Stefano Bortolussi, “Califia”

 

bortolussiCalifia è un libro che la nostra poesia d’oggi aspettava. Necessario, augurale. Bortolussi qui fonde lirica ed epica in un poema potente, di ampia e profonda risonanza. Califia è il primo nome dato alla California da Cortés, toccando le rive di quella terra, convinto che fosse un’isola: la battezzò così in onore di una leggendaria regina di donne guerriere in un’isola immaginaria dell’oceano indiano.

Califia è una sorta di “viaggio a Occidente” mentale e poetico, un “tutto” poematico e in parte drammaturgico, un’immersione nel profondo di una terra vista e vissuta come luogo di meraviglie e ierofanie, in cui mito e contemporaneo si fondono: il surfer, il povero migrante messicano vittima sacrificale dal coguaro,  la musica West Coast anni Sessanta il grande regista Billy Wilder che assume la voce di Coyote, nella realtà atemporale, incantante di questa Atlantide americana. Le Metamorfosi di Ovidio, lo sciamanesimo degli indiani d’America, l’ombra di Hart Crane, il poeta del ponte di Brooklin, la lezione di Ritsos, Walcott, pochissimi altri autori “poematici” del nostro tempo, animano, in un respiro internazionale, una versificazione pacata e ardente, ventosa e narrante: un’indicazione di rotta per i poeti delle nuove generazioni: “-perché come mi ha dettato questa terra,/come di questa terra hanno scritto i suoi poeti,/ io sarò il viaggio, il viaggio sarà me.”

 

ROBERTO MUSSAPI

 

Forse questo andare senza muoversi,

liberato da trappole di tempo e di spazio,

finirà per rispondere meglio agli sparsi residui

del mio afflato esploratore –

e arriverò meglio, con più precisione di una stringa

di coordinate numeriche, a una destinazione

che per ora sento bello non conoscere.

E se nello slancio del cammino, nel volo,

dovessi virare senza averlo deciso

dalla Ciudad de la Iglesia de Nuestra Señora de Los Angeles

alla Manhattan settembrina di O’Hara,

e se dal ponte di Crane dovessi tuffarmi

fra i grandi squali bianchi delle Farallon,

non ci sarà nessuno a dirmi che è impossibile

o anche solo a suggerire che è improbabile

– perché come mi ha dettato questa terra,

come di questa terra hanno scritto i suoi poeti,

io sarò il viaggio, il viaggio sarà me.

 

 

 

Qui la terra è fatta per essere percorsa

all’infinito, senza lasciarsi abbagliare

da miraggi di destinazione o attendere

il verde superfluo dei semafori

– segui docile le curve di Mulholland

sulla striscia serpentina dell’asfalto

dove i sonagli vibrano dalle pareti calde di chaparral,

rallenti e svolti alla traversa che più sembra

promettere un arrivo e ti ritrovi

sulle colline delle figlie di Mnemosine

(non sono più soltanto nove, ti è difficile contarle,

se ne aggiungono di nuove a ogni nuova produzione):

la ladra cerbiatta è sfuggita alle sirene della fama

in qualche gola meno slanciata della sua,

ma a illuminare le sere di abbandoni

ci sono le altre, nascoste dietro i titoli di testa:

cangianti, multiformi, luminatrici di schermi

                                                             e di pensieri.

 

 

Oggi sembra che nasca tutto qui,

che da qui si debba riprendere ad andare,

da queste, fra queste pietre di millenni,

enormi scorie in attesa del Big One

piantate nella sabbia che Oceano mescola e setaccia

come a cercare l’oro del tempo

o il segreto di come sopravvivere all’oggi.

Altri tempi, diversi, hanno battezzato questo luogo:

Malibu, là dove risuonano i frangenti;

El Matador, l’uccisore di tori che ora si rifanno

caricando la costa a corna basse

con questa grande mareggiata da sud-ovest.

