Foto di Daniela Rampa
Il 22 marzo di quest’anno è morto Pier Francesco Paolini, che è stato uno dei migliori traduttori italiani del ventesimo secolo. Fu infatti traduttore prestigioso di classici inglesi e americani per le migliori case editrici italiane; tradusse per Feltrinelli, Bompiani, Mondadori, Rizzoli tutto il Gotha degli autori anglosassoni, da Conrad a Fitzgerald, a London a Capote, Mailer, Roth, Irwing, Virginia Woolf, Nabokov, Bukowski (è sua la traduzione di Storie di ordinaria follia), Bellow… Intellettuale raffinato e coltissimo, personalità schiva, Alfredo Giuliani lo definì “il più discreto, il più invisibile dei letterati italiani”. Fu poeta giocoso ed erotico e a tratti malinconico e romanziere, e le sue opere narrative andrebbero ricordate più di quanto non siano state notate a suo tempo. Nonostante il suo carattere schivo, cordiale ma solitario, e comunque legato a pochi amici privilegiati (bisogna ricordare tra l’altro la sua amicizia con Aldo Rosselli) attirò l’attenzione di Paolo Milano, di Piero Dallamano, Alfredo Giuliani e Cesare Milanese. Ma fu sostanzialmente un isolato, un uomo e un letterato incapace di sgomitare, e piuttosto attento a cogliere i momenti felici e piacevoli della vita.
Per quel che riguarda la sua opera di narratore, è opportuno citare ciò che osservò Alfredo Giuliani, quando affermò che “la specialità di Paolini è la commedia ilarotragica, il grottesco venato di pietosa indulgenza, il melodramma serio rivisitato come opera buffa”; ed è forse per questo, per questa anomalia, per questo stare in bilico tra comicità e tenerezza, tra fescennino e alta raffinatissima cultura, che Paolini è stato interpretato come autore minore. In realtà ci sono vari temi nella narrativa di Paolini; è presente a piene mani l’ironia, il sarcasmo, che a volte fa intravedere un moralismo di fondo molto accentuato, anche se nascosto. C’è un edonismo un po’ epicureo presente dappertutto, e anche un gusto per il passato, oserei dire per il passatismo. Paolini immerge tutto assai spesso in un mondo che non esiste, o che esiste alla periferia, nei paesi, nelle città piccole, o che esisteva una volta; un mondo desueto e un po’ crepuscolare, grassoccio, di una sensualità ottocentesca-primo novecento, sensuale, un po’ cinico, e quindi questo gaddiano rigirarsi le parole in bocca, l’uso spesso beffardo dei dialetti, il menzionare i cibi di una volta; tutto è provincia, tutto è passato in Paolini; il mondo, o forse l’Italia, è tutto un’immensa periferia.
In un’opera complessivamente tutt’altro che omogenea ci sono felicemente dei momenti assai alti, a volte inaspettati. Per quel che riguarda il mio personale parere di lettore disordinato e niente affatto metodico c’è da restare ammirati leggendo Parole e sangue (Feltrinelli), libro da non dimenticare, sardonico e drammatico, e lo scatenato I sette peccati mortali a cavallo (Empirìa). L’amore, la malinconia e la felicità entrano di soppiatto tra pagine comiche solo in apparenza. E, all’interno de Il gioco delle tre donne (Robin) appare improvvisamente e poi finisce una storia d’amore bellissima, una di quelle storie che ogni scrittore vorrebbe raccontare. E collegata a questa storia (ogni storia d’amore ha un retroterra, uno spazio) appare una delle più belle descrizioni di osteria popolare, truce, felice, selvaggia, che io abbia mai letto, che può stare al pari con la descrizione del ristorante per studenti de Le illusioni perdute di Balzac, o con certe descrizioni di bar di Hemingway.
____
Pier Francesco Paolini
Via Baccina
Quando mi viene voglia di morire
prendo la metro e vado in Via Baccina.
è una via solitaria in un quartiere
vivace – strada quasi d’altri tempi.
Nel cuore storico di Roma antica
è una via malinconica, inromana,
ben lontana – diresti – dal vicino
frastuono dei motori e la notturna
allegria, spensierata e spendereccia,
delle Vie de’ Serpenti e del Boschetto,
di Madonna dei Monti, Via Leonina,
Via dei Zingari, Via dell’Angeletto.
Non ci trovi neppure un’osteria
in Via Baccina mia. C’è la bottega
(ma non è solo questo che mi strega)
d’un falegname antico che, ancora,
diresti che lavora legni rari,
ai tempi rei degli empi truciolati,
per fabbricare scrigni e stipi varii.
Ci sono negozietti di paese
dove la vecchierella va a comprare
“Mezz’etto, sor Novè, di mortadella”
ma puoi trovare prelibati
cibi e sapori ormai dimenticati,
tartufi, ed i fegatelli del vero
maiale – quello nero. C’è l’oscuro
portone sempre chiuso d’un ospizio
dove immagini ch’abbiano ricetto
principesse e marchesi immiseriti.
Simile a un antro, ad una catacomba,
c’è un Circolo Sportivo dove annosi
tifosi di Mazzola e di Piola,
al lume – sembrerebbe – di candela,
portano avanti una disperata
partita di tressette o di scopone
e rimembrano quella di pallone
dell’Italia che batte l’Inghilterra
nel Mille-novecento-trenta-quattro.
Poco più oltre ha la sede l’Empirìa,
la piccola casa Editrice che ha stampato
tanti libri di buona narrativa
e di incontaminata poesia.
Giunto in fondo alla via – mi soffermai.
Ed alzo gli occhi verso una soffitta
che il titolo ha, per me, di nostalgia.
