Ascolta le poesie lette da Hinemoana Baker
Nota di Francesca Benocci
Hinemoana Baker è una poetessa, musicista e drammaturga neozelandese. Sue opere sono apparse in antologie e riviste letterarie e la sua prima raccolta di poesie mātuhi | needle è uscita nel 2004.
Sul suo sito internet (http://www.hinemoana.co.nz/) si presenta con un tradizionale mihi in lingua māori. Il mihi è una forma di saluto e di presentazione, nella quale si parla di chi si è, da dove si viene e di quale sia il nostro posto nel mondo e nella comunità.
he mihi
Tēnei au e mihi atu nei, tēnā koutou katoa ngā kaitautoko kua tau mai nei ki tēnei whārangi, me kii, ki tēnei kāinga ipurangi.
He uri ahau nō Ngāi Tahu ki te moutere ātaahua rā, ki Te Wai Pounamu. Nō Ngāti Raukawa hoki, nō Ngāti Toa Rangatira, Te Āti Awa i te taha o taku pāpā. He Pākehā hoki ōku mātua – nō Ingarangi ērā tūpuna ā, i tētahi taha o te whānau o taku whāea, nō Tiamani (Oberammergau, Bavaria). I whakatipu ahau i Whakatane me Whakatū, ā, kua noho mo te wā roa ki Te Whanga-nui-a-Tara me Kāpiti.
Nō reira tēnā koutou, tēna koutou, tēna tātou katoa.
(Saluti! Discendo dalla tribù Ngāi Tahu della meravigliosa Isola Sud e dagli Ngāti Raukawa, Ngāti Toa e Te Āti Awa dell’Isola Nord. Le mie radici māori sono da parte di padre. Entrambi i miei genitori discendono anche da non-māori e hanno legami con l’Inghilterra e, da parte di mia madre, con la Baviera (un paesino di nome Oberammergau). Sono cresciuta tra Whakatane e Nelson e ho vissuto per vent’anni tra Wellington e la Kāpiti Coast. Grazie della visita.)
Hinemoana Baker è nata nel 1968 a Christchurch ed è cresciuta tra Whakatane (che si legge ‘Facatàne’, per chi volesse provare a dirlo ad alta voce) e Nelson, come leggiamo nel mihi. I suoi legami tribali si estendono dalla penisola di Ōtākou (nell’Isola Sud, vicino alla città di Dunedin) fino a Horowhenua e Maunga Taranaki (entrambe aree dell’Isola Nord, a nord ovest di Wellington).
Nella sua poesia convergono e si sfidano moltissime culture diverse, soprattutto le discendenze māori e pākehā (termine che identifica i non-maori della Nuova Zelanda, specie di discendenza britannica) dei genitori. Il bisogno di appartenenza, sia essa alla famiglia ristretta o a quella allargata, è in conflitto con quello ugualmente vitale di essere un individuo nel mondo.
Ha iniziato a studiare la lingua māori da adulta e il suo profondo amore per Te Reo (la lingua) emerge chiaramente nella sua opera. Le sue poesie intersecano osservazioni ed esperienze sui temi dell’infanzia, della famiglia, dello sviluppo della sessualità, della politica e della cultura.
L’identità è come spesso accade, specie nella produzione postcoloniale, uno dei temi sottesi a tutta la produzione di Baker in tutti i campi della sua vita sia artistica che privata. Il diritto di essere chi si è e basta, che siamo bisessuali, antipatici, alti o māori dalla pelle chiara e gli occhi verdi.
Baker ha fatto moltissime cose nella vita, tutte molto diverse tra loro: è stata insegnante di lingua māori e di inglese per stranieri, rappresentante commerciale, giornalista e produttrice radiofonica, ha fatto numerosi tour per la Nuova Zelanda come cantante e artista.
Baker è stata Arts Queensland Poet in Residence, in Australia, nel 2009 e writer in residence nell’International Writing Programme alla University of Iowa, negli Stati Uniti, nel 2010. Ha da poco concluso la sua esperienza di writer in residence all’International Institute of Modern Letters per il 2014, presso la Victoria University of Wellington. Alle sue attività ha recentemente aggiunto quella di celebrante.
