Scheda critica di Francesco Napoli
0. L’archetipo del viaggio è forma del pensiero dell’Essere: allo stesso tempo è la rappresentazione di tutte le tensioni – verso l’esterno, il futuro e il passato attraverso il viatico della memoria personale e collettiva – e la tormentosa ricerca dell’altro da sé e del dentro di sé. Il viaggio viene compendiato nel percorso che ogni individuo realizza nel continuo procedere del suo vivere. Non privo di fondamento, e di fascino, assimilare questa mozione archetipica alla dimensione lineare del tempo della vita che va dal movimento di piena energia dell’età adulta (ulteriore fascinazione associarvi l’élan vital così come codificata da Bergson agli inizi del Novecento) per giungere alla vecchiaia e poi alla morte nell’incontro dell’opposto (archetipo morte-rinascita).
L’ineluttabilità del viaggio del corpo nell’esistere va di pari passo con la propensione dell’uomo a viaggiare verso la scoperta e l’ignoto. Forte e autentica scintilla dell’intelligenza, la condizione del viaggiatore (il viandante o il nomade di tanta letteratura otto/novecento) spinge l’uomo per amore della conoscenza a uscire dalle sicurezze acquisite mirando a qualcosa che manca, o che si crede perduto, e alla necessità di mettersi a confronto con altre modalità dell’Essere.
Così il bisogno del viaggio, nelle sue svariate declinazioni, come simbolo della ricerca di verità, di spiritualità, di immortalità, di avventura, di benessere e pace, si è incarnato sin dall’antichità in alcuni eroi: da Ulisse a Enea ai cavalieri in cerca del Sacro Graal, uomini, istintivamente votati alla ricerca di un Ignoto, che si allontanano più o meno volontariamente dall’orizzonte delle certezze; ed è celebrato nella letteratura: da Dante, che attraverso il viaggio nell’aldilà può giungere alla redenzione, a Rimbaud che nel suo Batteux Ivre ripropone la metafora del viaggio come distacco, totale allontanamento da ciò che è noto ma soprattutto come perdita di sensibilità, pieno abbandono all’oscillazione delle acque, a Joyce, il quale ripropone il topos dell’eroe viaggiatore nella moderna città di Dublino, sede della vana indagine sul senso della vita da parte dell’uomo moderno.
Tutto questo, almeno stando a Jung, può derivare da un sentimento di insoddisfazione che è spinta primaria per ampliare l’orizzonte delle esperienze, oppure da una “distrazione da sé” che desidera l’avventura per mero gusto di novità ed emozione, o da un più o meno consapevole anelito di aggiungere altri tasselli al proprio sapere e, comunque sia, l’archetipo del viaggio trasforma l’io, agendo come un potente flusso sull’unico vero viaggio di cui ogni altro è simbolo: il percorso di identificazione.
James Hillman, allievo di Jung, ha poi portato a un’evoluzione ulteriore la teoria degli archetipi, andando a delineare una psicologia archetipica da connettere strettamente alle forme espressive dell’uomo e immaginative dell’arte, della poesia, della mitologia, della narrativa.
1. Classe 1953, nella nostra geografia poetica è senza dubbio un punto ben riconosciuto dalla critica. Broggiato appartiene a quella severa continuità che negli anni Ottanta, decennio del suo esordio con Piani alti (1983), ha proseguito e rinforzato l’indirizzo della poesia italiana sancito dalla rottura degli stilemi neoavanguardisti ormai boccheggianti sulle secche dell’ideologismo, frattura creatasi attorno alla metà del decennio precedente anche grazie a un manipolo di esordienti che ha rifondato la poesia italiana (tra cui, in puro ordine alfabetico, Cavalli, Conte, Cucchi, De Angelis, D’Elia, Magrelli, Mussapi, Piersanti, Pontiggia, Santagostini, Viviani) riconducendo la parola al significato piuttosto che al significante, sdoganando definitivamente ogni forma e altezza del linguaggio e liberandola da ogni catena ideologizzante. Con Piani alti, raccolta che a suo tempo ebbe lusinghieri riconoscimenti critici, e poi con Predizione dell’albero secco (1991), l’azione di Broggiato sul linguaggio, “poeta che scrive solo quando gli è intensamente necessario”, ricorda De Angelis, si distingue per il rifiuto di ogni lirismo e per un disegno spinto all’ossessione della secchezza. La sua poesia, allora, riprendendo ancora Milo De Angelis, si muove “a strappi, a brandelli, a improvvise chiarezze a silenzi”. Questa andatura evolve all’altezza del Copiatore di foglie (1998) e cioè dopo alcuni anni di fruttuosa riflessione. E “copiatore di foglie” Broggiato si proclama ancora a distanza di molto tempo nel componimento eponimo di Città alla fine del mondo (2013) dove dichiara apertamente: “È ritornato il copiatore di foglie/ – Ho esaurito i miei sogni./ Sono stato in tutte le città/ alla fine del mondo”, più un finis terrae montaliano, sia ben inteso, con un analogo senso d’incertezza (“Sparir non so né riaffacciarmi” scriveva il poeta ligure) contraddistinta da un’“onda, vuota” che “si rompe sulla punta, a Finisterre” e non un ritratto da apocalisse dell’Essere e del Mondo.
