Giacomo Vit, “Trin freit”

vit (1)Nota di Alessandro Canzian

La silloge ha come spunto la famosa gelata del 1929 che non colpì solo l’Italia settentrionale, ma gran parte dell’Europa. È abbastanza intuibile, però, che il dato storico è solo il punto di partenza per un discorso che va oltre il fatto contingente”. Con queste parole Giacomo Vit ci introduce al suo ultimo edito, un bellissimo libriccino (a dire il vero molto esile, e forse per questo ancor più prezioso) dal titolo “Trin freit – Spavento freddo” (Barca di babele 2015).

Giacomo è un poeta già noto nel nord est italiano ma non solo per la sua attività che lo vede inserito, assieme a Pierluigi Cappello, Fabio Franzin, Ida Vallerugo e diversi altri, tra i maggiori poeti dialettali contemporanei. Oltre Federico Tavan con la sua poesia istintiva, oltre quel grandissimo incipit dialettale che è stato Gianmario Villalta, Giacomo Vit rappresenta la volontà di continuare un discorso dialettale che ha un significato crescente, maturando, che crea una sua letteratura specifica che non abbandona il percorso (come invece altri) e anzi lo traccia con solchi sempre più definiti contribuendo a costruire una lingua che ancor oggi (si vedano le discussioni sull’insegnamento del dialetto nelle scuole) ha necessità e diritto di essere creata non solo attraverso la lingua in sé ma anche per mezzo dell’uso che di essa se ne fa in letteratura.

Ma in fondo il friulano, come lingua letteraria, è assai giovane e soffre in qualche modo del suo stato neonatale. È nato ieri, forse ieri l’altro, quando un certo Pasolini si è accorto che non il cielo ma la terra aveva una fessura dalla quale traspariva la luce di un infinito d’espressioni. E bisogna altresì riconoscere che il friulano come lingua in effetti non esiste, come lingua letteraria intendo, perchè i letterati, i poeti, gli scrittori che forse sono i soli ad avere il diritto di dire come una lingua può e deve funzionare, creano le loro opere in diversi idiomi. Il friulano è un po’ come una Bibbia apocrifa che ha dentro tante lingue e parlate tutte accomunate da un minimo comun denominatore, l’identità. Certo questo termine, “identità”, non a tutti piace, ma rappresenta in qualche modo una realtà, non certo una verità, ma un dato di fatto incontrovertibile. Esiste una lingua costituita da tantissime varianti. Esiste una letteratura che amalgama differenze e percorsi che comunque si ritrovano in un unico aspetto: il provenire da un particolarissimo territorio quale è il Friuli (ne avevo già ampiamente parlato qui: https://alessandrocanzian.wordpress.com/2014/05/25/la-poesia-dialettale-friulana-dopo-pasolini/).

 

Tempo fa ero a Milano con Roberto Cescon per un evento alla Casa della Poesia presso la Palazzina Liberty e, discutendo per strada sulla lingua italiana, ricordo era emersa questa frase: “la lingua in fondo nasce da una guerra, la lingua è strumento di guerra”. Questo oggi, ragionando sul dialetto friulano, appare particolarmente emblematico e sintomatico di un aspetto mancante nel friulano: la guerra. Il friulano è una lingua che non combatte alcuna guerra perchè ha deciso di perderla a priori, non di arrendersi ma di restare, non di resistere ma di continuare a esistere nonostante gli attacchi, le crisi, gli “spaventi” e i “grandi freddi”. Infatti tocca le sue punte letterarie più alte sempre in conseguenza di una crisi, sia essa la tragedia del terremoto del ’76 o l’industrializzazione feroce con la trasformazione dei paesaggi da natura a fabbrica. In questo contesto quindi si inscrivono tutti quegli autori che prima non ho citato come ad esempio Amedeo Giacomini,  Elio Bartolini, Novella Cantarutti, fino agli ultimissimi che si possono trovare ben raccolti in “L’Italia a pezzi. Antologia dei poeti in dialetto e in altre lingue minoritarie (1950-2013)”, per la curatela di Giuseppe Nava, Rossella Renzi, Manuel Cohen, Valerio Cuccaroni, Christianm Sinicco (Gwynplaine Edizioni 2014).

