Su Tua e di tutti di Tommaso Di Dio
(LietoColle-pordenonelegge, 2014)
Di Chiara De Luca
“E lei è lì; prega / storta e disancorata. Sempre lei / balla cade offende, fa di tutto perché mai tu / l’ameresti così come ora la ami”, scrive Tommaso Di Dio nella poesia “Il giorno che s’avvera; da qualche parte nella mente” (p. 27), nella sezione d’apertura della sua più recente raccolta. Ma chi è quest’amante sempre presente, che parzialmente si dona nel suo costante, danzante movimento, per poi subito sottrarsi, lasciandoci indietro, a osservarla muoversi da sola sulla pista? Chi è questa creatura bella, nostra e di tutti, che tacitamente ci invita alla danza, che ci abbraccia e ci bacia, che ci offende e respinge e al contempo fa di tutto per farsi amare? La risposta non si fa attendere, arriva nei versi successivi della stessa poesia, che contengono anche il titolo del libro, come una dedica al lettore, e all’amata stessa, che il poeta dipinge in tanti volti – cercati e trovati, intravisti, visti e riconosciuti, o solo adombrati – nelle cose e nelle persone, nei gesti, nella natura e nella città, nella stasi e nel movimento; l’amata che il poeta disperatamente cerca e che rifiuta, che a sua volta offende e ricusa, che però ardentemente desidera e che odia, l’amata che lo disgusta e che lo attrae, che lo inebria e lo abbatte: “tua e di tutti, questa / vita reale più ricca e sgualcita / dal niente che non l’abbandona” (p. 27). La poesia di Tommaso Di Dio cerca, sperimenta, mette alla prova le parole, le accumula e le isola, le separa e ricompone e accosta e ricombina, le ascolta risuonare nel tentativo di ricrearle, di mettere a fuoco quella vita celata “nella vita che ancora non ha / trovato un nome” (p. 30), per “dimenticarsi; di aver odiato / una volta in ogni dove il tutto / di questa vita” (p. 32), per “sporcare il giorno di tutti i sogni”, di quegli stessi sogni che sporcano gli occhi del poeta, che sono condanna e salvezza allo stesso tempo (p. 35).
“Tutto questo / essere stati non basta / bisogna ripetere tutto, capitolare.” Scrive ancora Tommaso Di Dio “Bisogna pagare” (p. 41), bisogna scontare il fatto stesso di esistere e d’aver vissuto, morire per rinascere e riprovare a essere interi, provare a vivere in modo autentico, abbracciando ogni cosa senza lasciarsene sopraffare, osservando il mondo senza lasciarsene fagocitare, annullandosi nel buio del suo ventre, avere il coraggio di sopportare la rivoluzione della gioia e lo sconvolgimento dell’essere, presenti: “Ai bordi della strada, nella bolla cava / dentro la corteccia e dentro la sepolta / pietra lentamente abrasa, la vita / è meno morte che questa / carne sfatta sempre più / dalla gioia; che è / e trema (p. 47). Essere nati non è infatti sufficiente per essere, esistere non basta per essere vivi, “Nascere non è / generare: oggi bisogna dare / vita alla vita (p. 81); vivere appieno è cercare di comprendere “come splendono per la terra oscura / tante vite (p. 48), riconoscersi parte di una vita che è ovunque in attesa di essere cercata, desiderata, abbracciata, non mediante l’azione, non attraverso la conquista, ma con la sola carezza dello sguardo che indaga: “Al punto cieco di ciò che faccio / desidero sempre, desidero ancora. / Desidero vivere” (p. 65).
