Dalla prefazione
di Giancarlo Pontiggia
Bisognerà iniziare dall’epigrafe agostiniana per comprendere questo nuovo – essenziale, lucido, pietoso –libro di Pasquale Di Palmo, uno degli autori più parchi e intensi della sua generazione: «Quale uomo farà intendere ciò ad un altro uomo? Quale angelo a un angelo? Quale angelo a un uomo?». […]
Fin dal titolo, Trittico del distacco ci immette dunque nella materia più oscura e paurosa della vita di un uomo: il tempo in cui dobbiamo lasciare le cose del mondo, discendere «in un gorgo / che sempre più ti attira / verso il fondo / verso il fondo / verso il fondo», come leggiamo nell’undicesima stazione della seconda sezione (Centro Alzheimer), interamente dedicata al padre del poeta. La triplice iterazione del verso, qui, intensifica il tema del distacco, acuendo – con i toni spogli e severi tipici della poesia di Di Palmo – l’ineluttabilità dell’evento. Eppure, a ben guardare, i due sostantivi di questi versi («gorgo»; «fondo») – il primo dei quali ricorre in un verso di Sbarbaro («mi basta sul gorgo sentire che esisto»), già posto da Pasquale Di Palmo in esergo a Horror Lucis – non esprimono alcuna speranza di futura quies. Né in tutto il libro potremmo trovare un solo termine che alluda alla salvezza: morire non è altro che un rientrare in seno al corpo della natura da cui tutto venne, e al quale tutto ciclicamente si volge, «laddove non esistono che nuvole / ignare di ogni nostra parentela» (Centro Alzheimer, X, 18-19). E ancora nella prima parte del Trittico, Mirco, il cugino che non ha saputo (forse voluto) «guidare / la vita», non può che discendere «lungo il sentiero arioso che conduce / dove – ma non per noi – / farnetica la luce»: e già quell’aggettivo («arioso») pare molto, a chi, scrivendo, è riuscito per forza di augurio a trasformare il «cane nero» dei morti in un animale mansueto, privo della laida terribilità del Cerbero dantesco.
All’epigrafe agostiniana viene dunque accordato il solo compito di serbare viva, nell’ignoranza delle cose che stanno di là dalla vita, l’ansia di un mistero che si traduce, umanisticamente, in pietas, in un esercizio di misericordia tutta umana. Ma la potenza conoscitiva, il riverbero mistico delle parole di Agostino gettano sui versi che seguono una luce drammatica, corrusca, che li intensifica, posto anche che quell’epigrafe fosse da leggere in senso angoscioso, antifrastico.
Nel primo dei tre «addii» – Trittico degli addii era il titolo originario dell’opera –compaiono luoghi e paesaggi (tra terraferma e laguna veneta) che già abbiamo incontrato nei libri precedenti di Di Palmo, e che costituiscono la sua geografia umana e memoriale. L’andamento è insieme lucido e allucinato, ma la lingua più povera, volutamente semplificata rispetto alle raccolte precedenti, forse sulla scorta dell’ultima sezione – un linguaggio da referto – di Marine e altri sortilegi (Gli annegati). Le figure che ci vengono incontro, a cominciare dallo stesso Mirco, protagonista eponimo della sezione, vivono in uno stato di marginalità che acuisce il senso di spaesamento dei luoghi, denunciando una comune condizione di smarrimento, se non di infelicità. Nondimeno, sono proprio loro, gli emarginati della vita e della storia, «che dovrebbero / avere di noi compassione» (Down), come leggiamo nella quarta poesia della sezione. Gli elementi naturalistici – così significativi nella poesia di Di Palmo – risultano interiorizzati, e determinano la tonalità dominante dei versi, suggerendo un senso di incertezza esistenziale. «C’è il sole, piove»: così, nella nudità del dettaglio, si conclude il primo dei tre addii.
