Nota di Alessandro Fo
Una piccola composizione in versi nasce all’incrocio fra la storia personale, le vicende quotidiane, le sensazioni, le letture, le musiche interiori di una persona. Il punto ‘esatto’ (per quanto lo possano essere le cose poetiche) in cui tutta questa complessità ‘condensa’ un gesto espressivo è quello che chi tenta le vie dell’arte chiama di solito ispirazione. È per lo più questione di un istante: qualcosa come un improvviso convergere di vari fili che traversavano, isolati, la mente, per poi precipitare in inchiostro su un foglio. A me piace pensare che il momento poetico consista appunto nella capacità di fissare la percezione inconsueta che, delle cose, questa finestra schiude quasi a sorpresa. E nella capacità di raggiungere questo scopo in una forma a sua volta inconsueta e stilizzata, ma contemporaneamente autentica e persuasiva. In tutto questo processo agisce naturalmente anche la tradizione, ciò di cui ci siamo nutriti leggendo e ascoltando, ciò in cui ci siamo maggiormente riconosciuti. E queste sono tutte, se si vuole, forme differenti di attenzione: una categoria ritenuta fondante, per il fare poetico, anche nell’appassionata e profonda, così cruciale, conferenza di Elsa Morante, Pro o contro la bomba atomica.
Forse ciò che vorrei dire si coglie meglio in un esempio concreto. Pensavo un giorno per strada alle scarpe di una persona che mi aveva ascoltato con affetto. Scherzosamente gliele avevo criticate: «non sono un po’ da suora?». Ero in un momento in cui alcune vicende personali mi avevano lasciato disilluso, e invitavano a un ‘ricominciare’ la vita, ad afferrarne le proposte, nello spirito della celebre frase di Orazio carpe diem (l’avevo addirittura disposta come ‘saluto’ sul display del cellulare). Mentre camminavo, il carpe della memoria letteraria (e forse anche del telefonino) si sovrappose alle scarpe degli affetti, e mi venne in mente di nascondere la frase dell’antico poeta in un titolo dedicato a quelle scarpe: che così divennero, per forza di fonemi, «di-Emma». Bene, avevo intravisto un titolo, ma come cantare ‘le cose’ che premevano nel pensiero? ‘Vidi’ l’immagine di questa persona, alta e slanciata, nelle sue scarpe invernali (alle mie punzecchiature aveva risposto che però tenevano bene la pioggia). E nello stesso tempo ‘vidi’ lo sfondo invernale e marino, e i pacati dialoghi, dell’ode che impaginava la conversazione fra Orazio e la sua «Leuconoe».
Così le conversazioni della coppia di un tempo si sovrapposero a quelle della coppia di oggi. E le scarpe-monito si fecero, con un’altra espressione di Orazio, «monumento», chiedendo di mutare la loro materia in un altra, più «perenne» del bronzo. Il tutto nel breve giro di un pensiero, e poi di una stesura nata di getto, sulla base di quanto ora affiorava alla memoria di quell’ode: le onde che erodevano scogli, il clima freddo, allegorie di precarietà che per me sfumavano in ricordi di un altro poeta, Angelo Maria Ripellino, e della musica di Mozart ch’era per lui insegna invece di ciò che resta, pure se breve, dell’acino di vita spiccato dal grappolo delle offerte dei giorni. Di solito prendo questi appunti in uno dei quadernetti che, dopo avere ricevuto il primo in regalo, ho negli anni acquistato in lunga serie. Potrei frugare fra i passati calepini e vedere se ritrovo quando fu che nacque questo minimo corto circuito… Ecco sì, c’era, nel Calepino V, a pagina 66: è stato – per curiosità – il 14 novembre 1999. Non sempre il quadernetto l’ho con me, ma quella volta ero quasi sotto casa. Del resto, l’ha spiegato bene Fiorenza Mormile nella chiusa del suo bel libro di poesie Le calibrate spine (Roma, Fermenti 1999, p. 98): «peccato che la smania di poetare/ ti colga quando avresti altro da fare».
Da CORPUSCOLO (Einaudi 2004)
Scarpe di Emma
Parliamo e già se ne sarà fuggito
nella sua invidia il tempo, volto a toglierci
queste minime gioie,
avvoltolarle e frangerle su scogli
come fossero flutti del Tirreno.