Se Andrea Zanzotto appare un probabile padre nobile, quasi per contiguità territoriale e per alcune risoluzioni linguistiche, sul piano della poetica Broggiato, pur seguendo da presso De Angelis e Mussapi e più marginalmente Magrelli, assume presto un tratto proprio e ben distinguibile. Il poeta si riconosce in una cerchia amicale – i Mario, Roberto, Milo e Pino in “I cieli di Milano” – per una sorta di assimilazione culturale, ma difende un’autonoma fisionomia: persiste più d’un tratto di trobár clus senza che questo però oscuri la lucidità e l’intensità del canto; rimodella a suo modo l’io poetico; massima appare l’attenzione alla possibilità d’ascolto della poesia, tendendo così a ridonarle “un recupero della dicibilità, della comunicazione, sgretolatasi prima per le alchimie neosperimentali poi per una ripresa (necessaria e salutare, ritengo) della spessa costola simbolista da cui discende gran parte della poesia novecentesca” (Mussapi); ma, soprattutto, adotta da subito la metafora del viaggio, uno dei temi portanti dell’ultimo Novecento poetico, quale topos esistenziale dell’attraversamento, pieno di interrogativi e denso di stupori, rielaborandola continuamente fino a costruirsi un suo particolare archetipo.
Anticipo della notte (2006) segna il felice punto d’arrivo di una ventennale ricerca, una raccolta dove all’io subentrano altre voci, senza “nome/ né tempo”, e tra queste quella paterna, figura assimilata a un pater distaccato “dietro una porta nera” ma allo stesso tempo “Dio che attraversi la notte”, sensibilità quest’ultima pienamente in sintonia con l’epoca, e poi in Citta alla fine del mondo (2013) Broggiato tende con ostinata decisione a rintracciare un’essenza della vita, e lo fa tanto scrutando occhi e volti delle persone incontrate, quanto andando al nucleo vivo delle cose e alle sfumature dei colori, riassumendo questo suo “viaggio” attorno all’Essere in chiaroscuri fortemente contrastati, generati da luci e ombre, che ricorrono numerose nei suoi versi, e che sembrano ritrovare nel chiuso d’una stanza, spesso d’albergo, la sintesi risolutiva (“Di notte, nella camera d’hotel,/ un chiarore di luna filtra/ dalla persiana”, in “Dopo aver letto De Aquae Sextiae proelio”) immagine ripresa in Preparazione alla pioggia che ritorna così: “Dal corridoio la luce penetra strisciando/ fin sul pavimento della camera./ Poi, lenta, si alza conferendo alle cose/ il loro giusto contorno” in “Hotel Speranza”. Conserva con assoluta padronanza una parola secca e pungente ma comunque insufficiente, “mancante”, che di continuo “si rigenera nel silenzio,/ nella metamorfosi delle sue regole” e avverte l’assoluta incapacità di colmare il divario tra il pensiero poetante e l’effettiva resa sul foglio, una pena ungarettiana che diventa “un pensiero fisso, di pena/ e sgomento, non riuscire a carpirla”.
2. C’è un continuum nei libri di Tiziano Broggiato che giunge fino a Preparazione alla pioggia. Un accenno di “romanzo in versi”, forma catturata, e poi rielaborata, da Elio Pagliarani, l’autore di La ragazza Carla a La ballata di Rudi, il primo a cimentarsi su questa misura sulla quale successivamente va a fare i conti anche un poeta non sempre così lontano da Broggiato, quel Maurizio Cucchi che, centrandolo sulla figura paterna e sulla sua misteriosa e improvvisa scomparsa, ne dilata la composizione in diacronia, distendendola dal Disperso (1976) a L’ultimo viaggio di Glenn (1999).