Proprio una di queste annotazioni atmosferiche («un ricciolo di sole») congiunge la prima alla seconda sezione, quella dedicata al padre: il ricciolo di sole che spiove sulla testa «poco più grande di un pugno» di Danilo, è lo stesso che «affossa» il pallore dell’infermiera preposta alle cure del padre nel primo dei quindici componimenti (incorniciati da due commoventi poesie in dialetto) della suite, forse con una memoria di quel sole che «si corona di spine» che già leggevamo in Horror Lucis (Qui, sotto i falansteri di Dolomieu), o delle «vaghe stimmate di sole» di un’altra poesia di Marine e altri sortilegi (Perdersi tra le officine come in un incubo). E «in un sonno di spine» già vorticavano le foglie nell’ultima strofa di Marco. Come giustamente annotava, quasi vent’anni fa, Stefano Strazzabosco nell’introduzione a Quaderno del vento, le parole di questo poeta che non a caso si è formato sulle scritture ossessive e brutali, spesso patologiche, di Artaud e di Michaux (ma anche sulle pagine, espressionistiche e visionarie, di uno Sbarbaro o di un Rebora), «vengono percepite nel loro essere attraversate da ferite e traumi ricorrenti». Eppure, in queste pagine che stanno al centro del libro, è la tenerezza a prevalere nel rapporto di un figlio «diventato padre di mio padre», di un padre «diventato figlio di tuo figlio» (X, 1-2). «Adesso ti xe un albero, papà, / un albero grando / sensa nome / dove le seleghete va a ripararse / quando ghe xe vento / e la vita se desmèntega de la vita»: così il prologo in dialetto – la lingua paterna – introduce il tema-chiave della sezione, forse del libro stesso: in quel desmentegar non è solo il destino del padre, e di tanti come lui rinchiusi nel Centro Alzheimer del titolo, ma è anche il ritmo della natura stessa. In quel padre che diviene albero, «uno de quei alberi / che no gà più bisogno de niente», in quella perdita di nome e di parole intellegibili, in quella inconsapevolezza (XII, 7-8) della vita che si abbatte su di lui come sui suoi compagni, è come se si affermasse una legge di natura di cui l’uomo è solo una patologica – provvisoria – eccezione. Allora – ed è la parte più sorprendente, irragionevolmente felice del libro – sono proprio le immagini metamorfiche (il «microscopico insetto» che sta nel pugno del figlio di VIII, 8; la «voce di nebbia» di X, 15; i pensieri «che scampa come bisse sora l’erba» del componimento conclusivo) a scandire in successione il destino del padre, sottraendolo al dolore dei figli, allo strazio di chi non può che assistere sgomento a quella fine, e intonare, sul motivo tradizionale dell’ubi sunt, un catalogo di «impagabili / comparse» (V). Così che proprio all’apparizione, improvvisa ed epifanica – quasi un talismano – di una volpe, nella seconda poesia della sequenza, è dato il compito di annunciare una fine temuta, certo liberatoria.
La terza ed ultima sezione del libro, I panneggi della pietà, integralmente in prosa, ripropone – con minime varianti – pagine già apparse in Ritorno a Sovana, corredate da alcuni inediti. Ma è significativo che la poesia che là iniziava, qui sia posta in conclusione, quasi un sigillo a tutte le poesie che abbiamo letto: la felicità è degli «ebeti», di coloro che rinunciano ai «mulinelli» del pensiero per coincidere fino allo spasimo con ciò che accade, fino a «penetrare nella cordigliera del sonno, senza più voce, finalmente muto». A questo lasciare che le cose siano, che tutto ritorni natura, fiato inconsapevole del mondo, corrisponde nondimeno, nelle otto prose che precedono, un viaggio della memoria fino alle origini della vita stessa, come in quel fantasticare intorno alla foto che ritrae i genitori – la mamma già incinta – il giorno delle nozze in San Francesco della Vigna, a Venezia: anche lui – lo scrivente di molti anni dopo, quando tutto pare essersi consumato, o sul punto di consumarsi – era già lì, ma nella veste, invidiabile, di coloro «che non sanno» (come Franchino il portiere – «statua svettante nella canicola di un giorno imprecisato di un’estate del ’67 o del ’68» – di una prosa successiva), prima che tutto accadesse, prima di ogni partita e di ogni cielo, prima di ogni memoria.
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“Trittico del distacco” di Pasquale Di Palmo, Prefazione di Giancarlo Pontiggia, Postfazione di Maurizio Casagrande, Passigli, 2015 (euro 12,50)
Da Centro Alzheimer
I
Rispondi a monosillabi, non parli
quasi più. Due laghi desolati
gli occhi, sempre più piccoli
e inespressivi. A malapena ti reggi
in piedi in questo dedalo di reparti
e corsie, tra uffici e mense
dove spettri di inservienti trascinano
come enormi testuggini i carrelli
dei medicinali, le carrozzine degli anziani.
Sempre più magro e smarrito, con quegli
occhietti implori una fine, un inizio
che possa salvarti da un altro ictus,
dall’infermiera che saluta con garbo
nel corridoio mentre un ricciolo
di sole affossa il suo pallore.
Tendi il collo con l’espressione di un fossile
guardando il verde e il viola del giardino,
questo vento che fa dondolare i rami
preannunciando un aprile sempre
più offensivo. « ’notte, pa’.»
II
La notte prima della tua scomparsa
ho rischiato di investire una volpe
con la mia Opel, in via Ca’ Paliaga.
È apparsa come un lampo
bianco e cremisi, la stessa
improvvisa evanescenza di un fuoco
fatuo nell’oscurità.
È apparsa all’improvviso
come una stigmate su un palmo,
lo sfregio di una lama su un bel volto.
E proprio quell’animale estraneo,
a suo modo araldico,
doveva annunciarmi,
ebbro di sventura, che saresti
l’indomani soffocato
nel bozzolo stesso del tuo fiato.
