, 2013
Non ho alcun strumento per poter classificare la poesia di Blanca Varela; non ho la cultura per inserirla in questa generazione o in quell’altra, in questa corrente letteraria o in un’altra. Non sono un ispanista, conosco appena qualche parola di quell’idioma così attraente e così prossimo al nostro da sembrarne il gemello più dolce e sfigurato; non conosco se non per pochissime, magre e folgoranti letture, il panorama vasto e frastagliato della poesia sudamericana. Per tutte queste mancanze vorrei chiedere preventivamente perdono al lettore e anzi soccorso; mi appello allo studioso più armato, più scaltro di me: che mi perdoni l’ingenuità. Eppure, non appena sono capitato con gli occhi e con la mente sulle pagine di questa poetessa, tradotta in italiano e pubblicata a cura di Stefano Bernardinelli per l’edizioni Nottetempo nel 2013, non ho saputo trattenermi: ho cercato subito di far conoscere, dapprima agli amici più prossimi ed ora ai lettori di Poesia, la voce di questa scrittrice peruviana, morta nel 2009, non ancora conosciuta come merita dal pubblico italiano. La poesia può essere molte cose; ma uno dei suoi più preziosi regali credo sia questo che ho ricevuto e che spero anche voi riceviate: la meraviglia incomparabile di ascoltare una voce straniera che chiama, dall’abisso più scuro di ogni conoscenza, di ogni geografia o storia, di ogni confine biografico e contestuale, una voce – dico – che chiama te, proprio ognuno di noi a confrontarsi col nocciolo più vero, più taciuto e arcano di noi stessi. Emily Dickinson la chiamava «polar privacy» quella solitudine lunare in cui «a soul is admitted to itself»; quella solitudine che la poesie richiede e pratica, mostra e continuamente trasfigura come se fosse un esercizio senza fine, in cui ogni poeta, come disse Baudelaire, è faro all’altro.
La scrittura di Varela è attorniata da questo silenzio, contornata dal bestiale respiro di un silenzio senza tregua, un respiro di cui si percepisce lo spessore, la gravità, il tanfo animale. In questo silenzio i suoi versi si muovono semplici e soli, come deposti sulla pagina, ognuno spaesato dall’essere lì; s’aggrappano uno all’altro in preda ad un terrore che è almeno pari al desiderio che hanno di rimanere in piedi: «Bisogna saper perdere con ordine», dice Varela e aggiunge che se vi è un premio in questa giostra, quello è «un’altra corsa» nell’ombra di se stessi. Per chi vuole chiamare «cielo il nulla» e sa bene che la migliore posizione per creare è «quella di un affogato mezzo sepolto nella sabbia», per chi ancora conosce la «detestabile perfezione/ dell’effimero» non c’è bisogno che la vita abbia un significato, abbia un contenuto: il vitello appena nato, tremante sulle ginocchia dinoccolate e ancora umide non chiede nulla, non sa nulla; basta che sia la vita stessa a muoversi, a descrivere un orizzonte, precario, tumefatto, sensuale, per poter andare avanti un attimo di più: «Puoi raccontarmi qualsiasi cosa/ credere non è importante/ ciò che importa è che l’aria muova le tue/ labbra». Non appena la vita si fa coscienza, Varela subito ne snuda la colpa e si traveste come un Dio «dai capelli tristi che si toglie il male a manciate e si lava mille volte» per scoprire soltanto che è «lei stessa la macchia indelebile sulla lama del coltello». «Poesia. Orina. Sangue.» La poesia di Varela rientra nel circuito dei fluidi organici e come essi scorre al battito, aderisce ai tessuti e sta esattamente dove il tessuto splende e palpita di un «balbettìo celeste», così come nel punto in cui si dimostra «più antica e oscura della morte», in un «mezzogiorno intollerabile», nella figura di una vitella «coronata di mosche».
Ma Blanca Varela è una poetessa che non rifiuta il pensiero; semmai lo trafigge (Crocifinzioni è il titolo della raccolta antologica e di una sua poesia) nella carne e lo snuda come malformazione, arto fantasma apposto alla vita che chiamiamo umana soltanto perché possa dire: «Ho lasciato la porta mezza aperta/ sono un animale che non si rassegna a morire». Benvenuta Varela, benvenuta nella nostra lingua: spero che altri, da te, traggano forza.
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BLANCA VARELA
Persona
l’amato animale
le cui ossa sono un ricordo
un segnale nell’aria
non ebbe mai ombra né luogo
dalla capocchia di uno spillo
pensavo
lui era il brillìo infimo
il granello di terra sul granello
di terra
l’autoeclisse
l’amato animale
non smette mai di passare
mi gira intorno
*
Vitella oppressa dai tafani
potrei descriverla
aveva naso occhi bocca orecchie?
aveva piedi testa?
aveva gli arti?
ricordo solo l’animale più dolce
che si portava addosso
come un’altra pelle
quell’alone di luce sporca
voraci alate
assetate bestiole
ingiuriosi angeli ronzanti
la tormentavano
era la terra altrui e la carne di nessuno
dalle sue palpebre cispose
mi abbagliò il miracolo languente
la vigilia l’istinto lo sguardo
il sole non nato
era una bimba un animale un’idea?