Il suo ultimo progetto, ancora in corso, si intitola provvisoriamente Dear Mother Basillise (Cara Madre Basillise) ed è la narrazione di due storie gemelle in forma epistolare: l’esperienza traumatica di suo padre Val, cresciuto a Sunnybank, un orfanotrofio cattolico gestito dalle Sisters of the Mission e dalla sopra citata Madre Basillise, si intreccia con la cronaca dei tentativi falliti di Baker di diventare madre e della sua lotta contro l’infertilità. Qui c’è un filmato in cui Baker spiega il progetto:
https://www.youtube.com/watch?v=gQXwCXpEGZs.
Attualmente vive e lavora a Wellington, la capitale della Nuova Zelanda, dove lavora come scrittrice, musicista, produttrice e insegnante di scrittura creativa freelance.
OPERE
Scritti di Hinemoana Baker sono usciti in molte antologie neozelandesi e internazionali e anche nelle autorevoli riviste letterarie ‘SPORT’, ‘Turbine’, ‘Best New Zealand Poems’ e ‘Best of the Best New Zealand Poems’.
mātuhi | needle (2004)
La prima raccolta di poesie di Hinemoana Baker è uscita in Nuova Zelanda con la Victoria Universisty Press e negli Stati Uniti con la casa editrice della star de Il signore degli anelli Viggo Mortensen, la Perceval Press. La raccolta include dei dipinti dell’artista Jenny Rendall, della tribù Ngāi Tahu.
Di qesta raccolta fa parte, tra le seguenti, la poesia A Walk with Your Father.
kōiwi kōiwi | bone bone (2010)
La sua seconda raccolta (sempre con Victoria University Press) è uscita nel 2010. In copertina compaiono delle opere dell’artista e designer di gioielli Arana Horncy, di discendenza Ngā Puhi/Te Mahurehure.
Di questa raccolta fanno parte le poesie Last Born e Hinemoana.
waha | mouth (2014)
Di questa raccolta (sempre edita da Victoria University Press) fanno parte le poesie Rope, Candle e Point the Canoe. In copertina Cave 4, dell’artista Sian Torrington.
Mi piace pensare che aprire questo libro e leggerlo sia come stare alla bocca di un fiume, di una grotta o di una tomba, con in mano una candela – Hinemoana Baker
Candle
I.
By the time I reach the basket of rose petals
held by the young girl with the green sash
there are none left. Still, she holds
the basket out to me
like an air steward offering sweets
in the last fifteen minutes of the flight.
I breathe in the smoke
of myrrh from the censer
and breathe it out towards your photograph.
If this were a waltz it might go something like:
in space sound don’t travel and everyone floats
won’t somebody light my candles
It would be sung in the voice you sang in
when you sang Johnny Cash
and there would be a visual element, of course
a silent film of a free diver
frogging down from the sparkling surface
to the place where the very water
becomes the sinking anchor tied to your feet.
II.
The stone with a muka rope
tied through a single chiseled hole
the one we’ll give a name to when it washes up
a thousand years later in the shape
of an island white with gulls.
III.
We wrote words on pieces of paper and stuck them to our foreheads.
My mouth was on the plastic tap sticking out of the plastic bag.
Later I used my lips to free the sound of an insect from you.
I miss you (buzz). Pass me your lighter.
When I opened the door there was a cake on the front porch.
Someone had made patterns of waves in the off-white icing.
A single word in capital letters sang itself in chocolate.
Oh where is the cradle and where is the crime
Won’t somebody light my candles
There’s fire in the chapel and ice in the rhyme
Won’t somebody light my candles
IV.
Is it possible to perform this word? To own this word?
To kick this word once in the face and want to do it again?
Is it something one can acquire, like land or collectibles?
Oh yes, yes it is a veritable killer whale of a word
creamy and foamy in its black and white propensities
and its refusal to speak English.
V.
I am trying to leave you behind, my love
I am trying to leave you behind
The boat was a mouth, the word was a whale,
the moon was a flying fish, the swoop of a letter.
I miss you, it’s like a cave in this mouth.
It’s a terrible saxophone solo.
It’s what passes for a lie down.
Candela
I.
Prima che io raggiunga il cesto di petali di rosa
che la ragazza con la fascia verde ha in mano
non ce ne sono più. Eppure lei mi
porge il cesto
come uno steward che offra caramelle
negli ultimi dieci minuti di un viaggio.
