Una lettura di Ode al Monte Soratte di Claudio Damiani
di Chiara De Luca
Il nuovo libro di Claudio Damiani, Ode al Monte Soratte (fuorilinea, 2015), è suddiviso in tre capitoli, – Ode al Monte Soratte, Quadrara delle aquile, Caro libro di vetta – tre movimenti d’andamento distinto e tematica complementare, che costituiscono altrettante tappe di un viaggio di conoscenza di sé, alla ricerca di una identità con la natura e di una profonda comunione con tutti i suoi elementi. Questo monte, “basso e spelacchiato” che è al contempo “miniera di natura e storia” e “ponte tra culture antichissime”, con i suoi eremi e le sue chiese, che hanno rimpiazzato i templi pagani, diviene per Damiani la sede di un ovunque al di fuori dello spazio e del tempo, pura materia di poesia e simbolo stesso del viaggio della creazione, che presuppone la capacità di ascoltare il silenzio delle cose, per tradurre il mondo e tramutarlo in verso. I luoghi sono per Damiani come persone “con un loro carattere, un loro modo di pensare”; il monte stesso ha spalle, è circondato da colori come vestiti (p. 23). Di conseguenza, ogni elemento del mondo naturale e animale per il poeta ha voce, una sua voce peculiare, da trascrivere per celebrarlo, piuttosto che semplicemente nominarlo, per rivelarlo, piuttosto che semplicemente osservarlo con l’occhio distratto che posiamo quotidianamente sulle cose. Se le ascoltiamo fondo, infatti, sono le cose stesse a pronunciare il proprio vero nome, a raccontarci di sé e di noi, svelandoci i loro e i nostri segreti, tutto ciò che nei secoli hanno visto, o subito, o superato, ripercorrendo tutte le metamorfosi attraversate.
La natura diviene per Damiani rifugio che custodisce e allevia le cicatrici della storia e conferisce loro un senso, serbatoio di energia e movimento che dona respiro al verso: “e ascolto il loro silenzio, l’oscillare lieve delle foglie, / sento il silenzio del sentiero, della terra, / il muoversi impercettibile di ogni cosa, come un brulichio / o un ronzio che diventa sempre più forte, / come un mare, come una lava che bolle, / e io sono dentro questo cratere di fuoco / perfettamente calmo, come avessi una tuta / magica che mi protegge dal calore, / dal rumore assordante, eppure sento questo silenzio, / il muoversi impercettibile delle foglie, / lo scorrere del tempo come lo scorrere / d’un’acqua, d’un ruscello, d’una fonte / vicina e insieme lontana, che non sai dov’è (p . 17). La poesia di Damiani non ci restituisce suoni, rumori, bensì voci. Tutto infatti nella natura parla, sussurra, suggerisce, bisbiglia, trasformando in parola e attutendo nel silenzio anche i rumori provenienti da una civiltà che pare lontana anni luce. Quando il poeta è immerso nella natura, perfino il suono distante dell’autostrada della Valle del Tevere non è frastuono, quello del treno non è strepito né sferragliare di rotaie, ma voce; l’acqua non scroscia, bensì parla, le fronde non frusciano, bensì bisbigliano, scoppiettano come un fuoco, sfrigolano come una candela, oppure producono un rumore simile a quello della masticazione (p. 19); gli alberi sussurrano e parlottano (p. 50), oppure bisbigliano (p. 51), “come assiepati in uno tremolano a loro volta come candele” (p. 17), felici della propria contiguità, che è profonda vicinanza, della prossimità che diviene comunione e unione di forze contro gli elementi, facendo delle loro voci il canto atemporale di un bimbo. Le voci della natura, a differenza del nostro parlare, spesso assordante, a differenza del frastuono delle nostre città, non originano rumore, e neppure suono, e neppure parola, bensì ”compongono un silenzio” (p. 18), che separa il poeta dalle preoccupazioni d’ogni giorno, lo induce ad arrendersi all’ascolto, ad abbandonarsi alla quiete, conseguendo la medesima immobilità del paesaggio che lo circonda, dove tutto pare fermo e invece brulica di una lingua segreta, come il sangue che scorre silenzioso nelle vene, come il respiro che colma i polmoni d’aria fino a trasformare il poeta stesso in aria, dissolvendo ogni tensione, in un tutt’uno con il silenzio loquace della natura e con il suo quieto, invisibile moto. Tutto nella natura ha una ragione luminosa, che non chiede ragioni, tutto ha un senso e una direzione. Le formiche si muovono e lavorano operosamente, senza chiedersi il motivo per cui lo fanno e la direzione del proprio andare. Libere dalla preoccupazione per un futuro – cui però, istintivamente, si preparano – avanzano spinte da una accolta necessità, come il vento, che pur nella furia del suo movimento “bacia tutte le cose / e non dimentica niente” (p. 33), o come il cane, che pur forse chiedendosi perché il poeta si sia fermato, semplicemente gli si siede accanto, accogliendo il momento presente e adattandosi al tempo interrotto della sosta (p. 51).