In questa sua ricerca di senso, in questo suo tentativo di abbracciare la vita e di fotografarla, lo sguardo del poeta si muove come l’occhio di una telecamera, che si aggira ora per le strade di Milano e nei suoi giardini, tra i rifiuti e nell’umano abbandono, tra le contraddizioni che fanno convivere ricchezza e povertà, solitudine e annullamento nel caos urbano; ora si perde lungo i sentieri che cuciono un paesaggio naturale all’apparenza deserto, o serpeggia tra i chiaroscuri del bosco, per ritrovarsi di nuovo nella periferia cittadina, scendere nell’inferno della metro, o risalire nell’adrone delle scale fino al buio della casa, d’ogni casa e d’ogni solitudine silenziosa, di volta in volta inquadrando brevemente i particolari, soffermandosi un istante, per poi proseguire alla velocità della vita stessa, che lascia indietro chi non sa tenerne il passo e indugia troppo a lungo. Nella sua ansia di abbracciare ogni cosa, l’occhio del poeta mescola, confonde e interseca i piani – paesaggio interiore e paesaggio naturale, paesaggio umano e paesaggio urbano, realtà e sogno, presenza e proiezione – con un andamento linguistico inglobante, che fa spesso uso della paratassi e dell’accumulazione, diradando la punteggiatura fin quasi a eliminarla nell’enumerazione di cose e persone, istanti e sentimenti e frammenti di visione, “L’Italia le case le montagne; le domeniche / spianate a furia di preghiere / i mattoni la tivù / le chiese” (p. 38), e poi ancora “verso il bosco che fa fatica / di foglie e rami sempre più grumo / e miseria, palazzi squarci / androni orari abbracci che temono / l’oltre di una porta a vetri / per terra vedi vetri” (p. 46). In quest’accumulazione che compone il tutto per disfarlo in frammenti, il ritmo del verso corre d’apprima rapido, per poi all’improvviso spezzarsi e ricomporsi nell’enjambement, fino a mettere a fuoco un particolare, che si staglia nitido per un istante, per poi spesso rivelarsi altro al verso successivo. Le cose ci appaiono (e sfumano, confondono, mescolano) così come appaiono alla mente del poeta, rielaborate dalla percezione e filtrate dall’esperienza individuale, e poi nuovamente rivelate nella loro materialità, in un florilegio spesso metonimico di percezioni sensoriali che confonde i sensi e il senso. Tutto nella poesia di Tommaso Di Dio è corpo abitato da una vita brulicante, umana, animale, urbana, ovunque c’è una traccia del passaggio d’altre vite: gli alberi hanno braccia e gli uomini rami, la città ha foglie che perde nel vento e la lingua stessa è corpo dove ci s’immerge per rinascere invocando il pugno annichilente della gioia: “Lingua morta / che nelle cose vive alberghi e lasci / la tua crepa come uno stigma; fa’ che io possa / mettere la testa tutta dentro / che io vi spinga / battendo reni cosce petto un pugno / di gioia terrena” (p. 23). La lingua è insita nelle cose stesse, che s’impongono un nome nel proprio stesso offrirsi, che si allineano, una accanto all’altra, o si addossano in parole, dando corpo vivo e respiro – ora esteso, ora franto, ora sospeso – al verso, formando un corpo in movimento, che costantemente di disfa e riforma, un corpo metamorfico in continua evoluzione, che non è mai come appare ma sempre in formazione, un corpo magma che esplode e si ricompone per generare forme nuove e inaspettate dall’argilla del linguaggio “le parole esplodono / e sono cera pasta biologica, non tengono / decadono. E allora t’alzi; e ricominci. / Insisti fin che dura questo male / scrivere / le cose che passano” (p. 45). In quanto corpo, la lingua stessa è destinata a un continuo processo biologico di dissoluzione e ricomposizione dalla materia delle parole, la lingua stessa non resta e non fissa, perché le parole sono cose destinate a passare e a ricominciare sempre. La lingua è pertanto menzogna che sembra offrire un sostegno e un appoggio “sembra tenerci, trattenerci / sul piano sicuro delle cose” (p. 47), che sono invece pervase da un moto segreto e inarrestabile, che confonde i piani di realtà e percezione, in un processo che porta alla progressiva o istantanea “distruzione del fenomeno” (p 59). In questo libro, nostro e di tutti, come lo è la vita, il poeta non vuole circoscrivere o spiegare, delimitare o definire, non vuole cercare di dare un nome al luminoso mistero dell’esistenza, ma auspica “Che mostrino le cose / come un vanto la loro / opaca maniera non altro sia / l’incandescenza” (25). Le cose in questo libro non sono de-scritte, semplicemente avvengono, si avverano, ovvero stanno, esistono, nella loro oggettività, che si riverbera nella mente che le accoglie, semplicemente: “Il giorno che s’avvera; da qualche parte nella mente / l’erba, ogni singolo / mattone che all’alba prende / luce e presenza” (p. 27). Analogamente, la gioia di esistere, insita nella natura, si dà con la naturalezza che ci assale nell’“impossibile suono delle cicale”, “ e quel sorriso / di chi da dove. Nelle pietre. Nella sabbia” (p. 58), in “questa gioia di tetti e moltitudini, albero / paracarro cane volto città” (p. 57), nel tutto che esiste inconsapevolmente, mentre gli esseri umani cercano spasmodicamente un equilibrio tra dare e avere, in un movimento costante, che non porta a niente, tormentati da un desiderio che non ha oggetto, finché non comprende che il proprio oggetto è la vita stessa, la sua custodia: “Tavolini fuori, bicchieri / mani che sporgono per avere / tempo di dare tempo / alla moglie all’amico al figlio, al fratello. Non è gioia. […] Sono queste cose che non continuano / dopo di noi, che muoiono / con dolcezza, senza di noi; a farci forti / capaci, come una madre / senza speranza e serena” (p. 53.)