 

In questo percorso molteplice e poliedrico Giacomo Vit si inserisce con una peculiarità che trovo affascinante: la capacità di trasformare la lingua in un’enorme metafora che connette il micro cosmo della lingua usata con l’universalizzazione alla quale per concetto tende la parola poetica. Già nel precedente edito (”Zyclon B”, Cfr Edizioni 2012, qui una bella recensione: http://franzkafkaitalia.it/wp-content/uploads/2012/12/Vit-Zyklon-B-I-vui-da-li%E2%80%99-robis.pdf) Giacomo aveva dimostrato magistralmente tale capacità che è di fatto la cifra della sua poetica. In “Zyclon B” il tema dominante erano le persone, le cose delle persone morte nei campi di concentramento nazisti, e i bambini tanto cari al poeta (è un’insegnante). Come in “Trin freit” però la componente storica si palesava immediatamente come un semplice punto di partenza metaforico, quasi un pretesto, per poter parlare di temi ben più ampi e universali mai allontanandosi però dal fatto contingente che è la concretezza non solo della poesia ma della parola stessa. Del dialetto, che per sua natura necessità di realtà, di terra, di fatti. In questo caso di Storia. Fotografando il poeta come “colui che guarda all’intero mondo e all’intera storia ma sapendo dove si trovano i suoi piedi” (“Montagna di ciaviei, in duà / a sonu i tos? Chei che to mari / a ti caressava prin che cualchidun / al rabaltàs ingiostri tal mond? / In duà ch’a duàrmin, sporcs, / intorgolàs, distacàs dal to / ciavùt di pipina inciocada / tai binaris dal gas? – Montagna di capelli, dove / sono i tuoi? Quelli che tua madre / ti accarezzava prima che qualcuno / rovesciasse inchiostro sul mondo? / Dove dormono, sporchi, / aggrovigliati, strappati dal tuo / capino di bambola ubriacata / nei binari del gas?”).

 

“Trin freit” si immerge ed emerge da un fatto storico (la gelata del ’29) che assume la storia fino ai giorni nostri come ad esempio nelle parole di “Toni, il magu” (Toni, il mago), il protagonista della seconda parte della raccolta. La grandezza di questa figura apparentemente divinatoria non è però il suo essere “mago” perchè di fatto non lo è, non ha capacità chiaroveggenti ma è colui che “scatarra”, che ha “le mani annerite dalla nicotina”, che “tossisce”. Toni il mago è colui che “estrae le carte” come se fosse al bar, in una taverna. E soprattutto (e questa io reputo sia la sua grandezza) non si rivolge a un “tu” per svelargli il passato nell’atto del cartomante ma si rivolge a un “noi” che restituisce il contesto comunitario del bar, della taverna, della casa. Toni il mago ha la sua grandezza nell’essere un uomo qualunque che prevede come andrà il raccolto, che ha vissuto una vita di terra e che con la sua esperienza dice cosa succederà. Fino ai tempi nostri. Toni il mago è il vecchio che prevede il futuro solo sulla base della vita che ha imparato, della sua saggezza popolare (alla fine l’unica possibile), ciò che nel nostro caso è già successo. Una sezione che più prosastica della prima (la quale ha titolo “Cu la medola zuda in slanìs – Col midollo sbriciolato”) restituisce una gravità e una significanza di molto maggiore perchè racconta una storia che già sapevamo ma della quale non abbiamo voluto prendere coscienza. Quasi una polemica, quella di Giacomo, non del poeta contro gli uomini ma degli uomini di un piccolo paese contro gli uomini che hanno voluto “fare il mondo”.

 

Dicevo una sezione grave, più prosastica forse anche perchè più disincantata, in qualche modo scarnificata, priva di futuro (“Nol è nuia chistu freit, ‘n’altra / GLASSADA a rivarà… No bastaràn / stùis, lencs, bòris… – Non è niente questo freddo, un altro / GELO giungerà… Non basteranno / stufe, legna, braci…”), della prima che in qualche modo mantiene una sua “possibilità”, fosse anche solo quella di chiedere aiuto (“Oh, vòus tant serciada, / da li’ tos mans sbrissada, / dami ‘na man in ‘sta tiara / ades ch’a è scuasi sera! – Oh voce tanto cercata, / dalle tue mani scivolata, / aiutami in questa terra / adesso che è quasi sera!”). Una sezione la prima di altissima lirica che si è meritata il terzo premio al Concorso Gozzano 2014, e che regala al lettore perle quali “Domandis di ‘na fantata imbramida – Domande di una ragazza intirizzita” dove il linguaggio poetico interseca domande esistenziali con una più intima voce personale, un “io” mai svelato ma sempre presente come protagonista sentimentale, come compagno di viaggio attraverso questo grande freddo, questo grande spavento. Rafforzando l’idea comunitaria che emerge non solo dal verso ma, come ho già precedentemente detto, dal dialetto stesso e dalle sue caratteristiche costituenti. E che bene sottolinea Giuseppe Zoppelli in prefazione in qualche modo suggerendo il “noi” come una chiave di lettura privilegiata: “Forse quelle ombre siamo noi che pericolosamente giochiamo a distruggere il pianeta, e che ci aggrappiamo – in cerca di salvezza – a degli appigli ormai marci e non più in grado di sostenerci: la strada che l’umanità ha imboccato non prevede – in fondo ad essa – alcuna luce di salvezza”.