Aspiro il fumo
della mirra dal turibolo
e lo espiro verso la tua fotografia.
Se questo fosse un valzer, farebbe tipo:
nello spazio né suono, né gravità
accendetemi le candele
Verrebbe cantato con la voce in cui cantavi
quando cantavi Johnny Cash
e ovviamente ci sarebbe un elemento visivo
il filmato muto di un apneista
che raneggia giù dalla superficie scintillante
fino al luogo in cui l’acqua stessa
diventa l’ancora pesante che hai legata alle caviglie.
II.
La pietra con la corda di muka[1]
legata attraverso un sigolo foro cesellato
quella cui daremo un nome quando arriverà a riva
mille anni dopo nella forma
d’un’isola bianca di gabbiani.
III.
Scrivevamo parole su pezzetti di carta e ce le attaccavamo in fronte.
Avevo la bocca sulla cannuccia di plastica della busta di plastica.
Più tardi ho usato le labbra per liberare da te il suono di un insetto.
Mi manchi (ronzio). Passami l’accendino.
Quando ho aperto la porta d’ingresso c’era una torta sulla veranda.
Qualcuno aveva disegnato delle onde sulla glassa biancastra.
Una parola sola, maiuscola, cantava se stessa in cioccolato.
Oh dov’è la culla, dov’è la viltà
Accendetemi le candele
Chiesa che brucia, rima congelerà
Accendetemi le candele
IV.
È possibile recitare questa parola? Possedere questa parola?
Prendere questa parola a calci in faccia una volta e volerlo rifare?
È qualcosa che si può acquisire, come la terra o i pezzi da collezione?
Oh sì, un’autentica orca assassina di parola
crema e schiuma nelle sue tendenze in bianco e nero
e nel suo rifiuto di parlare inglese.
V.
Cerco di lasciarti andare, amor mio
Cerco di lasciarti andare
La barca era una bocca, la parola era un’orca,
la luna un pesce volante, la picchiata d’una lettera.
Mi manchi, è come una grotta questa bocca.
È un tremendo assolo di sassofono.
È quel che passa per una dormita.
Rope
He roped me, he roped me twice the second time
it caught, fell at the right angle and landed around the bones
of my dress. He roped me from the East like light rising, from the
West like light falling, in the arrangement of his cutlery,
the bubbling land moving on its plates. Without words
or entertainment and without true silence he
roped me in the mud, in the kind of mud people call sucking,
or stinking, it sticks to one’s body, one’s feathers and folds.
I couldn’t bear the thought of soup or vast pastures, he roped me
without heart or dancing, when he called me his wriggly little girl.
It was like freezing, when he roped me, I watched a thousand
doors clap shut in the clouds. He roped me and began to pull,
in spite of his own injuries, and I allowed him to be lonely.
With a shovel I buried the turquoise feathers, warm from the sun,
winter in the blood. In my mind I wrote letters to all those I’d
wronged I want to be buried with a family resemblance.
Avvinta
M’ha avvinta, m’ha avvinta due volte la seconda
ha preso, un’angolazione perfetta e mi è atterrata sulle ossa
dell’abito. M’ha avvinta dall’oriente come luce che nasce, dall’
occidente come luce che muore, nell’assetto delle posate,
la terra gorgogliante si muove sulle tavole. Senza parole
né cerimonie e senza un vero silenzio lui
m’ha avvinta nel fango, in quel tipo di fango detto risucchiante
o fetente, che ti si appiccica al corpo, alle piume, alle pieghe.
Non sopportavo l’idea della zuppa o dei pascoli vasti, m’ha avvinta
senza cuore o passi di danza, ero per lui la sua piccola che si dimena.
È stato come congelarsi, quando m’ha avvinta, ho visto mille
porte serrarsi tuonando nel cielo. M’ha avvinta iniziando a tirare
incurante delle proprie ferite, gli ho permesso di essere solo.
Con un badile ho sepolto le piume turchese, calde di sole,
inverno nelle vene. Col pensiero ho scritto lettere a tutti coloro
ch’ho offeso voglio essere sepolta come una di famiglia.
A Walk With Your Father
Before you do anything else, check your lungs.