La poesia di Tommaso Di Dio sembra voler ricomporre e ricostruire il mondo attraverso il lavoro dell’esperienza “prodotta in sonno dal volto, che costringe a risalire / per le vene le tracce, i depositi, le sacche / l’ordine di tutte le parole / che ci trovano” (p. 74). La poesia non cerca perciò parole per comporre un senso, bensì attende parole che, nel loro darsi, accumularsi, separarsi e ricomporsi, originano un nuovo senso che prescinde dalle apparenti certezze date dall’esperienza: “Cancelliamo dall’esperienza / ogni cosa. L’albero, la salita; la silenziosa / fatica di una promessa, la discesa / e il salto nella gola del tunnel (p. 70). In questa ricerca a tentoni, privata del conforto dell’esperienza, in questo brancolare di tutti i sensi verso la ricomposizione di un senso, perdiamo anche le connotazioni spazio temporali, il succedersi delle stagioni. La scansione della vita diviene mentale, urtata dalla “sequenza / di giorno notte nebbia / e pioggia poi, d’estate / il sole (p. 60). In questa sua ansia di esistere, di cercare la presenza nell’azione, il poeta cerca di afferrare e stringere le cose “con tutte le mani” (p. 54) tentando di custodire “nel corpo e nella mente” “La completezza di pioppi palazzi campi, distese” (p. 51) e le storie tacite dei volti incontrati, tentando sempre, continuando a salire, cadendo per ricominciare, cercando l’interezza di essenza e percezione e di comporre l’intrinseca contraddizione della vita, splendida e oscena, temuta e desiderata amante intrepida, sempre troppo forte, perché felicemente presente nell’interezza delle sue contraddizioni: “Ho cara la tua carne; l’ammasso / d’alberi e vento che dentro te / scorre vene. C’è il sonno; il giorno e poi / il movimento che propaga / vita faccia e sangue / per tutte le cose che fai […] Tu invece mostri / come la tua carne sempre sia / foglia, neve; tu non hai paura / ogni giorno di fronte a me / di cadere” (p. 37). La stessa compresenza, lo stesso brulicante movimento abita la vita di ciascuno di noi, che cerca di rispecchiarsi e riconoscersi nell’universale, senza però mai riuscire a estrarre un principio ordinante dal caos: “Quali fertili / aridi confini le nostre vite in risacca / fra strade di cemento e paure e jeans. Quando poi / s’apre una ferita fra i mattoni rossi e la faccia; sgorga / un tubo di terra una lacrima dal buco / qualunque del corpo che s’aggira qui / nella piazza” (p. 50).
Mentre “con gli anni la vita si complica / si confonde e immischia”, e “ogni mondo / a cui hai creduto come cosa salda e vera / è già di altri negli altri corpi / come una bufera che non riconosci più; che non riesci / ad amare più” (p. 19), la base da cui ricominciare è qui riconosciuta nell’accettazione della perdita, della diminuzione che è arricchimento, nell’ammissione che “Qualcosa va perduto / non sarà di nessuno nessun tempo lo avrà / mai” (21). La strada della nascita e della creazione d’altra vita passa invece per l’attesa di scorgere la somiglianza nella moltitudine del dissimile: “aspettare / la grazia da qualche parte come me, la grazia / di qualche animale che come me / abbia fame” (p. 20).