Roberto Maggiani, “La bellezza non si somma”

 

la_bellezza_non_si_sommadi Maurizio Soldini 

La bellezza, o almeno la possibilità di coglierla e di fruirne, ha a che fare prima che con l’universale, con il particolare. E siccome gli esseri umani sono immersi con la loro spiritualità nella materia, il dato sensibile è prioritario, almeno al primo passaggio. Come dire che non c’è bellezza che non passi per il mondo dei sensi, nel momento orizzontale, per poi elevarsi al trascendente attraverso il trascendentale nel momento verticale. O quantomeno va detto che l’uomo non può afferrare la bellezza se non attraverso il suo sistema sensoriale e nervoso, e in questo se ne connota la razionalità, nonché la cognitività della bellezza, per poi farla ascendere a dimensione del sentimento dell’anima, alla sua spiritualità. In tutta questa dinamica va da sé che tra i sensi che colgono la bellezza la fa da padrona la vista. E lo sguardo con tutta la sua fenomenologia ha molto a che fare con la realtà della bellezza, ma ha a che fare anche col concetto del bello. Infatti per la bellezza l’apprensione sensoriale è fondamentale, e in particolare è centrale lo sguardo. Siccome vediamo quello che guardiamo, ne consegue che la bellezza non può essere relegata e lasciata in balia al puro intuito e all’emotivismo, ma per coglierla è necessaria anche la ragione; c’è bisogno allora di educare lo sguardo nell’alveo del sentimento.

Il poeta è ben consapevole di questo e quando lavora sulla, con la e per la bellezza non può fare a meno di partire anche dal pedale più basso per poi tentare il vertice del canto. Come fa Roberto Maggiani nella silloge “La bellezza non si somma”. Quando, proprio nella prima poesia, si inizia con un atto fisiologico, quello della minzione, durante un viaggio in treno, che consente di “vedere” (“vedevo correre le rotaie”) e “scorgere” (“dal finestrino scorgevo”) “la distesa azzurra in cui tutto sprofonda”, culmine di un sublime naturale colto dalla facoltà di giudizio.

Nello sguardo alligna la possibilità del senso nella misura in cui si riesce a cogliere il bello nello splendore della natura col suo paesaggio, paesaggio marino in questo caso, in cui mare cielo isole palmeti e quant’altro fanno vibrare il cosmo. Tutto è luce oro silenzio e si ascolta “la sola parola del mare”. E nel paesaggio atlantico emerge la figura dell’uomo, colta nella sua armonia geometrica e nei colori dell’eleganza corporea specchio del paesaggio solare. Gli esseri umani appaiono belli nella loro sembianza di statue, ma non sono statue di marmo. Al mare infatti fanno eco “sul pontile parole portoghesi” e tra tanta bellezza emerge la beltà creaturale della persona [“Una persona”, che dà titolo a una delle poesie della seconda parte]:

 

Nel gioco improvvisato è veloce.

La sua bellezza è inscritta

nel giallo-verde degli occhi

e nella geometria del viso.

In costume è la creatura perfetta

l’evidente bellezza.

 

E in “Ritratto” vi è l’apoteosi della corporeità in una nudità colma di sensualità e sfolgorante di piacere, quel piacere che così strettamente è correlato alla bellezza e che sa elevare dall’altare del corpo al cielo, come la bellezza sa elevare al bello.