Nel Mille-novecento-cinquantuno,
lì trascorremmo la breve stagione
del nostro amore eterno, io e la bella
donna che in terra ebbe nome Nicella:
Fenice Codispoti in Polverari,
polvere ormai da trentacinque anni.
Dentro di me, una voce ripeteva:
A thing of beauty is a joy forever.
E così sia.
Ricordo che, al risveglio, quel mattino
– lei dorme ancora – le depositai,
quasi a sigillo di una gioia estatica,
un bacio mordicchioso su una natica.
Al termine di questa passeggiata
la voglia di morire m’è passata.
(Pubblicata da Empirìa)
Pingback: Per Pier Francesco Paolini | Mr Dedalus
Gentile Luigia Sorrentino,
Voglio qui ringraziarla per le belle parole che ha speso per mio padre. E soprattutto per averlo ricordato come autore oltre che come traduttore, il ruolo con cui tutti gli addetti ai lavori lo ricordano, e tutti i lettori lo conoscono anche se solo di rimando. Mi viene una buffa riflessione: Mio padre è una delle 20.000 persone più conosciute in Italia, se il numero di chi lo ha affrontato fosse pari al numero di chi realmente lo conosce. Non c’è lettore (abituale) che abbia più di quarant’anni che non abbia letto o abbia il casa Il Gabbiano Jonathan Livingston. E quindi in quest’ottica volutamente aberrata, mio padre è entrato in molte più case di quante gli ospiti ne avessero conto.
Ma grazie per aver ricordato anche il Paolini autore, che a differenza del traduttore ha avuto minor fortuna di pubblico. Troppo ricercato o troppo poco easy, che dir si voglia, mi ricordo un fatto accaduto quando io ero ragazzo: Un capo redattore della Mondadori (se la memoria non mi tradisce) chiamò mio padre per fargli cambiare una parola inserita in una frase, secondo lui troppo difficile e aulica, sostenendo che il lettore non l’avrebbe capita. Mio padre gli rispose che se non si capisce un termine si prende un vocabolario se si vuole e lo si guarda. Esercizio che io facevo di continuo quando leggevo E. A. Poe. E dicendo a questo funzionario che in un testo è il discorso generale che dev’essere chiaro, il singolo termine può anche non essere identificato subito, ma se la frase è costruita in maniera comprensibile tutti ne capiranno comunque il senso.
Altra cosa che mio padre ripeteva sempre era che la difficoltà del traduttore e la misura della sua abilità, non è saper tradurre pedissequamente un testo, cosa che chi conosce bene una lingua sa fare, ma rispettare la complessità del testo originale, che deve risultare né più facile né più difficile, né tantomeno improbabile.
Faceva sempre esempi tipo questo: Se un autore inglese fa dire a un suo personaggio, contadino e analfabeta del secolo scorso: “I suppose”, Tu non puoi tradurlo con “Io suppongo”, perché I suppose in inglese è un’espressione idiomatica che tutti usano indipendentemente dal loro grado di istruzione. Mentre “suppongo” un suo pari analfabeta italiano non lo userebbe mai! Per cui si deve tradurre in questo caso specifico con: “Io penso, Io credo”, proprio perché non risulti stridente nel contesto generale in bocca a quel personaggio. Queste sottigliezze di chi traduce un testo, ho riportato ora un esempio davvero banale, sembrano facili e intuitive ma non sempre lo sono per chi traduce. Un bravo traduttore dev’essere anche un bravo scrittore/interprete.
Morale e fine di questa vicenda, mio padre s’impuntò sulla scelta del termine e non volle cambiarlo e non fu più chiamato per tradurre romanzi di quella Casa.
Sono fuori da questo mondo, ma credo che oggi i traduttori professionisti del passato, pagati a cartella siano in estinzione. Oggi è tutto rapportato ai costi/benefici e le Case editrici li fanno questi conti. So che molti traduttori di oggi sono degli interni che vengono stipendiati come impiegati perché costano molto di meno dei liberi professionisti. Dopo gli anni ’90 con la crisi dell’editoria e oggi con la crisi di tutto, quando si può risparmiare e dove si può tagliare si taglia. Quelli come mio padre che conoscevano e sfruttavano la complessità di un idioma complesso e bello com’è bello e complesso l’italiano erano dei dinosauri a un certo punto. E questo riguarda non solo la traduzione ma anche la produzione letteraria.
È il lettore che fa il mercato, se il lettore medio è ignorante bisogna scrivere solo quello che lui è in grado di capire e non di più. Ecco che il nostro linguaggio, scritto e parlato si è ridotto a circa 5.000 vocaboli. Quelli che senti per strada o in televisione. Di questi: 1/6 sono spesso termini sbagliati e 1/6 sono termini anglofoni usati ovunque e a sproposito. All’italiano però rimangono ricchi 4/6 del rimanente patrimonio linguistico nazionale… e buttali via con questa crisi!
Oggi senti dire da varia umanità non solo della Curva Sud: “Ho la nomina di attaccabrighe” invece di: “Ho la nomea di attaccabrighe”. Questo è quanto ci riserva il presente.
Ma il discorso sul triste destino della lingua italiana oggi e i suoi cambiamenti, è troppo vasto per affrontarlo in questa sede. Scusi se mi sono dilungato, volevo solo ringraziarla per aver ricordato il Pier Francesco Paolini anche autore. Mio padre diceva: “Traduco per vivere, scrivo per esistere”.
Grazie!
Marco Rufo Paolini
Carissimo Marco,
grazie di cuore !
Un abbraccio a lei e a tutta la sua famiglia