L’uomo invece, tormentato dalla consapevolezza della morte, è costantemente riarso dall’urgenza di cercare un senso all’esistenza, un senso che però non potrà mai bastargli neppure quando dovesse percepirne un bagliore, che non dà mai pace al suo cuore e quiete alle sue membra, perché è consapevole del fatto che qualunque cosa sia in grado di conquistare è comunque destinata a finire: “E che avevo avuto poco / anche, ho pensato, dalla vita / o che avevo anche, forse, capito poco, / che avrei voluto capire di più / e essere più amato, essere più capito / io stesso, ma quello che avevo avuto / era quello che ero stato / e quello che ero stato / sarebbe finito, / E se anche avessi avuto / tutto quello che volevo / non mi sarebbe bastato” (p. 33).
Immerso nel paesaggio naturale, il poeta è pervaso dallo stesso tremore degli alberi, dallo stesso gaio fuoco di candele, vorrebbe mettere radici nel terreno, per impedirsi di muoversi, per lasciarsene nutrire. Solo allora subentra il rammarico della presa di coscienza di non poter davvero essere tutt’uno con l’attorno, di non poter accettare l’immobilità degli alberi come un dono, di essere condannato al moto, al bruciare lentamente senza tuttavia potersi impedire di pensare, senza potersi impedire di tremare di fronte all’inesauribile mistero della bellezza, così prossima, eppure sempre così lontana dalla nostra natura umana, così concreta, eppure così inafferrabile dai sensi che invece tutta vorrebbero abbracciarla, ma si riscoprono finiti, al cospetto della sua infinitezza: “Cos’è quest’immagine che mi fa tremare / di una bellezza che mi rende inquieto / giro inseguendola di notte nei vicoli / dando testate nelle saracinesche, / cos’è quell’immagine che mi divora / e mi fa cadere alla fine in terra sfinito, / quell’immagine che mi risucchia nel fuoco / che mi brucia fino a consumarmi?” (p. 19),
La bellezza è quella eterna della natura come la più bella delle opere d’arte, che pur mutando, evolvendosi, metamorfosandosi, resta sempre uguale a se stessa, intatta, al punto che possiamo immaginare che sia sempre esistita, pur indossando forme differenti, crescendo senza invecchiare, conoscendo senza abbruttirsi: “ma sei stato bello anche in altri momenti, / posso immaginare che sei stato bello sempre / anche se non ti ho visto / quand’eri lungo e non c’era ancora il Tevere / e quand’eri basso ancora, che la terra si alzava lentamente / e tu crescevi ogni giorno […]” (p. 15).