“Ascoltando Marilyn”, questo il titolo dell’ultimo componimento disposto da Tiziano Broggiato in Preparazione alla pioggia, ha tutto del romanzo: la traccia narrativa, Eros e Tanathos, una protagonista femminile che svela i suoi misteri e i suoi sentimenti e un io narrante che dialoga e interagisce con lei. E poi, naturalmente, c’è una stesura in versi che nel tempo è diventata sempre più controllata; sì, nel tempo, perché “Ascoltando Marilyn” viene da lontano, dal Copiatore di foglie (1998). La versione poi attraversa, ripulita, Parca Lux (2001) per approdare sino a queste pagine. Non è certo la sede per una disamina della variantistica, ma una considerazione a mo’ di commento su un lavorìo così insistito dev’esser fatto. Nell’articolato itinerario compositivo di questo “romanzo” Broggiato ha saputo via via eliminare, in nome di quell’ostinata ricerca dell’asciuttezza formale ed espressiva che ben lo contraddistingue. Si autoesclude esplicitamente tra i personaggi dal primo al secondo passaggio, levando, come l’arte scultorea insegna, un lungo tratto nel quale lei, Marilyn, al poeta s’appella per nome (“Come vedi/ Tiziano/ è indifferente il tempo/ …” e via per lungo tratto). E siamo così all’altezza di Parca Lux. Ma questo, e altri interventi correttori minori, non gli appaiono sufficienti. Quella tragica storia al femminile ha continuato a rimbombargli fino a riportarlo a lavorarci su, e sempre di scalpello e cesello, nel levare e nel limare. Ancora qualche colpo, probabilmente decisivo per l’assetto, forse conclusivo.
Un autentico ‘viaggio’ nella narrazione e nella versificazione che in Preparazione alla pioggia si conclude con una versione del “romanzo” tersa e asciutta, ancora vibrante di tragiche visioni (“ -‘Ogni giorno dai trent’anni/ c’è un istante destinato/ al pensiero della morte’”) e contrastanti sentimenti d’amore; un ‘viaggio’ percorso da Broggiato nell’ossessiva ricerca dell’“enigma dell’esistenza” che nella parola sempre “mancante”, può esser cavata via “dall’imbuto della memoria”. Finita qua? La ricerca no, il romanzo forse sì se l’autore voleva consacrarlo facendolo assurgere a titolo dell’intero libro.
3. E c’è un altro e più manifesto continuum che in Preparazione alla pioggia si mette da subito in evidenza: l’archetipo del viaggio ora dispiegato tra il fervore quasi iniziatico del Baudelaire di “Il viaggio”, “Per il bambino, incantato da mappe e da carte/ il mondo è pari al suo gran desiderare./ Ah! Com’è vasto il mondo al lume delle lampade!/ E agli occhi del ricordo com’è piccolo il mondo!”, con una sentita adesione allo striminzirsi della memoria, e la distaccata ironia montaliana, registro ben noto a Broggiato, di “Prima del viaggio”, , dove “si è tranquilli ma si sospetta che/ il saggio non si muova e che il piacere/ di ritornare costi uno sproposito” che fa il pari con “Partenza” di questo volume: “Ancora un giro per le stanze/ con le valigie pronte in entrata./ Sia di due, o cinque o dieci giorni/ l’assenza, sempre identico si rivela/ Il carosello./ Dovrebbero accompagnarmi immagini/ di gru e idrovore intente a spianare/ la strada verso il rifugio segreto./ Perché mi coglie invece/ questo affanno, questa afflizione/ come se si trattasse, ogni volta,/ dell’ultima?”. E non è certo l’ultima volta se si ritrova giocoforza costretto nell’“ospitale ventre di Gatwick”, ma sulla difensiva, aggredito da quel luogo e da quella situazione, con la compagna “avvinghiati come dispersi su ecopoltrone/ azzurre, lambiti appena dal flusso/ ininterrotto dei partenti, dalle loro voci”; o ancora a Glasgow in una camera d’albergo stravolto dal “rimbombo del music live” e “i lucori serrati che, sul soffitto,/ ne rincorrono il ritmo” a tenerlo desto nella viva e sgradevole sensazione di un percepito smottamento progressivo delle “gallerie della memoria/ che cedono palmo a palmo”, memoria stanca che ormai si situa “in prossimità dell’instabile confine/ che alterna ricordo e affanno”, come detto in altro testo.
