Renzo Favaron, “Balada incivie, tartufi e Arlechini”

baladaincivieNota di Arnaldo Ederle

Renzo Favaron ricompare in libreria con un suo nuovo libro intitolato Balada incivie, Tartufi e Arlechini (L’arcolaio, pagine 109, 12 euro) una raccolta che comprende, oltre ad una lunga diatriba che riguarda la sua vita e il suo lavoro, una serie di poesie lunghe che ricordano la struttura del poemetto, un genere poetico finora comparso raramente nelle sue composizioni. Favaron ha sempre preferito la lirica di misura tradizionale, cioè breve folgorante anche se talvolta questa misura si è presentata più complessa e spesso frammentata in strofe, fin dalla sua prima raccolta, cioè da Presenze e conparse del 1991. Mi sembra questo cambiamento di struttura una novità interessante perché affianca una tendenza abbastanza comune tra le scritture dei vari poeti italiani di questi ultimi anni.

I temi infatti trattati in questo libro non sono propriamente i temi della lirica in senso stretto «Nino, forse pa’l’ultima òlta torno/ al me dialeto pà’ sentire vive/ le robe morte tacà a la to boca/ – mi che cò sero i oci/ so simie a ti e no te strinzho pì,/ strinzho na facia de lagreme/ che no pianzhe», sono temi, come quello appena citato, che riguardano la vita del poeta e quella della sua terra, dei suoi concittadini, dei dolori e dei gravi e meno gravi problemi sentimentali o della dura esistenza che porta alle lacrime.E d’altra parte è lo stesso titolo del libro che indica palesemente questo progetto. «Se penso a la me storia, no penso/ in Talian, ma in diaeto». Ecco, anche in questi due versi un’altra affermazione chiara che riguarda le sue naturali tendenze linguistiche.E’ questa una cosa che, in tanto tempo che lo seguo, ho sempre pensato e della quale sono quasi sicuro. Una sensazione che ho cominciato ad avvertire fin da Presenze e conparse, il primo libro che ho letto con molto interesse e che ho recensito con grande piacere lusingandomi di aver trovato un poeta vero e capace di impersonare la poesia veneta nel più alto dei modi: «No’ gero de pì de de ‘na gaìna./ Anzhi, me saria piazhesto essere/ on papavaro, rosso in mazho al fromenton/ zhalo, cofà co gironzolavo/ in-te ‘na strada bianca, arginae/ e a destra e a sinistra ghe gera el velo d’i salgari/ a far da angei custodi al me canae».E’ vero che anche nelle traduzioni in lingua italiana le sue espressioni non fanno una piega, ma è anche vero che i suoni del dialetto infondono nella sua poesia una sonorità particolare, assai realistica, un po’ dura come in tutti i dialetti, ma che colora i suoi versi di quella autenticità propria di queste lingue come raramente sa fare una lingua nazionale. Dunque ben venga il dialetto con il suo patrimonio naturale, spontaneo e pieno di colorature ora secche, ora dolci e piene di ricordi e di rintocchi antichi come quelli che sgorgano dai bei versi di Renzo Favaron.

(Recensione pubblicata su “L’Arena” di Verona)

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ESTRATTI

L’eternità xe curta

Te dovarissi vedar
come che se speta ‘na paroa.
On fià se fa finta
de dormir, on fià de lezhare.
Se fuma.
Soratuto no’ se fa gnente.
El giorno no’ xe pì giorno,
cualche òlta ‘riva on raio de sol,
cofà se ‘l fusse ‘na piera.
Gnanca se se sposta.
No’ serve tirar zò el dolor
co’ nantro dolor.
El corpo resta dó òlte segnà.
E forse no’ xe da ti
che deve vegner ‘na paroa.
Dio gà i so tenpi.
Par nu l’eternità xe curta.
Copie de Cristo
a la cuindicesima stassion
no’ crocefisse ma ben o mal
pì sole, descantae.

Cussì se speta.
Anca gnente,
che no’ xe pezho
de scoltar on sòno de lata
in-te on vaso dorà.
Sì, no’ paga mai
doparar ‘na lengua morta.

***

L’eternità è corta

Dovresti vedere
come si aspetta una parola.
Un po’ si fa finta
di dormire, un po’ di leggere.
Si fuma.
Soprattutto non si fa niente.
Il giorno non è più giorno.
Qualche volta giunge un raggio di sole,
come se fosse una pietra.
Neanche ci si sposta.
Non serve diminuire il dolore
con un altro dolore.
Il corpo resta due volte segnato.
E forse non è da te
che deve venire una parola.
Dio ha i suoi tempi.
Per noi l’eternità è corta.
Copie di Cristo
alla quindicesima stazione
non crocefisse ma lasciate
più sole, disincantate.

Così si aspetta.
Anche niente,
che non è peggio
di ascoltare un suono di latta
in un vaso dorato.
Sì, non paga mai
usare una lingua morta.

Da:  Balada incivie, Tartufi e Arlechini , di Renzo Favaron, Edizioni L’arcolaio, 2015 (12 euro)

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Renzo Favaron è nato nel 1958, vive e lavora a San Bonifacio (Vi). Dopo un’iniziale plaquette in lingua, nel 1991 pubblica in dialetto veneto Presenze e conparse, con una prefazione di Attilio Lolini. Del 2001 è il romanzo breve Dai molti vuoti. A partire dal 2002 pubblica alcune minuscole plaquette presso le edizioni Pulcino-Elefante. Nel 2003 pubblica Testamento (nota di Giani D’Elia), un’altra raccolta di poesie in dialetto, nel 2006 Di un tramonto a occidente e nel 2007 Al limite del paese fertile (postfazione di Alberto Bertoni). Il racconto La spalla è del 2005. Del 2009 è In cualche preghiera (postafazione di Giancarlo Consonni). Segue nel 2011 Un de tri tri de un (nota introduttiva di Giovanni Tesio e postfazione di Lorenzo Gobbi), che raccoglie venti anni di poesia in dialetto. Del 2012 è Ieri cofa ancuò (nostos par passadoman). Il racconto Esordi Invernali è del 2014.

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