In questo paradiso terrestre non manca però la paura, “minuti sospesi/ sul baratro dell’inesistenza”; “ la paura/ è solo un momento in cui vediamo/ riflessa nel mondo/ la precarietà/ della rete che ci sostiene”; ma che cosa è questa paura se non una vertigine una fobia [“qualcuno si spaventa per una sirena/ un incendio improvviso nel bosco/ un forte vento”], in confronto all’instabilità dell’Universo che da un momento all’altro potrebbe precipitare nel vuoto del nulla [“Nell’Universo dal vuoto metastabile/ (potrebbero disintegrarsi da un momento all’altro)]? “Ma noi di questo non ci preoccupiamo” afferma il poeta. Sarà pure per sopravvivenza, ma non ci preoccupiamo se non momentaneamente, per poi tornare a dare senso alla vita. E il senso per il poeta viene dato attraverso la bellezza, che dona piacere e felicità. La bellezza. E in particolare, dice il poeta, bellezza che non si somma. Bellezza che va colta e fruita nella singolarità. Una bellezza colta nel paesaggio, nell’uomo, o meglio nella persona, nel corpo, nell’anima, negli occhi, nei piedi, nelle caviglie, e quindi negli amanti, nelle madri, negli amplessi, nel concepimento, nelle albe dei giorni, nelle sere della luna che inargenta, nell’eco lontano di un tango in cui tutto ondeggia. E dal buio della notte se ne esce, dopo essere stati pensosi al ritmo del vento, con la speranza di cogliere finalmente alla luce del giorno lo splendore di “tutta la parte di realtà/ che dà sostanza al mondo”.

Il mattino, regno degli uccelli, dei loro voli e dei loro canti, il sole appena sorto, la luna, i campi biondi, la piccola lucertola, lo stagno, le montagne lontane, le nubi, il mare riportano, ex abrupto, in un déjà-vu proustiano, dal paesaggio atlantico al nativo paesaggio carrarese. “Qui attorno c’è silenzio/ e tanto basta. /Ma qualcuno – insoddisfatto -/ ha da aggiungere/ un suono malmesso:/ una stonatura/ d’apparente armonia”:  è il poeta che parla, insoddisfatto, come capita spesso a ogni poeta, di non sentirsi all’altezza di forgiare con parole quello che vede? Forse. Ma anche questo fa parte del saper cogliere con umiltà la bellezza su questa terra. Il poeta, il vero poeta, è ben consapevole del compito infinito della poesia del tentativo di innalzarsi dalla bellezza partecipata e forgiata con arte nelle parole al concetto di bello alla contemplazione del bello che è sempre da venire.

Nella VI parte della silloge ritorna la riflessione sull’uomo (“Uomo”: “Sei strano perché sei materia-carne: vita./ Lassù c’è chi ti cerca. Sarai uguale o diverso?”), sulla sua corporeità, fatta anche di materia, di carne… ma nell’iper-uranio qualcuno ci ama e ci cerca. E allora come sarà l’uomo, uguale o diverso? Rimane il mistero. Ma rimane un dato di fatto. Che “Nello spazio confinato di una tazza – /nella sua ombra tonda- è la tua identità/ il tuo evidente successo sul mondo:/ la bellezza non sommabile del cosmo”. Sarà pure un mistero l’uomo, ma per il poeta l’identità e il successo dell’uomo risiedono in toto sulla capacità di fruire della bellezza, una bellezza che non si somma, per quanto al cospetto del cosmo egli sia confinato nello spazio infimo di una tazza. E che cosa è alla fine la bellezza se non amore? Di quell’amore di cui il poeta pensa di non saper dire, pur volendone parlare. Ma è un momento di modestia, perché il poeta sa parlare molto bene dell’amore, così come della bellezza, allo stesso modo di quando affronta i problemi matematici e fisici a lui pure congeniali. Chiama l’amore una caduta. Ma sa bene che non è e non può essere così, dacché bellezza e amore e poesia per quanto non matematizzabili come le scienze esatte e positive elevano alla spiritualità più compiuta.  

Come dice il poeta, l’uomo sta nella materia è anche materia ed è a contatto con le cose. Ed è proprio a partire dalle cose con i loro colori e le loro forme che egli ha imparato a chiamare Dio (“Dio” – “Ho imparato a evocarti/ dai colori e dalle forme delle cose”).

 

Dio

 

Ho imparato a evocarti

dai colori e dalle forme delle cose.

 

Per riconoscere la tua presenza

mi bastano la soglia di una porta

 sempre aperta su un patio

 e una tenda

 che nella brezza sappia danzare

 lentamente.

 

 Sei come un albero

 che nella sua totale presenza

 si assenta nell’abitudine

 dello sguardo.

 

 Io invece sono come il mio gatto

 che parla ai corvi lontani:

 vedendoli piccoli

 vorrebbe farne un boccone –

 li prega di scendere

 con versi inconsulti

 non sapendo della loro grandezza.