Arrivarci sembrerebbe difficile,

proibito addirittura, se non fosse per l’idea

che l’oceano da sempre detta agli uomini,

veri o di carta, che ci hanno fatto amare questo mondo:

partire sempre, senza domandarsi verso dove:

partire verso il dove.

 

 

 

 

Bruciano le ferite della terra che conducono al mare,

e la domanda si fa più rovente ancora della fiamma:

quali pensieri, se chiamarli tali è possibile,

avranno sfiorato per qualche irrimediabile secondo,

distratte dal ricordo del tuffo perfetto e tagliente

nella superficie specchiata della cava

la sera prima o quella prima ancora nell’estate,

le menti raccolte in ordine sparso nella cerchia

attorno a ciò che non poteva che apparire proibito?

Quale seduzione della corsa incoata all’azione

può averli spinti a strofinare il legno secco sulla pietra,

a rigirarlo fra le palme quasi unite delle mani

fino a vedere l’istante di luce, fino a udire

lo schiocco irritato che chiunque aveva loro insegnato

a rifuggire? Ma forse ha poco senso interrogarsi,

mentre si sorvola la distesa in fiamme

scorgendo in basso il profilo d’ombra delle ali

che scorre quasi inutile, leggero

quasi avesse paura di scottarsi,

sui motivi dei figli che come quello che fu il primo,

Fetonte di Apollo e Climene, si abbagliano alle scintille

dell’impresa e non vedono, già vive ma bluastre,

quasi trasparenti di calma e discrezione,

le prime delle lingue roventi che verranno:

forse il tracciato di stoppie nere e di carbone

che la terra ha sempre ereditato è parte,

condizione del suo ripresentarsi, il giorno dopo.

 

 

La colazione di Afrodite al Neptune’s Net

 

Sono pochi i testimoni nella rete di Nettuno

quando percorre di taglio l’ultima onda,

sfiorandone con le dita la parete verde

mentre l’altra mano, tesa all’infuori,

sembra imporre una pausa di attesa

alla vita che incrocia al di sotto, non vista;

 

pochi la vedono scivolare di lato, lustra

del suo stesso elemento, e in un solo gesto

abbracciare la lunga tavola di legno bucato

(è una kook box Hawaiian Hollow del ‘41,

rossa, pinna singola, due strisce avorio e arancione)

e sollevarla dalla schiuma che ricama County Line

 

come se il vecchio Tom Blake nel crearla avesse provato,

per ingraziarsi la cliente immortale che si aggirava

intenta fra cataste, banchi, pialle e vernici,

a forgiare il modello perfetto, capace di imporre

la sua sagoma sull’onda ma pronta a lasciare

all’acqua il proprio peso, docile sotto quello divino.

 

Non indossa il nero a proteggere le forme

della propria perfezione, tanto che nel momento

che l’occhio impiega a riconoscere realtà

in ciò che sembra immaginare la chiara nudità

della figura appare completa, e tanto più

numinosa quanto più esposta alle commosse

 

attenzioni dell’astro, agli arabeschi di pigmento

disegnati sul candore inumano della pelle,

alle fragili incrostazioni saline che tracciano

piccole repliche d’onde su una peluria

altrimenti invisibile, donandola all’occhio

abbagliato di chi non riesce a distoglierlo.

 

Avanza così verso la lingua sterrata davanti

alla veranda, la tavola ancora redolente di mare

lungo il fianco ondulato a clessidra dal capriccio

delle forme appena nate e rimaste nel tempo,

unità di misura dell’incanto che appartiene

da sempre a chi la vede arrivare, controluce.