Are they the right size for you, are you the right size for them?
Are they nice and snug against your ribs and spine?
Don’t worry if they’re a bit big for you, you’ll grow into them.
They must be full, however; you don’t want them empty.
You have a long way to go.
Put your hand inside your mouth and make sure
everything’s in its place, check that all the pipes and hoses
leading from your lungs into your mouth are in position and in good nick.
You don’t want any leaks or sudden explosions
this is your air we’re talking about.
Close your mouth securely around this apparatus.
Next check your weight. If you are too heavy
or too light you won’t get anywhere. By the way
there’s no need to take a whole lot of extras with you.
Some people strap expensive knives to their legs and wear protective gloves.
There’s no real need for any of this—an ordinary old sharp knife
from the kitchen drawer will do. And just your bare hands.
You may need to signal to each other.
Now pay some attention to your skin.
It should feel secure and warm
but also allow plenty of room to move freely.
There are any number of colours available nowadays—
they all do pretty much the same job.
Your feet, are they the right size?
If they’re too large you will tire quickly,
too small and you’ll be left behind.
You’re probably looking at feet
about the same size as his.
Your eyes—spit in them.
It keeps everything clear.
That step you’re about to take
will have to be wider than you’re used to.
Don’t forget to move forwards, not backwards.
Keep your hand on your mouth so everything stays in place
when you break the surface.
Mihi to Tangaroa. Mihi to Hinemoana.
Now get in under there,
immerse yourself.
Do it now, go.
He’ll be right behind you.
Due passi con tuo padre
Prima di fare qualunque altra cosa, controlla i polmoni.
Sono della misura giusta per te, tu sei della misura giusta per loro?
Ti stanno attaccati per bene a costole e spina dorsale?
Non preoccuparti se ti stanno un po’ grandi, li riempirai.
Comunque devono essere pieni; non ti conviene averli vuoti.
Hai molta strada da fare.
Mettiti le mani in bocca e assicurati
che sia tutto a posto, controlla che tutti i tubi e i condotti
che vanno dai polmoni alla bocca siano in posizione e in buono stato.
Meglio evitare perdite o esplosioni improvvise
stiamo parlando della tua riserva d’aria.
Stringi bene la bocca intorno a questa attrezzatura.
Poi controlla il peso. Se sei troppo pesante
o troppo leggera non andrai da nessuna parte. Tra l’altro
non c’è bisogno che ti porti tutte quelle cose in più.
C’è chi si lega coltelli costosi alle gambe e indossa guanti protettivi.
Non c’è bisogno di tutta questa roba—un vecchio coltello affilato
preso dal cassetto delle posate basterà. E a mani nude.
Potreste aver bisogno di farvi segnali.
Ora concentrati un attimo sulla pelle.
Deve essere salda e tenere caldo
ma anche consentire di muoversi liberamente.
Sono disponibili in un sacco di colori al giorno d’oggi—
più o meno sono tutte uguali.
I piedi, li hai della misura giusta?
Se sono troppo grandi ti stancherai subito,
troppo piccoli e rimarrai indietro.
Probabilmente stai guardando dei piedi
grandi più o meno come i suoi.
Gli occhi—sputaci.
Così restano trasparenti.
Il passo che stai per fare
dev’essere più ampio di quello cui sei abituata.
Non dimenticarti che devi andare avanti, non indietro.
Tieni una mano sulla bocca così tutto rimane a posto
quando rompi la superficie.
Mihi[2] per Tangaroa. Mihi per Hinemoana.
Ora va là sotto,
immergiti.
Fallo adesso, vai.
Lui sarà lì dietro di te.
Hinemoana
(kohupatiki marae)
My face opens into a cavity.
I climb the stained glass
four or five hours pass
bright yellow pegs on a wire.
To that young man I say
I never do anything in a hurry.
He lights his second cigarette
sneezes, sneezes again
a third time, peace is building.
I picture the buried horse
red plastic under the concrete slab.
Singing begins out of a corner
Remember the living spray
High space above our heads
Canoe bucketing us through
I am five parts woman and the rest
in litres. My name is the name
of the one who drags them under
like the nuns swimming
their habits dark shapes
on hooks. Aunties enter
perform the how, beadwork
climbs from their fingers. One of us
loves to weave wet, the young man says
dry’s best or the whenu rot. Night
time, fluorescent light
we eat a third of a patiki each.