Ragionando nei termini dei brevissimi e rapidissimi anni che gli sono concessi, l’uomo è condannato alla saudade di qualcosa che non verrà mai, a una nostalgia di un futuro inconoscibile che non avrà il tempo di visitare. Il poeta vorrebbe rallentare il proprio movimento, come fa la natura, che ragiona in termini di secoli, e li contiene tutti in sé, come contiene ciò che sarà in futuro secoli (p 27): “Eppure mi vorrei sedere davanti al fuoco / mentre fuori piove e aspettare il tempo, / sentirlo sgranarsi nelle mie mani come un rosario, / vedere i suoi pezzetti piccoli come granelli di sabbia che si sfaldano, / sempre più piccoli, che cadono tra un dito e l’altro” (p. 19).
Man mano che si addentra nel cuore della natura e s’inoltra nel silenzio, il poeta inizia a sentirsene parte, a perdere la percezione del tempo umano, quello misurato e scandito, che tentiamo d’imprigionare in misure, e a esperire un tempo differente, privo di scansioni: “mi sembra di essere tra tanti amici, / condividiamo il tempo / in perfetta sintonia” (p. 24). Il monte stesso è un amico, un complice, un simile, non c’è più “invidia” per la sua immobilità e per il suo intatto invecchiare e diminuire, bensì condivisione e identificazione: “[…] Ti guardo dalla Quadrara delle Aquile, la tua cima a nord, / ogni giorno perdiamo qualcosa, tutti e due, / ma stiamo qui, non ci muoviamo, / tu ti distendi al sole, io sopra di te, / due oziosi difficili da scalzare” (p. 16). In questo abbandono alla piena comunanza con la natura, anche la vertigine non è più sensazione fagocitante che agisce dall’esterno trascinando il poeta in un gorgo inarrestabile, bensì movimento interiore, vorticante unisono, che non minaccia di rompere l’immobilità del corpo. Ora è come se lo sguardo del poeta ripercorresse a ritroso il tempo, per ridiventare aperto e bambino. E come un bambino il poeta si distende e guarda verso l’alto senza paura, per riconoscere i disegni e le forme delle foglie, partecipare al loro giocare e rincorrersi, a quella loro mobile quiete: “io stavo sdraiato e guardavo in alto / i rami svolgersi con infinite foglie / che producevano dei disegni geometrici / con le loro forme, disponendosi in cerchi / che si rincorrevano e si intersecavano / restando quiete nel silenzio del cielo, / o forse era un’aria particolare che quelle foglie producevano / che entrava nel mio corpo, mi nutriva e inebriava / come nettare e ambrosia e vorticavo anch’io” (p. 25).
“Tutte le cose tendono a librarsi. Ma noi ad aggravarle”, scrive Rainer Maria Rilke nel XIX dei Sonetti a Orfeo, “stendiamo su tutte il nostro peso, perché il peso ci esalta; // logoranti maestri siamo dunque alle cose, mentre loro godono eterna fanciullezza”. Il Monte, invece, non ha paura di perdere ogni giorno qualcosa, di essere consumato dall’aria e dall’acqua (p. 28), non teme il mutamento e perciò non invecchia col trascorrere del tempo, né vuole che qualcosa ne arresti gli effetti: “Di’ agli uomini, se puoi, di lasciarmi vivere in pace, / che l’aria mi accarezzi, che la pioggia mi bagni, / che le piante e gli animali vivano liberamente / e liberamente muoiano insieme alla mia pietra (p. 29). Appresa la lezione del Monte, il poeta può partecipare davvero della vita di cielo e monti e valli e boschi e aria, che si prendono per mano, “contenti di essere uniti” (p. 35), e diventa egli stesso parte del paesaggio, albero che accoglie l’aria e il sole, e ne avverte sulla propria corteccia ferita il calore: “Tu hai preso da loro / li hai studiati a lungo / fino a sentire anche tu l’aria / baciarti le guance / e il sole tiepido / scaldarti il tronco” (p. 36).