 

Di fronte all’ingresso, accavezzate all’invisibile,

si pavoneggiano le creazioni biruote dei giganti

in pelle nera, irsuti di petto e ventre sfrenato,

le teste a prima vista rovesciate tanto è perfetta

la simmetria di assenza e abbondanza pilifera,

l’unisono rombo dei motori il loro saluto di rito;

 

nello spiazzo di lato alla cucina, insieme

ai cassonetti preda di quadrupedi notturni,

un’ombra così vasta e materica che potrebbe

far pensare al Minotauro soffia un refolo grigio

di Camel senza filtro verso la grazia bianca

in cammino, come a volerla carezzare con prensili

 

appendici di fumo: ma la brina continua a coprirla,

carezza insistita dei sargassi, e fa scivolare innocuo

tutto ciò che prova ad avvolgere stringere ghermire

colei che ora si offre di spalle, guizza le scapole

come creature nascoste sottopelle, si passa le dita

sui capelli accesi di rame e intagliando

 

un ultimo profilo indelebile nell’aria si lascia

inghiottire dal buio fragrante che le è noto,

e che ogni mattina la regala all’umano.

 

 

L’innato autolesionismo del plantigrado

 

                                                        You’re not human tonight, Marlowe.

                                                                       Raymond Chandler

 

I.

Il giorno sembrava uno come tanti,

il vento caldo si era speso nello sforzo vano

di riportare in città la sabbia di Padre Deserto,

riuscendo a irritare perfino le fate morgane

ormai stanche, tremule di dubbi e pentimenti,

e il sole celato dietro le fronde del Chateau

pareva quasi offeso, come sfiorato dall’idea

di mai più sorgere dai monti né calarsi in mare,

tracciando un arco nuovo. A pochi metri,

nel rettangolo azzurro di svaghi e bracciate,

padre e figlia giocavano al tè delle cinque

nel cloro sotto la luce screziata in superficie,

i loro corpi bianchi spezzati e ricomposti

in gesti nuovi, il mulinare lento delle gambe

come un’antica ripresa a passo-uno.

Oltre la curva del sentiero il profumo di eucalipto

consolava l’autore disilluso di turno,

e nella stanza/ufficio una mosca giocava esperta

con i miei ultimi brandelli di pazienza,

ronzando di sprezzo per la decadenza del detective

da stella dell’indagine a volo di falco

fra canyon e turrite magioni a orso sornione

d’albergo, procione rovistante nei rifiuti,

parassita ciondolante fra stanze e corridoi.

Basti questo, in sede di presentazione,

per dipingermi nello stato meno disposto

all’emozione: nulla, pensavo, sarebbe riuscito

a riscuotermi da una primavera in cui

per la prima volta mi sentivo stanco e vecchio.

 

II.

Ma a quanto pareva non avevo fatto bene i conti

con me stesso: dalla somma totale mi era sfuggito

qualche sparso fattore decimale, una frazione o due,

forse l’eccezione alla regola algebrica del sé:

il moto reattivo del capo nell’udire una frase,

lo scatto d’orgoglio del mento sollevato al ricordo

di quando mi trovavo nel punto più alto di Mulholland

e dominavo la distesa di liquide luci e cartongesso.

Nei conti, se mai li avevo fatti,

non avevo neppure inserito la variabile,

non ancora impazzita ma ben lanciata sui tornanti

del senno perduto, che la frase sarebbe uscita

dalle labbra di una rossa di miele d’acacia,

di cui il plantigrado è famosamente ghiotto;

e che le stesse labbra, pronunciata la richiesta d’aiuto,

si sarebbero atteggiate a calamita finché

non vi avessi apposto le mie di cavalier stanziale,

per infine staccarsi e intonare un numero di stanza.

Scordavo, seguendola come orso balcanico al guinzaglio,

che miele ai piedi di queste colline è sinonimo

di trappola più ancora che sulle alture inabitate.

Era infatti dei loro, la rossa viscosa di succori

e sguardo verde; ma non badai al segnale

universale di pericolo, scegliendo di correrlo

o meglio dalla corsa facendomi scegliere,

bendato da ciò che vedevo e da nient’altro

– e a loro finii per essere condotto.

 

III.

Se quello era il luogo in cui nascevano i sogni,

doveva essere perseguitato dall’insonnia:

nulla di più lontano da ciò che ti proietti

appena prima che lo spettacolo cominci,

di ciò che immagini prima ancora delle immagini.