Chissà se, nel tuo letto di ospedale,
la notte prima della tua scomparsa,
sempre più piccolo e indifeso,
hai sognato una volpe
che mi attraversava la strada.
VI
Perché tendevi sempre a denudarti,
a strapparti la maglia, il pannolone
di fronte a tutti, senza alcun ritegno,
gli occhi bramosi solo di caligine?
VII
«E adesso cossa femo?» ripetevi
fissandomi con gli occhi stralunati,
seminudo, le gambe di un poppante,
tu che sapevi solo respirare
o reclinare ingobbito la testa
sul carapace della carrozzina.
VIII
Ti sei rimpicciolito,
mi stai dentro una mano.
Sguardo di pantegana
vivacità di gnomo
che ha perduto il vessillo della barba.
Io nato dai tuoi lombi
ti tengo nel mio pugno,
microscopico insetto
felice di sgusciare per un poco
dalla vertigine del letto.
IX
Papà, il nostro dialogo
è fatto di silenzi
e ammiccamenti
di accenni e vuoti assensi
mentre a un tavolino di caffè
in una fredda giornata di aprile
ti imbocco come un bimbo
sotto un cielo che ha tinte di gheriglio.
Tu, nel baccello della carrozzina,
diventatomi qui,
appena nato,
parvenza di figlio.
X
Io, diventato padre di mio padre.
Tu, diventato figlio di tuo figlio.
Ti lavo ti sfamo
ti accudisco.
Mangi, come un cane,
dalla mia mano.
Non articoli che poche
parole intelligibili
scandite in corone
di frasi senza senso.
Parole che somigliano al silenzio.
Mi guardi e ti guardi.
Con quegli occhi
sempre più piccoli e smarriti
mentre la tua voce di nebbia
mi esorta febbricitante a portarti
– «andemo dài andemo» –
laddove non esistono che nuvole
ignare di ogni nostra parentela.
XI
Te ne stai andando senza una parola
di addio, una smorfia per congedarti
dai figli che ti attorniano,
gli occhi perduti in un gorgo
che sempre più ti attira
verso il fondo
verso il fondo
verso il fondo.
A mezzanotte non ci sarai più.
XIV
Ora che non ci sei più
tocca a te, papà,
assistermi dall’alto.
Indirizzare i miei passi
come quand’ero bimbo,
insegnarmi sull’erba a camminare.
Ricominciamo, tienimi
per mano, fa’ che ti sia,
in un’altra vita,
di nuovo figlio.
XV
Questo l’inventario dei tuoi poveri beni:
un mucchio informe di capi
di vestiario, di tute slabbrate
che lasciamo a malincuore
ai tuoi compagni dell’ospizio,
un paio di pedule in stoffa
più grandi perlomeno di due numeri,
un rasoio elettrico mal funzionante
che faceva miracoli sulle tue guance
congestionate, sul tuo mento appuntito,
il dopobarba che ti ho regalato
per l’ultimo anniversario,
un piccolo orologio senza valore
che per te non segnava alcun tempo.
Non un biglietto, non una parola.
Da anni parlavi una lingua
che non è fatta di parole.
Pasquale Di Palmo è nato al Lido di Venezia nel 1958. Ha pubblicato le raccolte di poesie “Quaderno del vento” (Stamperia dell’Arancio, 1996), “Horror Lucis” (Edizioni dell’Erba, 1997), “Ritorno a Sovana” (Edizioni L’Obliquo, 2003), “Marine e altri sortilegi” (Il Ponte del Sale, 2006) e varie plaquettes, tra cui “Addio a Mirco”, con illustrazioni di Pablo Echaurren (Il Ponte del Sale, 2013). Sue poesie sono apparse in numerose antologie e riviste, tra cui «Nuovi Argomenti», «Paragone» e «Poesia». Ha stampato i saggi “I libri e le furie” (Joker, 2007) e “Lei delira, signor Artaud. Un sillabario della crudeltà” (Stampa Alternativa, 2011). Ha curato e tradotto diversi volumi, tra cui opere di Artaud, Corbière, Daumal, d’Houville, Gilbert-Lecomte, Huysmans, Metz, Michaux e Radiguet. Ha inoltre curato “I surrealisti francesi. Poesia e delirio” (Stampa Alternativa, 2004), “I begli occhi del ladro di Beppe Salvia” (Il Ponte del Sale, 2004), Neri Pozza. “La vita, le immagini” (Neri Pozza, 2005), “Saranno idee d’arte e di poesia. Carteggi con Buzzati, Gadda, Montale e Parise di Neri Pozza” (Neri Pozza, 2006), “Album Antonin Artaud” (Il Ponte del Sale, 2010).
Ho sentito questi versi oggi a Fahrenheit e ho ricordato che erano leggibili sul blog. Meritano un’attenzione particolare. Grazie.