza alcun filtro – onirico, surreale, ironico, filosofico – al lettore. Sono le poesie che Júdice, in un’intervista rilasciata a Millicent Borges Accardi per «Portuguese American Journal», definisce “le più profonde”, quelle in cui combina passato e presente “per creare una pienezza che nutre la vita e la poesia”, ripristinando l’interezza della loro relazione. L’altezza di queste poesie “piene” risiede nella profondità dell’introspezione, nella pacata oggettività della descrizione, nel dolente distacco dalle cose nel momento stesso in cui il poeta le abbraccia con lo sguardo. In queste poesie il poeta abbandona la mise-en-scène, sceglie il sintagma più lineare dal serbatoio di quella sua complessa “sintassi dell’io” di cui efficacemente scrive Vincenzo Russo in un bel saggio comparso su «Griseldaonline», e mette liberamente in scena se stesso e la propria diretta e personale esperienza delle cose, quand’anche simbolicamente trasposte, scandagliando il buio della propria memoria in cerca di figure che riemergono prepotentemente alla luce del presente. È lì che la musica della parola le avvolge e rischiara, integrandole alle “cose più semplici”, di cui Júdice estrae la complessità e il mistero, alla frontiera tra il mondo empirico, con tutte le sue stratificazioni di concreti mondi concentrici, e i mondi altri che ammiccano nel buio dove la poesia si addentra per tornare.
Dall’Introduzione di Chiara De Luca
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Breve milagre
Da última vez, o céu deu uma volta
sobre si próprio (o próprio sol era
um girassol).
A terra estava por cima das nuvens. Dei
um salto no arco da lua e caí na estrada
de Santiago, que os anjos alcatroavam
de branco.
Deus estava sentado na mesa
da esplanada, à espera que lhe trouxessem
o café. Sentei-me com ele e perguntei-lhe
se era verdade que existia.
«Quando morrer, quero ir para
Terra», disse-me. «Quero respirar
o ar fresco da manhã, no sítio em que
as dunas acabam, e o mar se estende
até onde eu quiser.»
O criado chegou com o café. «Tem de
pagar», disse-lhe. E Deus esperou que
eu pusesse o dinheiro na mesa. «Esqueci-me
da carteira», segredou-me. «Faz isto
todos os dias», murmurou-me o criado, sem que
ele ouvisse.
Deixei-o, sem me despedir. E
quando voltei ao céu vi
que os anjos me deixavam entrar, sem
cobrar portagem, na via láctea.
*
Breve miracolo
Dall’ultima volta, il cielo aveva fatto
un giro su se stesso (il sole stesso era
un girasole).
La terra stava sopra le nuvole. Feci
un salto nell’arco della luna e caddi sulla strada
di Santiago, che gli angeli incatramavano
di bianco.
Dio era seduto a un tavolino del bar
all’aperto, in attesa che gli portassero
il caffè. Mi sedetti con lui e gli chiesi
se fosse vero che esisteva.
«Quando morirò, voglio andarmene
in giro per la Terra», mi disse. «Voglio respirare
l’aria fresca del mattino, nel punto in cui
finiscono le dune, e il mare si estende
fin dove lo desidero.»
Il cameriere arrivò col caffè. «Deve
pagare», gli disse. E Dio sperò che
mettessi io il denaro sulla tavola. «Ho scordato
il portafogli», mi bisbigliò. «Fa così
tutti i giorni», mi sussurrò il cameriere, senza che
Dio sentisse.
Lo lasciai lì, senza congedarmi. E
quando tornai al cielo vidi
che gli angeli mi lasciavano entrare, senza
riscuotere il pedaggio, nella via lattea.
*
Enigma
Numa casa velha, um ruído de nada
enche o quarto de sombras, mesmo quando
a casa está à escuras. Empurra-se a porta,
à procura de qualquer coisa, e as madeiras
velhas, a pintura desfeita com os anos,
os buracos por tapar, só dizem o silêncio.
Resta, a quem quer saber de onde vêm
os ruídos que enchem o nada de uma casa
velha, sentar-se num banco esquecido, olhar
para o tecto, e esperar que os minutos passem,
como se fossem horas. Por vezes, pode ser
que o vento sopre através de uma telha,
fazendo ouvir o ruído do céu; de outras
vezes, um movimento atrai o olhar: e
uma osga desaparece num canto, como
se já não precisasse de ninguém.
E quando se sai da casa velha, sem
saber de onde vem o ruído de nada, o
que se leva na cabeça é o ruído de nada,
que vem de dentro da própria cabeça, como
se uma casa velha se alimentasse dos ruídos
que cada um leva consigo, quando entra num
quarto vazio, e se senta num banco esquecido,
à espera de saber de onde vem o ruído
desse nada que cada um leva consigo,
ao entrar sozinho numa casa abandonada.
*
Enigma
In una vecchia casa, un rumore di nulla
colma la stanza di ombre, anche quando
la casa è al buio. Si spinge la porta,
in cerca di qualcosa, e i legni
vecchi, la vernice scorticata dagli anni,
i buchi da tappare dicono solo il silenzio.