Parola loro: “L’incarico che fa al caso suo”.

Parola mia silente: un’impresa impossibile

nella terra dove tutto è possibile – tranne forse,

visti i tempi, e i volti, e il linguaggio corporeo

dell’onnipotenza sconfitta, ciò che sembrava perduto

e che avrei dovuto per mandato ritrovare.

Storie smarrite, storie esaurite, storie arrese e spente:

il panico si era diffuso nella città di luci e lustrini

come fuoco acceso dal briccone dei venti,

ma senza fare terra bruciata, piazza pulita,

salutare distesa di ceneri da cui nasce il nuovo;

aveva seminato una calma piatta d’inazione

e abbandono, il lato opaco della dubbia moneta,

l’arroganza: si stendeva sui finti vicinati

degli studios come lustra macchia di grezzo

sull’oceano, tarpando di nero le ali di chiunque

tentasse un volo di scene, battute, dissolvenze.

Storie scomparse, prosciugate come gli agrumeti

di Pomona e Pasadena sacrificati all’inumana sete

della Signora degli Angeli: e yours truly,

pena un’improvvisa siccità di secondi e terzi atti,

avrebbe dovuto sguainare artigli e astuzie

e riportarle a chi le immaginava proprie,

badando bene a salvarne gli inizi, i finali

e già che c’era anche le soffici parti intermedie.

 

IV.

Avessi avuto capacità di divinare, la stessa

che sembrava disertare i numi degli uffici

dove l’aria si faceva rarefatta, mi sarei ritratto

fra le mura diroccate del Chateau, sollevando

il ponte levatoio di una scusa: sciatica, Tourette,

disturbo bipolare, avevo l’imbarazzo della scelta.

Per chissà quale atavico motivo non lo feci;

mi tenni i malanni che già sgomitavano

in cerca di primato e vi aggiunsi

la massima afflizione del detective,

il caso maledetto. E quando finalmente,

privo delle risposte pretese, presentai rapporto,

già sapevo che ne avrei risposto di persona

a un tratto non grata, e che come da copione

in questa città non avrei più lavorato.

Per i miei peccati ero incappato senza volerlo

nel vero, nel segreto nascosto nel pieno del sole

a occidente: se le storie non abitavano più qui,

non significava che fossero perdute:

stanche di ripetersi, prive ormai di voce,

si erano arrese e consegnate al vento, alle onde,

alle rocce, alle fughe da vertigini dei passi,

alle verginali aperture dei canyon;

non erano più qui ma tutt’attorno,

presenti a chiunque sapesse riconoscerle nel giorno.

I numi essendo numi, non reagirono da umani:

dalla cima del loro monte di acciaio e cristallo

mi bandirono con l’accusa di furto di fabula,

seguito dalla rossa sciolta in miele:

il miele che ora, erto su nuove zampe posteriori,

sono coartato a lappare senza tregua

– ormai storia anch’io fra tante, voce

fra voci che dicono a chi sente:

“Ascolta quello che ho da raccontare”.

 

____

Stefano Bortolussi, poeta, romanziere e traduttore, è nato a Milano nel 1959.
Ha pubblicato tre romanzi, Fuor d’acqua, (peQuod 2004), uscito prima ancora negli Stati Uniti con il titolo Head Above Water (City Lights Books 2003, traduzione di Anne Milano Appel), Fuoritempo (peQuod 2007) e Verso dove si va per questa strada (Fanucci 2013) e tre raccolte di poesie (fra cui Ipotesi di caldo, Book Editore 2001), la più recente delle quali è Califia (Jaca Book, 2015).
Il suo poemetto “Il moto ondoso del cercare” è stato incluso nell’antologia Bona Vox, curata da Roberto Mussapi (Jaca Book, 2010).
È co-autore di due serie di libri per ragazzi (Le indagini di Dick Rabbit e Le avventure di Miss Marmot, Dami Editore/Giunti).

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