Is your name like your life
tide goes in, tide goes out?
My hands shake
in the traditional way.
Hinemoana
(kohupatiki marae[3])
Il mio viso si apre in una cavità.
Scalo la vetrata colorata
passano quattro o cinque ore
mollette giallo vivo su di un cavo.
A quel giovane dico
che non faccio mai nulla di fretta.
Accende la seconda sigaretta
starnutisce, starnutisce ancora
una terza volta, la pace cresce.
Immagino il cavallo sepolto
plastica rossa sotto la lastra di cemento.
Parte un canto da un angolo
Ricorda la vivida spuma
L’alto spazio sopra di noi
La canoa che ci portava
Sono cinque parti donna e il resto
in litri. Il mio è il nome
di chi li trascina giù
come le suore che nuotano
le loro vesti ombre scure
sugli ami. Entrano le zie
recitano il come, intrecci
crescono dalle loro dita. Una di noi
preferisce lavorare il bagnato, il giovane dice
meglio asciutto o il whenu[4] marcisce. Di
notte, luce fluorescente
mangiamo un terzo di pātiki[5] ciascuno.
Il tuo nome è come la tua vita
la marea sale, la marea scende?
Le mie mani vibrano
secondo la tradizione.
Last born
I am the last born
I move through the crowd with my shiny red wheels
I bring with me large animals and flaming spikes in cages
I am the last born and I know who I want to vote for
I know the identity of the figure in black
Low prices are written all over my face
I am the last born and I have a long following
Everything and everyone is my elder
I move through the relatives in my green leaves
I eat canoes and drink inlets
I have a beard and a small fat crab inside my shell
I am the last born the pōtiki the teina
Everything breaks its back over me but there are
Many ways to build from scratch and in spite of the fact
That every fourth corner of the land has been walked
Over I make everything ready, being the last born
I am desired at each event, to lay down the
Cow leather, to direct people to the location of
The demons, the devils in the tarmac
We all bite something for a living
I know not to rave and shout when I reach these places
I bring children with me, just the right number
Of pumpkins and I sing completely out of tune
Buying up all the land around with my lucky sand dollars
Ultima nata
Sono l’ultima nata
Mi muovo tra la folla con le mie brillanti ruote rosse
Porto con me grandi animali e punte fiammeggianti in gabbia
Sono l’ultima nata e so per chi voglio votare
Conosco l’identità della sagoma in nero
Ho prezzi bassi scritti su tutta la faccia
Sono l’ultima nata e ho un lungo seguito
Tutto e tutti mi sono maggiori
Mi muovo tra i parenti nelle mie verdi foglie
Mangio canoe e bevo insenature
Ho la barba e un piccolo granchio grasso nel mio guscio
Sono l’ultima nata te pōtiki[6] te teina[7]
Tutto si rompe la schiena per me ma ci sono
Molti modi di costruire da zero e nonostante il fatto
Che tutti i quattro angoli della terra siano stati
Calpestati preparo tutto, essendo l’ultima nata
Mi vogliono a tutti gli eventi, per stendere
La pelle di mucca, per dirigere la gente al luogo
Dei demoni, dei diavoli nell’asfalto
Ingoiamo tutti qualcosa per tirare avanti
So di non dover delirare e urlare quando arrivo in questi posti
Porto bambini con me, il numero giusto
Di zucche e canto completamente stonata
Facendo incetta della terra intorno coi miei dollari della sabbia portafortuna
Point the Canoe
Kuukua it keeps us apart, or maybe
like Epeli says it joins us. We stand on either lip
of a moon-sized crater filled with Pacific, yet
we speak softly to each other and like fish
moving onto land the generations in our ears pick up
and move the message through, the next home is prepared,
and there’s smoking earth-ovens warming our arrival.
You’re there too Kuukua, perhaps you offer me a bowl of fufu
and we talk of Lake Michigan and that butterfly parent The Bay
Area from whom all other estuaries are most
freshly born onto your page. Point the canoe
and bring the island to it said Mau, the master
navigator from Satawal. I was twenty
and rudderless, no craft, no crew. I longed
to sit at his feet, have him teach me this magic –
not to set sail but rather
to set oneself still amid the motion,
waiting only for the right home
to grow on the horizon.