ah signore
che orribile dolore agli occhi
che acqua amara alla bocca
di quel mezzogiorno intollerabile
quando più rapida più lenta
più antica e oscura della morte
accanto a me
coronata di mosche
passò la vita
*
l’animale che si rotola nel fango…
l’animale che si rotola nel fango
sta cantando
amore grugnisce nel suo petto
e avvolto in luce sporca
se ne va in festa
ne segue che il macello
sia l’arco trionfale
di questa avventura
e sotto miserabili apparenze
si occultino salute ed armonia
e la nera nocciola
sepolta nel gozzo
lanci raggi azzurrini ai quattro venti
incastonato nel sudiciume
diamante singolare astro in penombra
incontra e perde dio
nel suo pelame
connubio di strozzata melodia
e agonia gioiosa
c’è bisogno del dono
per entrare nella pozza
Strip tease
togliti il cappello
se ce l’hai
togli i capelli
che ti abbandonano
togliti la pelle
le viscere gli occhi
e metti un’anima
se la trovi
(Traduzione di Stefano Bernardinelli)
BLANCA VARELA
Persona
el querido animal
cuyos huesos son un recuerdo
una señal en el aire
jamás tuvo sombra ni lugar
desde la cabeza de un alfiler
pensaba
él era el brillo ínfimo
el grano de tierra sobre el grano
de tierra
el autoeclipse
el querido animal
jamás cesa de pasar
me da la vuelta
*
Ternera acosada por tábanos
podría describirla
¿tenía nariz ojos boca oídos?
¿tenía pies cabeza?
¿tenía extremidades?
sólo recuerdo al animal más tierno
llevando a cuestas
como otra piel
aquel halo de sucia luz
voraces aladas
sedientas bestezuelas
infamantes ángeles zumbadores
la perseguían
era la tierra ajena y la carne de nadie
tras la legaña
me deslumbró el milagro mortecino
la víspera el instinto la mirada
el sol nonato
¿era una niña un animal una idea?
ah señor
qué horrible dolor en los ojos
qué agua amarga en la boca
de aquel intolerable mediodía
en que más rápida más lenta
más antigua y oscura que la muerte
a mi lado
coronada de moscas
pasó la vida
*
el animal que se revuelca en barro…
el animal que se revuelca en barro
está cantando
amor gruñe en su pecho
y en sucia luz envuelto
se va de fiesta
de allí que el matadero
sea el arco triunfal
de esta aventura
y en astrosa apariencia
se oculten la salud y la armonía
y la negra avellana
sepulta en el gargüero
lance rayos azules a los vientos
engastado en la mugre
diamante singular astro en penumbra
encuentra y pierde a dios
en su pelambre
connubio de atragantada melodía
y agonía gozosa
se necesita el don
para entrar en la charca
*
Strip tease
quítate el sombrero
si lo tienes
quítate el pelo
que te abandona
quítate la piel
las tripas los ojos
y ponte un alma
si la encuentras
Dall’introduzione di Stefano Bernardinelli
You Can Leave Your Hat On: così cantava Joe Cocker, interpretando un successo di Randy Newman, nella colonna sonora di uno dei più famosi spogliarelli cinematografici. Puoi tenerti il cappello. Blanca Varela non ci lascia questa possibilità. In Strip tease invita se stessa e i lettori a togliersi il cappello, a togliersi i capelli, la pelle, le viscere, gli occhi – occorre denudarsi, levarsi di dosso ogni orpello, ogni artificio, ma senza alcuna certezza di trovare un’anima, di poter raggiungere quel “luogo del canto” dal quale la poesia sgorgherebbe pura, autentica. È una sfida terribile, una scomessa che non si può vincere. Blanca sembra riconoscere fin dai titoli dei suoi libri il proprio fallimento, la falsità delle sue confessioni e del suo canto […]. Da qui la scelta di una parola poetica che dica il meno possibile, che si apparenti quanto più strettamente al silenzio. Da qui nascono poesie di un’intensità quasi insostenibile, come diceva Roberto Paoli, uno dei primi studiosi a riconoscerne la grandezza. […] La poesia di Blanca Varela è rimasta per lungo tempo patrimonio di pochi. Ma nel decennio che ne ha preceduto la scomparsa, avvenuta nel 2009, l’attenzione del mondo letterario di lingua spagnola è andata continuamente crescendo. Le sono stati assegnati i premi più prestigiosi, dal Premio Octavio Paz nel 2001, al Federico García Lorca-Ciudad de Granada nel 2006 al Reina Sofía nel 2007; diverse antologie sono uscite sia in Spagna che in America Latina; articoli e libri di critica hanno via via arricchito una bibliografia già cospicua. Un numero sempre maggiore di lettori e di giovani poeti si è così potuto avvicinare a un’autrice estremamente schiva, che ha sempre fuggito la popolarità, e a una scrittura poetica “contenuta, ritratta, racchiusa nel suo stesso segreto”, impossibile da comprendere senza considerare “la sua profonda relazione con il silenzio, con l’enorme peso che può arrivare ad avere il non detto” (Ana María Gazzolo).
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Blanca Varela, Crocifinzioni (traduzione e a cura di S. Bernardinelli), Nottetempo edizioni, 2013, è disponibile sia in ebook che in formato cartaceo sul sito dell’editore: www.edizioninottetempo.it