Nel secondo movimento del viaggio di questa raccolta, Quadrara delle aquile, va in scena un dialogo tra Franceso e Laura, tra la natura e la poesia. Qui Laura riesce a superare completamente la vertigine stendhaliana di fronte alla schiacciante potenza della bellezza e a conseguire la quiete perfetta nell’immobilità vitale del paesaggio, ad ascoltarne il silenzio senza che il rumore dei pensieri lo spezzi, e senza che la trascinante vertigine di fronte alla bellezza turbi l’immobile vorticare interiore: “Camminare in quel momento su quel sentiero era come essere sospesa nel vuoto, e non avere nessuna vertigine, era come stare ferma, perfettamente ferma, come non stiamo mai …” (p. 41), come lo sono, invece, le pietre. “Perché quell’uomo spiava la voce delle pietre?” si chiede Rainer Maria Rilke nel racconto L’uomo che spiava le pietre, compreso nella raccolta giovanile Le storie del Buon Dio, “ Ed ecco che le mani gli si destarono e iniziarono a scavare nella pietra come fosse stata una tomba dentro alla quale tremola una debole voce morente: “Michelangelo” gridò Dio in grande apprensione “chi c’è nella pietra?”. Michelangelo tese l’orecchio, le sue mani tremarono. Poi rispose con voce cupa: “Tu, mio Dio, chi altri? […] E giunse una voce: “Michelangelo, chi c’è in te?”. E l’uomo nella minuscola stanza posò la fronte pesante sulle mani e disse sommessamente: “Tu, mio Dio, chi altri?”. In questo modo Rilke racconta come Michelangelo sia entrato in contatto con l’anima delle pietre, ascoltando la loro voce segreta, riconoscendovi la voce dell’oltre, e sentendola riecheggiare dentro di sé e di come sia in tal modo riuscito a compiere il miracolo della Creazione, estraendo dalla materia le figure della Pietà, che, già vive e vitali, attendevano soltanto di venire alla luce. Il Dio di Rilke non è da intendersi nell’ottica della religione cattolica ortodossa, bensì nell’ottica rilkiana di un afflato vitale presente all’interno della materia all’apparenza inanimata, che spetta all’artista estrarre, istituendo una comunione tra la propria anima – a sua volta abitata dall’afflato divino della creazione – e l’anima delle cose, per dare corpo e vita all’opera d’arte, la cui forma è già presente nell’argilla primigenia dei materiali. Allo stesso modo, nella poesia di Damiani, la pietra rappresenta la materia originaria, della cui voce il poeta si pone in ascolto. La pietra contiene, in nuce, le poesie che stiamo leggendo, nate da quel silenzioso ascolto. Quelle di cui Damiani ci parla sono le pietre miliari del percorso di scoperta di sé che questo libro rappresenta. Già nella prima sezione, all’inizio del suo viaggio di scoperta, il poeta ne segue l’immobile movimento come una traccia, il salire e scendere lungo i fianchi del monte come un mobile sentiero: “e mi piace sedere sui tuoi sassi / e aspettare, senza pensieri. / Mi piace sentire i sentieri / che salgono da soli” (p. 21). Più volte, in questo viaggio, il poeta si siede su una pietra per poter aprire lo sguardo su ciò che lo circonda, più volte vi posa la guancia per ascoltarne la voce, o ne carezza la cima “come la testa d’un bimbo. (p. 23). Le pietre – con quel loro interno respiro che è afflato divino, con quella loro perfezione che riporta all’innocenza dell’infanzia – sono anche sostegno nel viaggio, diga che frena la caduta: “Stavo sdraiato con le gambe aperte sul duro della pietra, in pendenza per giunta, eppure mi sembrava di non avere peso” (42). Nel viaggio di Damiani alla scoperta del silenzio vertiginoso delle cose, le pietre gli fanno da cuscino, da puntello per poter guardare il cielo, come fanno