 

Zoppelli inoltre parla (e giustamente) di “alcuna luce di salvezza”, eppure in questa prima parte un anelito pare sopravvivere seppure legato al paesaggio e meno alla storia. Più agli uomini e meno alle loro azioni. “Chi ch’al / varà il coragiu di balà tal / curtil platàt dal blanc, / par pòura di ‘no sporciàlu / cu ‘na bestema, o cu la vuoia / di ‘na schena di fèmina? – Chi mai / avrà il coraggio di ballare nel / cortile nascosto dal bianco, / per timore di sporcarlo / con una bestemmia, o col desiderio / di una schiena di donna?”. La presenza umana, il paesaggio inevitabilmente e necessariamente legato ad essa (“I morars, cu la medola zuda / in slanìs, cuma se ‘na man / granda a ghi ves s’ciafoiàt / il còur, a spalànchin il vuli / ciump par vuardà se di / lontan al vegnerà un on – I gelsi, con il midollo / sbriciolato, come se una mano / gigantesca gli avesse soffocato / il cuore, spalancano l’occhio / guercio per osservare se / da lontano giungerà un uomo”) ha un suo calore archetipo che tutto si oppone all’oscurità di un destino (non nel senso di storia prescritta ma di storia prevedibile) che divide se stesso in due direzioni parallele ma non complementari. L’una, quella popolare, cantata liricamente col dialetto della terra, della taverna, della casa. L’altra (“e tantis, tantis / ombrenis cròtis ch’a si / ingrampin a braghis / fràidis… – e tante, tante / ombre spoglie che si / aggrappano a rami / marci…”), quella degli uomini che sono solo ombre perchè “non più uomini” ma azioni dissennate, politiche, economie. In questo Giacomo Vit procede con un ulteriore passo nell’approfondimento della lingua trasformandola da metafora a ricordo. Ricordo dell’esperienza umana che appartiene a quanti oggi parlano e scrivono in dialetto. A quanti hanno mantenuto le loro radici, le loro case. Ponendo (come ho già detto) sottilmente a confronto la saggezza popolare e la saggezza politica, economica, di chi ha portato avanti questo mondo. Così come lo vediamo, così come lo aveva visto “Toni il magu”.

 

*

 

Da Cu la medola zuda in slanìs

Da Col midollo sbriciolato

 

 

Sito

 

 

Cuant sito. Al

dislaga il non da li’

ròbis.

E che freit, un

freit cussì a nol à

mai durmìt ta li’ sfèsis

dai nustris recuars, o

di chei dai nustris

vons. E vuardassi lis

mans, adès ch’a àn

il colòur blanc

di cualchiciussa

ch’a manca.

 

*

 

Silenzio

 

 

Quanto silenzio.

Scioglie il nome delle

cose.

E che freddo, un

tale freddo non ha

mai dormito nelle fessure

dei nostri ricordi, o

di quelli dei nostri

avi. E osservarsi le

mani, ora che hanno

il colore bianco

di qualcosa

che manca.

 

 

Di not

 

 

‘Na pursission di sonàmbui

a passa pa la strada sblanciada

da la bava da la luna, ogniun

cul so sest di contadin o di

muradòur, ogniun cu ‘na

pala, un seli, ‘na ciassola

par disfidà i murs

dal freit, ch’a àn siaràt

il paeis e platàt la claf,

e podèi fa vignì drenti

i sclapìs dal cialt.

 

*

 

Notturno

 

Una processione di sonnambuli

transita lungo la strada sbiancata

dalla bava della luna, ognuno

con il suo gesto di contadino o

di muratore, ognuno con un

badile, un secchio, una cazzuola

per disfare i muri

del freddo, che hanno imprigionato

il paese e nascosta la chiave,

e poter far entrare

gli schizzi del caldo.

 

*

 

Domandis di’ na fantata imbramida

 

Chi ch’al poiarà

par prin il piè ta la glas?

E s’a si spaca, se ch’al

ciatarà ulà sot? Il grant

trin?

E se a no si spaca,

e a scarabicea doma

sens e disens?

A vòlia disi ch’i no ti pèsis

propitu nuia?

 

*

Domande di una ragazzina intirizzita

 

Chi poserà

per primo il piede sul ghiaccio?