Kuukua, my singular gift is for extrapolation.
I can’t look at shellfish without thinking fritters.
I talk of how much Atlantic I crossed
to walk beside the Hudson whose name
is Shatemuc, my plane a comic yellow shape
farting dotted lines across a brilliant screen,
the Seafather below an ice of impact. You and I know ice
and how to sing when you’re made of it. We know it takes a year to thaw.
I’m blinded in the right eye by the afternoon sun off the Maton.
A dying ivy attempts the climb outside and Paraparaumu Beach
is salty enough for the breeze to carry it
the few kilometres to our green back yard.
In yours, the Ghost Ship stands offshore, television sets
and one entire roof after another will roll
in the white-tipped green waves. The woman from Japan,
a set of Mickey Mouse ears firm on her head as was the way
of her orchestra, stopped the music. She sat
between the banjo and the grand piano no bigger than a dinner plate
she gave thanks, love to shaken Christchurch, her voice
strong as her violin. A thousand of us breathed late summer air
off the mountain we share. In Titahi Bay I pictured
my great-great grandfather, his beard like Taranaki snow.
Christine and I scooped estuary mud through our fingers, threw
purple and lime-green seasmelling weed into the sparkle,
cars drove onto the hard sand and pulled up for picnics.
Through our fingers, blue sky and Central Park in early blossom.
Punta la canoa
Kuukua[8], ci separa o forse,
come dice Epeli[9], ci unisce. Siamo ciascuna sul labbro
di un cratere grande come la luna colmo di Pacifico, eppure
ci parliamo l’un l’altra sottovoce e come pesci
che si spostano sulla terra le generazioni nelle nostre orecchie colgono
il messaggio e lo trasmettono, casa nuova è quasi pronta,
e ci sono forni di terra fumanti a scaldare il nostro arrivo.
Ci sei anche tu Kuukua, magari mi offri una ciotola di fufu
e parliamo del lago Michigan e di quel genitore farfalla, la Bay
Area, da cui tutti gli altri estuari sono nati
da poco sulla tua pagina. Punta la canoa
e porta l’isola ad essa ha detto Mau[10], il maestro
navigatore di Satawal. Avevo vent’anni
e niente timone, né nave, né ciurma. Morivo dalla voglia
di sedermi ai suoi piedi, che m’insegnasse questa magia –
non a salpare, piuttosto
come restare ferma in mezzo al movimento,
aspettando solo che la casa giusta
crescesse all’orizzonte.
Kuukua, il dono unico che ho è l’estrapolazione.
Non posso vedere un frutto di mare senza pensare frittelle.
Parlo di quanto Atlantico ho attraversato
Per camminare lungo l’Hudson che si chiama
Shatemuc, il mio aereo una buffa sagoma gialla
che scoreggia linee punteggiate su uno schermo brillante,
il Padremare sotto un impatto ghiacciato. Tu e io lo conosciamo il ghiaccio
e come cantare quando sei fatta di esso. Sappiamo che gli serve un anno per scongelarsi.
Ho l’occhio destro accecato dal sole pomeridiano sulla Maton.
Un’edera morente, fuori, tenta l’arrampicata e sulla spiaggia di Paraparaumu
c’è abbastanza sale perché il vento lo trasporti
per i pochi chilometri fino al nostro verde giardino.
Nel tuo, la Nave Fantasma sta al largo, televisori
e un tetto intero dopo l’altro rolleranno
sulle verdi onde puntute di bianco. La donna venuta dal Giappone,
un paio di orecchie da Topolino salde sulla testa come usava
la sua orchestra, ha fermato la musica. Era seduta
tra il banjo e il pianoforte a coda non più grande di un piatto
ha ringraziato e dato amore alla scossa Christchurch, la voce
forte quanto il suo violino. In mille abbiamo respirato aria di tarda estate
dalla montagna che condividiamo. A Titahi Bay mi sono immaginata
il mio trisnonno, la barba come la neve di Taranaki.