 

 Ti cerco instancabilmente

 ed è solo per la nostalgia che ho di te

 che scrivo poesie.

 

Dio è, per il poeta, come lo è per molti uomini, una presenza. Una presenza che può essere evocata dalla soglia di una porta sempre aperta e da una tenda che danza continuamente al vento. Ma questa presenza, per abitudine, può farsi assenza. Come l’albero, che per consuetudine nostra, può uscire dallo sguardo, non abitare più lo sguardo. Sempre allo sguardo si ritorna. E se Dio è una presenza come quella dell’albero che può farsi assenza, il poeta è come il gatto che vedendo piccoli i corvi lontani pensa di poterli mangiare con un solo boccone, ignaro di quanto grandi siano in realtà. Ed è così che in questo gioco di sguardi e visioni della realtà, agiti con metafore pregnanti e intensamente evocative nei loro correlati oggettivi, il poeta fa professione di fede rivolgendosi a Dio: “Ti cerco instancabilmente/ ed è solo per la nostalgia che ho di te/ che scrivo poesie”.

Dio rappresenta il punto finale, il telos, di un viaggiatore che parte dalla carnalità e dalla materialità dell’essere per approdare alla contemplazione della luce pura dell’Essere. E questo essere/Essere è giocato tutto nei termini della bellezza. Una bellezza che non si somma, che rappresenta un mistero, come del resto è misterioso l’uomo, per quanto la bellezza di cui fruisce l’uomo e a cui aspira nostalgicamente l’uomo non può non partire dal mondo sensibile e fisico per tentare la meta della metafisica. In tutto questo ha un ruolo rilevante il poeta, che per indole ha lo sguardo affinato e raffinato col quale provare a penetrare la realtà per fornire a se stesso e a tutti gli uomini fecondità di senso.

Che la bellezza non si sommi è un dato incontrovertibile, ma che la bellezza abbia connotazioni cognitiviste e pertanto abbia un suo logos è altrettanto lecito affermare, al punto che vorrei concludere ripetendo con Tommaso d’Aquino, per il quale “Pulchrum est id quod visum placet”, che la bellezza non può avere a che fare solo con l’intuito e con una dimensione emotivista, ma per coglierla è necessaria anche la ragione; c’è bisogno allora di educare lo sguardo nell’alveo del sentimento. E il poeta Maggiani in questa silloge riesce a fare anche questo, educando il lettore a guardare la realtà in un certo modo, nelle more di cogliere la bellezza per approdare al bello. E lo fa non soltanto attraverso una strada sostanziale, mirando al nucleo concettuale del bello, ma lo fa anche dal punto di vista formale attraverso un’arte poetica che si rende dal punto di vista stilistico sempre più matura.

Lo stile di Roberto Maggiani è sobrio, geometricamente armonico nella sua linearità, chiaro e lucente, tanto da dover bastare, al di là del significato della sua poesia, se ci fermassimo al significante, per poter apprezzare la bellezza del canto. Anche qui, nella forma, si coglie quel logos che mette ordine nella bellezza e Maggiani in questa silloge, per usare categorie nietzschiane, si staglia nell’apollineo piuttosto che nel dionisiaco.

Insomma, sarà pure che la bellezza non si somma, ma leggendo questo libro, che si consiglia vivamente di leggere e assaporare, passando di pagina in pagina, si ha l’impressione sì del mistero della bellezza, ma si ha contezza che se ne può fruire di questa, hic et nunc, nel senso del significante e del significato, e alla fine la somma che si può tirare mi fa dire che in questo libro la bellezza si può anche sommare, dacché la nostra percezione e il nostro sguardo ne escono accresciuti. Ma ne esce accresciuta, infine, anche la nostra consapevolezza della verità, allo stesso prezzo di un destino bruciato, per il quale la bellezza ha un destino transeunte allo stesso modo dell’evangelico chicco di grano che se non germoglia non può dare la vita:

 

La verità nascosta si paga.

Eccome se si paga –

ha lo stesso prezzo di un destino

bruciato.
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Da: La bellezza non si somma, di Roberto Maggiani, Collana Rive, italic, 2014

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