Il suo viaggiare sembra allora a un punto morto come il treno, “in mezzo a campi neri”, e dal quale “ci si affaccia come per una sorta di ostentata/ sicurezza”. Alla luce e dall’alto la realtà cambia aspetto (“Vista dall’alto la città si snatura/ in una luce parziale, arcuata.” in “Virata per l’atterraggio”, coniugandosi ancor più strettamente di quanto visto fino a questa raccolta l’archetipo del viaggio e il tema allegorico della luce, tema questo a sua volta sempre vividamente connesso al suo opposto. Ma nel caso di Preparazione alla pioggia vien fuori un’altra valenza allegorica: la fonte luminosa come metafora dell’intelletto (e in qualche misura della memoria) la cui sempre più insistita intermittenza tra luce e ombra palesa tutte le difficoltà di comprendere la realtà del vivere: “Sembra sfiancata, intorpidita,/ questa luce mattutina che tarda/ a irradiarsi./ Pare aspetti la sua ombra,/ o, con calma, ne stia valutando/ la gravità dell’inclinazione.” e, ancora, “Tra poco i raggi del nuovo sole/ entreranno dalla finestra aperta/ facendone scintillare i vetri./ Io sarò lì come sempre ad aspettarli,/ a cercare di riconoscerli”.
4. Una suggestione critica conclusiva, non molto di più, che deriva dalla lettura di Preparazione alla pioggia è quella di assimilare in un’ardita quanto ulteriore plausibile metafora l’archetipo del viaggio così intrinseco alla fibra poetica di Broggiato: la Parola. Mi chiedo, in altro modo, se non sia quest’ultima l’autentica meta di tanto peregrinare e quindi se non sia la nominazione, la più aderente possibile al vero, il reale scopo di questo continuo e fin qui instancabile moto del poeta. Una Parola certo mancante, come già detto, eppure sempre a un passo dall’esser raggiunta o, almeno, riprodotta con fedele approssimazione dal “copiatore di foglie”, straordinario trascrittore degli incunaboli dell’Essere e del Mondo.
E se Montale invita più volte il lettore a considerare la propria opera poetica “nella sua totalità”, come un itinerario organico, o viaggio, ancor meglio visto le premesse di questo mio scritto, come esperienza conoscitiva ed espressiva scandita in tempi, articolata in successivi sviluppi, così vorrei fare più modestamente anch’io, invitando chi apre questo libro di Tiziano Broggiato a percorrerlo perseguendo la stessa idea di Sant’Agostino e cioè che il mondo è un libro e quelli che non viaggiano ne leggono solo una pagina.
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ESTRATTI
da “Preparazione alla pioggia” di Tiziano Broggiato, Italia Pequod, 2015 (14,00 euro)
Sezione IV
*
Amica, indifferente è il tempo
alle tue scelte di alimentare trame
di mai sopiti rancori
e di convocare anzitempo la vertigine
di stagioni che non sai se mai
ti apparterranno.
Ascolta la rissa degli uccelli
che rompe l’incanto e li fa
assomigliare a noi.
Anche la loro è una menzogna
che andrebbe riscritta.
E il tempo, il tempo
è un’agile anguilla che
la prospettiva dell’acqua dilata
e che sguscia irridente tra le
nostre mani ogni volta che tentiamo
di trattenerla.
*
“ Intrecci le mani sotto il mento
come faceva Truman Capote “
mi confida l’amica
“ Così lunghe, in primo piano
che non si capisce se reggano
la noia o acuiscano l’attenzione “.
In verità, amica, mi è indifferente
il senso ( penso a una luce improvvisa
di cui non è individuabile la sorgente ).
E’ forse una sorta di abbandono,
o connivenza come il trovarmi qui,
in questa trappola dove echeggia forte
il riso, ma dove da stasera qualcosa
è cambiato. Si stanno riscaldando, adesso,
le mie posate.
*
Virata per l’atterraggio
Vista dall’alto la città si snatura
in una luce parziale, arcuata.
( Un emisfero colorato e succoso,
l’altro uniforme, in ombra,
di una gigantesca mela scagliata
verso il cielo ).
*
Il rombo dei camion sulla statale
sembra quello di un sorvolo in avvicinamento.
Giù dalla massicciata scivola sgraziata,
quasi animalesca, la ragazza che non ha traccia
né riva su cui sconfinare.
Curva, esplora i cespugli di biancospino,
guizza tra le fronde basse dei gelsi
inscenando fughe sempre più brevi.
Stracci e odore acre. E uno specchio rotondo
con cui assicura di saper misurare i raggi
del sole.