Christine e io ci siamo fatte scivolare il fango d’estuario tra le dita, abbiamo
tirato alghe viola e verde-limetta, odorose di mare, nel luccichio,
macchine che passavano sulla sabbia dura e accostavano per un pic-nic.
Tra le nostre dita il cielo blu e Central Park in fioritura precoce.
Hinemoana Baker is a New Zealand poet, musician and playwright. Her writing has featured in anthologies and literary journals, and her first collection of poetry, mātuhi | needle, was published in 2004.
On her website (http://www.hinemoana.co.nz/) she greets us with a mihi, a traditional Māori introduction of oneself, where one stands, and one’s place in the community and the world.
he mihi
Tēnei au e mihi atu nei, tēnā koutou katoa ngā kaitautoko kua tau mai nei ki tēnei whārangi, me kii, ki tēnei kāinga ipurangi.
He uri ahau nō Ngāi Tahu ki te moutere ātaahua rā, ki Te Wai Pounamu. Nō Ngāti Raukawa hoki, nō Ngāti Toa Rangatira, Te Āti Awa i te taha o taku pāpā. He Pākehā hoki ōku mātua – nō Ingarangi ērā tūpuna ā, i tētahi taha o te whānau o taku whāea, nō Tiamani (Oberammergau, Bavaria). I whakatipu ahau i Whakatane me Whakatū, ā, kua noho mo te wā roa ki Te Whanga-nui-a-Tara me Kāpiti.
Nō reira tēnā koutou, tēna koutou, tēna tātou katoa.
(Greetings! I descend from the Ngāi Tahu tribe in the beautiful South Island, and from Ngāti Raukawa, Ngāti Toa and Te Āti Awa in the North Island. My Māori heritage is from my father’s side. Both of my parents also have non-Māori heritage, from England and in the case of my mother’s family, Bavaria (a little place called Oberammergau).
I was raised in Whakatane and Nelson, and have lived for over 20 years in Wellington and Kāpiti. Thanks for stopping by.)
Hinemoana Baker was born in Christchurch and grew up in Whakatane and Nelson. She has tribal connections ranging from Ōtākou Peninsula to the Horowhenua and Maunga Taranaki. Many cultures converge and challenge each other in her poetry – most obviously, her parents’ Māori and Pākehā (term used to address New Zealanders of European descent, especially British) ancestries. The need to belong – to the extended and nuclear family – is at odds with the equally pressing need to be an individual in the world.
Baker studied Māori as an adult and her love for Te Reo comes through in her poetry. The poems unite observations and experiences of childhood, family, emerging sexuality, politics and culture.
Identity is, as it often happens – especially in postcolonial literature – one of the recurring themes of Baker’s work, in all her artistic fields and both in her private and public life. The right to be exactly who you are, be it bisexual, annoying, tall or a fair skinned, green eyed Māori.
Baker has done a number of different jobs during her life: she has worked as a Māori language and ESOL educator, a sales representative, a radio journalist and producer, and has toured extensively through New Zealand as a musician/performer.
Baker was Arts Queensland Poet in Residence in 2009 and writer in residence with the International Writing Programme at the University of Iowa in 2010. She has appeared at festivals and events in New Zealand and in Australia, Indonesia and the US. Baker was the Victoria University of Wellington/Creative New Zealand Writer in Residence for 2014, at the International Institute of Modern Letters. She recently added “celebrant” to her numerous fields of expertise.
Her latest project, still ongoing, is provisionally titled Dear Mother Basillise and consists of the narration of twin stories in epistolary form: her father’s traumatic experience growing up at Sunnybank, a catholic orphanage directed by the Sisters of the Mission and by the above-mentioned Mother Basillise, intertwines with the chronicle of Baker’s failed attempts at becoming a mother and of her personal struggle with infertility. Here is a video in which Baker talks about her project: https://www.youtube.com/watch?v=gQXwCXpEGZs.
She currently lives in Wellington where she works as freelance writer, musician, producer and creative writing teacher.
WORK
Hinemoana Baker’s writing has been published in many New Zealand and international anthologies, including the respected literary journals ‘SPORT’, ‘Turbine’, ‘Best New Zealand Poems’ and ‘Best of the Best New Zealand Poems’.
mātuhi | needle (2004)
Baker’s first book of poetry was published in Aotearoa/New Zealand by Victoria University Press, and in the US by Lord of the Rings star Viggo Mortensen’s publishing house, Perceval Press. The book features the paintings of Ngāi Tahu artist Jenny Rendall.