i bambini, che dalle nuvole riescono a estrarre infinite forme e favole, così come le pietre sono in grado di preservarsi bambine e, pur essendo vicine alla polvere in cui tutto sfinisce, sono in grado di mantenersi intatte a dispetto del tempo che trascorre e degli agenti esterni che le minacciano: “il loro essere vicino alla polvere e al tempo stesso resistere, il loro essere bucherellate in infiniti modi, ma non aver ceduto, il loro essere pietre che hanno visto tante cose, e il loro essere sempre e rimanere bambine” (p. 56). L’immobilità delle pietre e l’energia del loro calore consentono al poeta di resistere alla vertigine che proviamo di fronte al sublime, di fronte all’immensità che ci schiaccia, mentre non può minacciare né intaccare l’immota solidità delle pietre, né arrestare la loro immobile discesa lungo il pendio del monte: “Io, con la testa appoggiata alla pietra, tenevo gli occhi senza guardare nel cielo. Sprofondavo come mi succede nell’immensità dello spazio, ma senza vertigini, o con molto poche. Meno di altre volte. Potevo fissare il cielo anche a lungo, anche se poi un po’ di paura mi veniva. Non mi sembrava di cadere, mi sembrava di stare sospeso” (p. 44). Il respiro piccolo, cullante, tranquillizzante delle pietre consente quindi al poeta di resistere alla vertigine indotta in lui dall’immenso respiro dell’universale: “Sentivo il suo respiro piccolo, lento. Tenevo una mano su di lui, e non sapevo staccarmene” (p. 53). Ascoltare il respiro della pietra è ritrovarsi cosa tra le cose, neutralizzando il rumore della civiltà sempre più distante, di quell’autostrada e di quel treno che avevamo incontrato tra le prime pagine e dell’aereo che compare poche pagine dopo, come un’invasione della quiete, “come l’aereo di carta che lancia il fanciullo e ti colpisce, non ti fa male. Ma ti disturba” (p. 45). Opponendo al poeta l’eloquente silenzio racchiuso nel loro nucleo, le pietre lo aiutano a riscoprire in sé il silenzio che è matrice d’ogni creazione, allontanandolo dal frastuono del quotidiano, dallo scorrere del traffico, dalla confusione che neutralizza il caos della creazione. “Volevo soltanto posare sulla pietra come una cosa e sentire il sole che mi baciava” (p. 42), scrive ancora Damiani, istituendo, nell’utilizzo del verbo “posare” un chiaro riferimento alla celebre poesia “Natale” di Ungaretti, dove il poeta chiede di essere lasciato “con le quattro / capriole / di fumo / del focolare”, come una / cosa / posata / in un / angolo / e dimenticata”, piuttosto che doversi “tuffare / in un / gomitolo / di strade”. Posare, non posarsi, che presuppone azione: esistere da sempre sulla pietra fino all’identità con lei, liberato dal moto, questo chiede il poeta. “Non mi va d’intraprendere”, scrive Damiani, “ecco, vorrei restare qua / e basta. Vorrei consumarmi / senza più vivere” (p. 31). Consumarsi senza più vivere, essere livellato dall’acqua e bruciato dal sole, senza sentire, metamorfosarsi senza soffrire il mutamento, rimpicciolirsi perdendo qualcosa di sé senza perdere nulla, accettare l’ineluttabile, come il Monte, come gli alberi, che “Quando l’incendio avanza, [loro] restano fermi e aspettano il fuoco” (p. 46). Gli alberi non hanno bisogno di comunicare, ovvero, comunicano con la propria stessa silente presenza, con l’abbraccio invisibile che li stringe gli uni agli altri per resistere insieme, si amano a distanza come il vento ama i fiori su cui posa il polline per fecondare la vita, si amano tra loro come li ama la terra che li accoglie e generosamente li nutre: “Forse mi sopportano con rassegnazione, e continuano a pensare ai casi