– E’ così che ho saputo che presto diventeremo
tutti ciechi… – ride beffarda spuntando
da uno slargo del suo labirinto.
Sarà solo molto tardi, alla luce di luna,
che si libererà a un’invocazione docile:
– Fatemi dormire in una stanza fredda -.
*
Hotel Speranza
L’allarme notturno ( una bottiglia d’acqua
in bilico sulla maniglia della porta ) è stato
attivato.
Dal corridoio la luce penetra strisciando
fin sul pavimento della camera.
Poi, lenta, si alza conferendo alle cose
Il loro giusto contorno.
Così ora posso addormentarmi
dietro la rassicurante prospettiva,
a un palmo, della spalla di Catullo.
*
Nel quotidiano esercizio del male
Che cosa ne sappiamo noi di come fa
la sofferenza a scegliersi il bersaglio,
di come fa il dolore a entrare nel
corpo?
Deflagra nello schermo il crogiolo
del fiume ramato: la sua rovinosa
corsa che infrange ogni riva. Ogni riva.
Sembra scesa un’oscurità ovattata,
fuori orario, mentre mi alzo e cambio
stanza.
Non mi va di essere testimone
inascoltato, né tantomeno colui
che inarca la schiena per trattenere ogni
afflato.
Tutto sta diventando più remoto,
o più vicino, come la voce che, di là,
pretende il mio ritorno.
Ma io non sento. Non sento.
*
Bottecchia
Fu durante la notte più livida,
in bici fin sotto le linee nemiche,
che maturò quella pedalata da dannato
che strappa la forza alle gambe.
Per quel filo di vapore o fumo che emanava
in salita e poi per quel sorvolo ininterrotto,
mai liberato prima, divenne Botescià,
il giallo batticuore italiano della Grande
Boucle.
Due stagioni insufflate di aria sottile,
della stessa vertigine che accompagna
la vista delle città dall’alto.
Ma se un traguardo è sempre la promessa,
Vertumno, appena lambito, può decretarne
Il repentino allontanamento.
Così l’agguato, sotto altri cieli, altre
smarrite latitudini.
Sulla strada per Peonis quella sera cadde
una pioggia silenziosa e ostile: gli lavò via
il sangue dal viso.
Lo condusse prodiga nel grembo
della sua seconda notte.
*
Ritorno sui luoghi delle prime avvisaglie
Sarà qui, tra gli irredenti moli
di Peschiera ( la lenza nuovamente
tesa al massimo sforzo, ma ora
respinta dall’orizzonte a vista d’occhio )
o sull’altura silenziosa del Frassino
( lontane le esitanti acque del lago
In attesa del Ponal e il ricordo, pur vivido,
di un trasecolato risveglio ) che avrà infine luogo
il rendiconto sulla vastità di quelle promesse ?
*
Da allora nessuna vista, più,
dalla finestra.
Fuori, un gelo frizzante stemperava
un inequivocabile sguardo di congedo.
*
L’intesa con la parola, la sua
forma essenziale e l’innesto preciso
nel senso verticale del testo,
le città visitate in suo nome,
le sirene affiancate per lunghi
tratti e che non hanno esitato
a parlare di felicità,
gli anni belli del dolce domenicale,
dei quattro commensali fissi, bruschi
nei modi ma repentinamente affabili
se seguiti nel rovello dei loro
discorsi occasionali,
tutto questo, e altro ho avuto,
nel mio giusto tempo, a portata
di mano.
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Tiziano Broggiato è nato nel 1953 a Vicenza, dove tuttora risiede.
Le sue più recenti raccolte di poesia sono: Parca lux (Marsilio, Venezia, 2001) Premio Montale e Premio Unione Lettori Italiani, Anticipo della notte (Marietti, Milano, 2006) Dieci poesie ( Nuovo almanacco dello Specchio n°3, Mondadori, Milano, 2007) e Città alla fine del mondo ( Jaca book, Milano, 2013).
Ha curato le antologie: Canti dall’universo – Dodici poeti italiani degli anni ottanta (Marcos y Marcos, Milano, 1988) e Lune gemelle (Palomar, Bari, 1998).
Sue poesie sono state tradotte, per antologie e riviste, in varie lingue. Da segnalare, in volume, Davancer la nuit ( Edition revue Conference, Trocy en Multien, 2007 – Traduzione in francese di Cristophe Carraud ) e Against the light ( Guernica editions, Toronto, 2012 – Traduzione in inglese a cura di Patricia Hanley e Laura Mosco ).