Resta, a chi vuole sapere da dove vengano
i rumori che colmano il nulla di una casa
vecchia, il sedersi sopra una panca dimenticata,
guardare il tetto, o aspettare che passino i minuti,
come fossero ore. A volte, può essere
che il vento spiri attraverso una tegola,
facendo sentire il rumore del cielo; altre
volte, un movimento attira lo sguardo: e
un geco svanisce in un canto, come
non avesse più bisogno di nessuno.
E quando si lascia la vecchia casa, senza
sapere da dove venga il rumore del nulla, ciò
che si leva nella testa è il rumore del nulla
che viene da dentro la testa stessa, come
se una vecchia casa si alimentasse di rumori
che ciascuno porta con sé, quando entra in una
stanza vuota, e si siede su una panca dimenticata,
e attende di sapere da dove venga il rumore
di quel nulla che ciascuno porta con sé,
entrando da solo in una casa abbandonata.
*
Relatório
Faço o inventário dos móveis nesta casa vazia,
com um caderno de escola, enchendo as linhas
com um desenho minucioso de palavras:
um armário de almas, uma cadeira de balouço,
um aparador de ecos, uma mesa sem pernas,
um espelho de sombra, um ângulo interrompido
na cesura do verso, uma estante de imagens.
Levo esta lista ao notário; e peço-lhe que
risque os objectos inúteis, para que o caderno
sirva para alguma coisa. Mas ele pede-me que
substitua as palavras pelos objectos. Então,
ponho a alma no armário, balouço o corpo na
cadeira, grito no abismo do aparador, faço
andar a mesa, olho-me no espelho do verso,
e tiro da estante todas as imagens.
«Que casa é esta?», pergunta-me o
empregado. Digo-lhe que as salas são
as estrofes, que os muros são feitos com
o tijolo dos versos, que um gesso de rimas
preenche os interstícios. Só não sei indicar
a rua, o número, a cor das paredes. É uma casa
que não existe, embora seja a minha casa.
E esvazio-a de móveis, de objectos, de palavras,
até ficar apenas com o poema que a construiu.
*
Resoconto
Faccio l’inventario dei mobili in questa casa vuota,
in un quaderno di scuola, riempiendo le righe
con un minuzioso disegno di parole:
un armadio d’anime, una sedia a dondolo,
una credenza d’echi, un tavolo senza gambe,
uno specchio d’ombra, un angolo interrotto
nella cesura del verso, uno scaffale d’immagini.
Porto questa lista al notaio; e gli chiedo di
cancellare gli oggetti inutili, affinché il quaderno
serva a qualcosa. Ma lui mi chiede
di sostituire le parole con gli oggetti. Allora,
ripongo l’anima nell’armadio, cullo sulla sedia
il corpo, grido nell’abisso della credenza, faccio
camminare il tavolo, mi guardo nello specchio del verso,
e tolgo dallo scaffale tutte le immagini.
“Ma che casa è?”, mi chiede
l’impiegato. Gli dico che le stanze sono
le strofe, che i muri sono fatti con
i mattoni dei versi, che un gesso di rime
riempie gli interstizi. Le uniche cose che non so indicare
sono la strada, il civico, il colore delle pareti. È una casa
che non esiste, nonostante sia la mia casa.
E la svuoto di mobili, oggetti, parole,
finché resta solo la poesia che l’ha costruita.
Nuno Júdice è nato a Mexilhoeira Grande, Algarve. Oltre ad essere uno dei maggiori poeti contemporanei di lingua portoghese, è saggista, narratore, traduttore e critico letterario. Attualmente è professore di Letteratura all’Universidade Nova di Lisbona, dove vive. Tra il 1969 e il 1974, ha fatto parte della redazione della popolare rivista “Time and Mode”. Nel 1997, è stato consulente culturale dell’ambasciata del Portogallo e direttore dell’Istituto Camões di Parigi. Sue poesie sono state tradotte in spagnolo, italiano, inglese e francese. Lavora per il teatro e ha tradotto autori come Molière, Shakespeare ed Emily Dickinson. Si occupa della sezione cultura della Fondazione José Saramago, creata nel 2008. È stato nominato Grande-Oficial da Ordem de Sant’Iago da Espada in Portogallo e Officier de l’Ordre des Arts et des Lettres in Francia. Júdice ha ricevuto vari riconoscimenti letterari e gli sono stati assegnati numerosi premi, tra cui il prestigioso Reina Sofía per la poesia iberoamericana 2013, il più importante della penisola iberica. Tra le sue opere più recenti ricordiamo: Poesia Reunida (1967-2000) (2000), Pedro, Lembrando Inês (2001), Cartografia de Emoções (2001), O Estado dos Campos (2003), Geometria Variável (2005), As Coisas Mais Simples (2006), O Breve Sentimento do Eterno (2008), A Matéria do Poema (2008), Guia de Conceitos Básicos (2010), Fórmulas de uma luz inexplicável (2012), Navegação de Acaso (2013).
Edizioni KOLIBRIS – COLLANA BEIJA-FLOR – Poesia portoghese contemporanea
NUNO JÚDICE, La materia della poesia, Introduzione e traduzione di Chiara De Luca
pp. 264, € 12