Un senso di perenne movimento, con i piedi pesanti, con la mappa, tra morti sotto terra e steli stese, per spiagge di lamiere e tubi, sotto dighe che tolgono il respiro, o là dove la pioggia allaga “e non si è più in grado di trovare / il punto in cui finisce l’acqua / del mare e dall’aria si divide”. Dove non c’è più modo di “sapere / se è bonaccia o burrasca in queste ore”.
Un senso d’emergenza: dobbiamo forse “mettere in un sacchetto il nostro oro / se dovesse servirci all’improvviso / per mangiare, lasciare un posto troppo buio, / salvarti da qualcuno, passare le frontiere nottetempo”.
Camminando su un terreno noto, ma pieno di sprofondamenti, cuniculi, buchi, vediamo fiumi scomparire e poi riaffiorare, sentiamo invocare un tu che è scomparso e ora occupa uno spazio molto più grande di quello che compete ai vivi.
È forse “un uomo che si incontra nel minuto / di una svolta, / poggiato con la schiena a una colonna, / che porta negli occhiali il tempo grande / dei libri, delle pietre, delle piante, / che mangia miele così come mangia chiodi”.
E lei, “cercatrice di disturbi”, “terra desolata isolata sprofondata”, potrebbe “fare sconsiderate cose / amare mai mai / o amare sempre sempre / e essere comunque qui presente”.
Con una musica volutamente disarmonica, con un ritmo di inarcature e frenate, questi versi di bellezza estrema e tangibile, quasi materica, toccano, colpiscono, a tratti accarezzano.
“Una voce aspra e riconoscibile, di notevole valore” Fabio Pusterla
In copertina una foto di Gaetano Bellone: Muro di Palazzo Barberini.
*
Ero una cercatrice di disturbi
io cercavo l’oro dei difficili
mi dissero che c’era un tesoro in casa tua
protetto da due soldati soli
due mercenari, un arabo e un francese.
Io cervavo di introdurmi
nella breccia affaticata
e dentro la cavità frugavo
toccavo polvere con le dita
e cose molli
e qualcosa che al mio posto si spostava.
A quel punto tutto era corrotto,
le guardie, il cercare, quella buca.
Nemmeno l’ombra, no, nemmeno l’ombra
del tesoro
***
Tra i tuoi due lembi di pelle mettendo a fuoco
ho intravisto quella mia malattia
come dentro una ferita si tiene un nocciolo
legnoso e sano, rotondo
che tocca terra e cresce solo quando
un colpo stacca la testa del tutto.
Non sarebbe mai potuto essere diverso.
E dopo continuai a non vederti
– in testa un cencio e il taglio sopra il collo –
vedere mani, piedi e mai gli occhi.
***
E’ rimasto tutto uguale la stagione successiva
calanchin e costoni scalati dopo allora
e la sete, ricordo la sete e ricordo una pelle più scura.
Sopra il tavolo un uccello imbalsamato mi consola.
Io qui sono un’estranea
conosco tutti infatti e tutti di me sanno
l’inconfondibile discesa della sera
sulla piramide al crociccho incastonata
sopra i pini piatti nella chioma.
Quel che guardo fu un centro: qui morii
venendo dal paese precedente.
Per chilometri e chilometri di mura
ho pensato un nome, una parola sola.
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Mariagiorgia Ulbar è nata a Teramo, ha vissuto a lungo a Bologna e ora vive sulla linea di confine tra l’Abruzzo e le Marche. Insegna e traduce dal tedesco e dall’inglese. Ha pubblicato la raccolta poetica I fiori dolci e le foglie velenose (Maremmi, Firenze 2012), la silloge “Su pietre tagliate e smosse” all’interno dell’Undicesimo quaderno italiano di poesia contemporanea (Marcos y Marcos, Milano 2012), le plaquette illustrate in edizione limitata Osnabrück e Transcontinentale (Collana Isola, Bologna 2013) e le prime nove cartoline del progetto autoprodottoPoste/Poesie. Ha fondato la Collana Isola, che pubblica libriccini di poesia e illustrazione di autori contemporanei. Collabora al progetto di poesia e fotografia Il tempo qui non vale niente, che si sviluppa on line al sito lightpo.tumblr.com.