The poem A Walk with Your Father is included in this collection.
kōiwi kōiwi | bone bone (2010)
Baker’s second book (published by Victoria University Press) was launched in 2010. The cover features artwork by Ngā Puhi/Te Mahurehure artist and jeweller Arana Horncy.
The poems Last Born and Hinemoana belong to this collection.
waha | mouth (2014)
To this collection (also published by Victoria University Press) belong the poems Rope, Candle and Point the Canoe. The cover image is Cave 4, by Sian Torrington.
I’d like to think that opening this book to read is like standing at the mouth of a cave, or a river, or a grave, with a candle in your hand. – Hinemoana Baker
[1] Muka: è una fibra ricavata dalle foglie della pianta del lino.
[2] Mihi: in lingua māori è un augurio, un tributo.
[3] Marae: è lo spazio antistante la wharenui (l’edificio delle riunioni e delle cerimonie māori), ma spesso il termine identifica l’intero complesso intorno ad esso. In questo caso si tratta del marae Kohupatiki, nella cittadina di Hastings.
[4] Whenu: filo, fibra naturale.
[5] Pātiki: un tipo di pesce piatto, della famiglia dei pleuronettiformi. Platessa o rombo.
[6] Pōtiki: in lingua māori significa “il figlio minore”.
[7] Teina: in lingua māori significa “il fratello minore di un maschio” o “la sorella minore di una femmina”.
[8] Kuukua Dzigbordi Yomekpe è un’artista africana, al momento residente negli Stati Uniti, che ha partecipato ad uno scambio di poesie con Hinemoana Baker. La risposta alla presente costituisce la parte mancante del “duetto”.
[9] Epeli Hau’ofa è stato uno studioso di cultura del Pacifico, un mentore, un filosofo e uno scrittore. Sosteneva che tutti gli isolani del pacifico “fossero collegati dal mare, piuttosto che separati da esso”.
[10] Mau Piailug era un navigatore esperto di Satawal (Isole Caroline), capace di orientarsi con il solo aiuto di mare e stelle. Ha manovrato Hōkūle’a (un esemplare di canoa a doppio scafo tipica della tradizione nautica polinesiana) nel suo viaggio inaugurale dalle Hawaii a Tahiti nel 1976. È stato una figura fondamentale nel ricongiungimento degli abitanti delle isole del Pacifico con la loro cultura e le storie relative alle loro migrazioni, mettendo a tacere quelle teorie che ritenevano che i navigatori polinesiani fossero arrivati ad Aotearoa (Nuova Zelanda) per puro caso.
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Francesca Benocci è una studentessa di dottorato in Translation Studies alla Victoria University of Wellington. Il suo progetto di tesi consiste nella compilazione di un’antologia di poetesse neozelandesi contemporanee da lei tradotte in italiano, accompagnata da cenni sul contesto letterario e sulla traduzione di poesia e un’analisi delle traduzioni. Oltre alla traduzione e all’editing, tiene un blog e scrive poesie e racconti brevi sia in italiano che in inglese. Ha un master in Traduzione Letterararia ed Editing dei Testi e una laurea in Lingue, Letterature e Culture Straniere, entrambi conseguiti all’Università degli Studi di Siena.
(photo by Luca Bettarini)
Francesca Benocci is a PhD candidate in Literary Translation Studies at Victoria University of Wellington. Her project consists of the compilation of an anthology of contemporary Aotearoa/New Zealand women poets in her Italian translation, along with the related theorethical background on literature, and poetry translation. Other than translating and editing, she writes a blog, poetry, and short stories both in English and Italian. She holds an MA in Literary Translation and Text Editing, and a BA in Languages, Literature and Cultures both from the University of Siena.
Molto interessante, complimenti. Magari un piccolo appunto: Hinemoana Baker non è neozelandese, ma maori, come lei stessa sottolinea sul proprio sito. In termini burocratici-amministrativi è certamente neozelandese, ma se parliamo di cultura mi sembra necessario sottolineare la sua specificità.
Cordialmente
Alessandro Michelucci
direttore della rivista “La causa dei popoli”