E se si rompe, cosa

troverà là sotto? Il grande

spavento?

E se non cede,

e scarabocchia solo

segni e disegni?

Significa che non pesi

proprio nulla?

 

 

 

 

Secont paisagiu

 

Liniis drètis: sparìdis

li’ vuardàdis stuàrtis, i pinsèirs

a rampìn. Dapartùt il blanc

dret e net.

Il vint ch’al fa sintì sotvòus

la so armonica. Chi ch’al

varà il coragiu di balà tal

curtil platàt dal blanc,

par pòura di ‘no sporciàlu

cu ‘na bestema, ocu la vuoia

di ‘na schena di fèmina?

 
*

 

Secondo paesaggio

 

Linee dritte: scomparsi

gli sguardi storti, i pensieri

uncinati. Ovunque il bianco

dritto e pulito.

Il vento che fa sentir sottovoce

la sua armonica. Chi mai

avrà il coraggio di ballare nel

cortile nascosto dal bianco,

per timore di sporcarlo

con una bestemmia, o col desiderio

di una schiena di donna?

 

 

Da Toni il Magu

 

 

Da Toni il Mago

 

 

… al tira fòur li’ ciartis Toni,

al poia plan planc a ta la taula

da la tavaia selestina, maciada

inciamò da la marinda, cui so’

deis nèris di nicotina, e un sbolsà

di peraulis di fun, a li ribalta

sot la lampadina di lus flapa,

e cun vui scundùs da li’ grispis

al vuarda il nustri vuardà, il nustri

nissulàssi tal fil dai so’ làvris…

“Nol è nuia chistu freit, ‘n’altra

GLASSADA a rivarà… No bastaràn

stùis, lencs, bòris…”

 

 

… estrae le carte Toni,

le posa lentamente sulla tavola

dalla tovaglia celestina, macchiata

ancora della colazione, con le sue

dita annerite dalla nicotina, e un tossire

di parole affumicate, le rovescia

sotto la lampadina di luce debole,

e con gli occhi celati dalle rughe

osserva il nostro sguardo, il nostro

dondolarci sul filo delle sue labbra…

“Non è niente questo freddo, un altro

GELO giungerà… Non basteranno

stufe, legna, braci…”

 

 *

 

“Pi freit di cussì no si pol! Al fa Bepi,

lui ch’al non zarà in vuera in Russia.

E il magu, cun flàt di vin zùt

di mal: “A sarà un glas ch’a

ciaminarà drenti di ogniun… no

ti varàs nissun sclop par sbaràghi

la strada al esercit dal destìn…”

E dopu, i vui dal magu a doventin

scurs cuma barcons siaràs, e par

sora da li’ sos palpieris a si viòdin

trenòs sbudelàs, stassions

in fòuc, banchis sparnissàdis

di cuarps, libertàs scancelàdis…

 

 

“Più freddo di così è impossibile!” fa Bepi,

lui che non andrà in guerra in Russia.

E il mago, con un alito di vino

inacidito: “Sarà un ghiaccio che

camminerà dentro di ognuno… non

avrai alcuno schioppo per sbarrare

la strada all’esercito del destino…”

E poi, gli occhi del mago si fanno

scuri come finestre chiuse, e sopra

le sue palpebre si vedono

treni sbudellati, stazioni

incendiate, banche con sparpagliati

corpi, libertà cancellate…

 

 *

 

“No ài nuia di

domandàti”, al fa un

cui vui fons cuma tais

di curtìs, “soi fuart

jp, e la me piel a è

coràn: dut chistu frèit

al mi sbrissarà via cuma

un madràs spagutìt…”

 

Il magu al strens a fuart ‘na

ciarta, scuasi al volarès platala

tal muciu, al vuarda fis

i biei dinc’ dal zòvin,

e zà a iù viot colà, un par un,

cuant ch’al zarà a torzeòn

ta un ciamp plen si spincs,e

un soldat a ghi pacarà

la piel di coràn cul mani

dal sclop, e lu pocarà

a doventà siniza…

 

 

“Non ho nulla da

chiederti”, fa uno

con gli occhi fondi come ferite

di coltello, “sono forte

io, e la mia pelle è

cuoio: tutto questo freddo

mi scivolerà di dosso come

un serpente spaventato…”

Il mago stringe forte una

carta, quasi vorrebbe nasconderla

nel mazzo, e fissa

i bei denti del giovane,

e già li vede cadere a uno a uno

quando vagherà

in un campo recintato e

un soldato gli percuoterà

la pelle di cuoio col calcio

del fucile, e lo spingerà

a diventare cenere…

 

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