Ma, ancorché nere e tozze e religiose,
sbaragliano pozzanghere e entropia
per questi lastricati le tue scarpe,
monumento perenne: le famose
Scarpe di Emma. Come dire: il simbolo
di quanto, saldo, contrasta l’inverno
e impone il balenare della grazia che,
ferma e snella e rapida, si slancia
sopra i tacchi nel cielo,
innestando al coraggio la pazienza
perché, benché spaurita, sia la vita
di nuovo una «piccola musica notturna»
senza chiedersi quanto durerà.
da VECCHI FILMATI (Manni 2006)
Traduvariazione
(da Tom Stoppard, The Invention of Love)
Se io riavessi ancora indietro il mio tempo
presterei maggior tempo
alle poesie di Orazio che, nel tempo,
stavano a suggerirti appena in tempo
che non riavrai mai più indietro il tuo tempo.
da MANCANZE (Einaudi 2014):
Angelo a fine d’anno
(a Maria Teresa Santalucia Scibona)
San Silvestro sigilla ora quest’anno
nel salotto col quadro di Annigoni.
Parla del Signor G., un suo pretendente
che patí le sue brave delusioni,
dell’albero addobbato coi marroni
del parco, ridipinti,
con la stagnola presa ai formaggini.
I sogni ad occhi aperti della figlia
e, tutto insieme, le follie di Rimini
che – detto in un ‘a parte’,
quasi come scusandosene –
«io ero il capobanda»,
ore di gloria, volate in un attimo,
e di quando viveva a San Vigilio
nel garage delle suore.
Tempo che torna. Quieta nostalgia.
Tutto questo era prima,
prima della lunga malattia.
«Mica sono stata tanto buona.
Ora, piano, si espia».
E il diario dei giorni di Marsiglia
(le cinque operazioni), poi Lourdes,
San Giovanni Rotondo…
Fuochi e botti lungo tutto il mondo
(«noi saremo al Teatro Bianchini,
tra i lenzuoli e i cuscini»).
Cosa c’è di piú fatuo?
Angelo Anna
…lei pregava «benedetta fra tutte
le donne». Sulla sua mano sinistra
si accavallava all’anello nuziale
l’altra fede, piú grande,
e quasi l’abbracciava; ma al contempo,
scendendo obliqua, evocava una croce.
Pare che Dio (secondo San Giovanni)
poti quei tralci che già danno frutto,
per ottenerne maggior frutto ancora.
da CARA SANTA LUCIA…, III edizione, a cura di Alessandro Bottelli, Atti della manifestazione tenuta a Bergamo il 13 XII 2014 (in preparazione).
Angeli di mani e sguardi (parla Olga)
13 dicembre 2005,
Santa Lucia
L’ho conosciuta a un corso:
«scegliete una compagna, e
presentatevi, ma senza parlare».
Scelsi subito Anna,
per quello sguardo strano
defilato in un canto
(per lei era diverso
«non ti avrei scelto mai
– mi ha confidato poi –: troppo estroversa»).
Pensavo a come fare,
la guardavo.
Anna in silenzio mostrò le due fedi,
sovrapposte attorno all’anulare
poi, con l’indice e il medio,
prese a tracciarsi, lento, giù dagli occhi
lungo le guance un rigo di pianto.
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Alessandro Fo (Legnano, 8 febbraio 1955) insegna Letteratura Latina all’Università di Siena. Ha tradotto e curato: Rutilio Namaziano, Il ritorno, Einaudi 19942; Apuleio, Le Metamorfosi (Einaudi 20102) e La Favola di Amore e Psiche (Einaudi 2014); Virgilio, Eneide, con studio introduttivo, nella «Nuova Universale Einaudi» (note di Filomena Giannotti, 2012; lettura integrale del poema in http://www.einaudi.it/speciali/L-Eneide-letta-da-Fo). Si occupa anche di fortuna letteraria dei classici (ha studiato in tal senso soprattutto Virgilio, Orazio, Ovidio e Rutilio Namaziano) e di letteratura italiana contemporanea (specialmente Angelo Maria Ripellino, del quale ha curato, con Federico Lenzi, Antonio Pane e Claudio Vela, tutte le poesie in due volumi rispettivamente di Aragno e Einaudi, e varie altre edizioni). Libri di versi: Otto febbraio (Scheiwiller 1995); Giorni di scuola (Edimond 2001); Piccole poesie per banconote (Polistampa 2002); Corpuscolo (Einaudi 2004); Vecchi filmati (Manni 2006); Mancanze (Einaudi 2014). Collateralmente: Il cieco e la luna. Un’idea della poesia (Edizioni degli Amici, 2003).