loro, a sussurrare bisbigliando, muovendo appena le foglie, a inebriarsi del cielo e dell’aria, a guardarsi tra di loro senza toccarsi, a succhiare dalla terra la linfa vitale, che li fa crescere e prosperare” (p. 51). Se il vento è forte gli alberi lasciano che soffi, piegando i loro rami, acconsentendo alla sua ferocia. Lasciano che si sfoghi, senza dirgli niente. Sanno che dopo un po’ si calmerà, che l’aria ritornerà quieta. Gli alberi, che “affidano al vento i loro semi, unendosi senza conoscersi” (p. 48), che si tengono fra loro senza toccarsi e parlano senza pronunciare parole, sono immersi nel cielo come gli uccelli, non tentano il volo come noi, non tentano di avvicinarsi al sole, non sfidano il vento, semplicemente stanno, immersi nel cielo, e forse lo comprendono più di noi, che lo corriamo e percorriamo come la vita, più degli uccelli che lo attraversano smuovendone l’aria: “E gli uccelli quando attraversano il cielo, lo attraversano più di un albero? Per il fatto che arrivano fino alle nuvole, lo capiscono di più?” (p. 49). La risposta implicita è negativa: gli uccelli, e noi che come loro sfidiamo il vento e scaliamo il cielo con i nostri aeroplani, turbandone la quiete, noi che corriamo e non sappiamo fermarci ad ascoltare il silenzio, smarriamo per la strada qualcosa che non riavremo, diminuendo. Gli alberi, invece, che se ne stanno fermi accettando che gli uccelli scorrazzino nelle loro chiome, che il vento li sferzi, che il fuoco li minacci, lasciano andare le proprie foglie quando è l’ora, e ne vestiranno con naturalezza di nuove alla primavera successiva. Sulla loro immobilità il tempo scivola, così come scivola sul corpo delle pietre, ora riscaldato dal sole, ora gelato dall’inverno, ma sempre vivo, sempre in ascolto, pronto ad accogliere i segni del tempo, a raccogliere storie da restituire, da un secolo all’altro: “Francesco anch’io voglio rivedere i sassi, voglio stare vicino a loro, voglio sdraiarmi e appoggiare la mia guancia sulla loro guancia. Voglio sentire il loro respiro, il battito lento dentro. Vorrei che mi raccontassero tutto quello che hanno visto. L’età del mare e l’età dei ghiacci, gli animali mostruosi antichi, i romani, gli anacoreti e le streghe, i ladri e i briganti, i tesori nascosti nelle loro viscere. Vorrei che mi dicessero dov’è l’oro, solo per saperlo, senza mai andare a prenderlo” (p. 54).
Nel breve racconto finale Caro libro di vetta, il poeta si trasvesta da narratore – pur continuando a scrivere poesia in forma di prosa – e assume sembianze femminili, per ripercorrere e sintetizzare il suo viaggio nella natura, in fuga dalle piccole incombenze quotidiane, dalle difficoltà di una scuola sempre più martoriata, che va via via perdendo la sua funzione educativa (p. 60), un viaggio in direzione del silenzio, per potersi sedere e non pensare a nulla e guardare soltanto (p. 61), lasciando che il sole l’avvolga, per imparare a stare immobile, bruciando senza muoversi, come gli alberi, senza paura del fuoco, per trovare la perfetta sintonia con la natura tanto a lungo cercata, ed essere cosa tra le cose, circondata e pervasa dal respiro della terra, immobile e silenziosa, soggetta al trascorrere indolore del tempo delle pietre: “Mi piaceva star lì a bruciare al sole, a brucare come una pecora su questo prato celeste. Mi piaceva sentire gli attimi che scorrevano e si bruciava il giorno come un tizzone sul fuoco, come le piante mi stavano intorno e lentamente crescevano, respiravano pensavano riflettevano. Come scorrevano gli attimi del mio giorno, così scorrevano gli attimi delle piante, e delle pietre” (p. 64).