Giuseppe Carracchia, “Prova del nove”

 

CARRACCHIAGiuseppe Carracchia è nato nel 1988 ed è cresciuto a Palazzolo Acreide. Ha studiato a Bologna, a Catania, dove si è laureato in Lettere Moderne con una tesi in Antropologia Culturale, e a Torino, dove ha conseguito la laurea magistrale in Filologia Italiana.

Tra i libri di poesia editi: ‘Il verbo infinito’ (Prova d’autore, 2010) e ‘La virtù del chiodo’ (L’arca Felice, 2011). L’ultimo, ‘Prova del nove’, è uscito per Giuliano Ladolfi Editore.

Suoi testi sono inseriti nell’antologica “Generazione entrante. Poeti nati negli Anni Ottanta” (Ibid., 2011) e in Post ‘900. Lirici e Narrativi (Ibid., 2015), e hanno ottenuto alcuni riconoscimenti (tra cui il premio Lerici Pea giovani, 2011).​

ESTRATTI

Da: “Prova del nove” Di Giuseppe Carracchia, Giuliano Ladolfi Editore, 2015 (euro 15,00)

Dalla sezione PRESOCRATICA


Riscoperta dell’odio

Poi, torcendoti arrivasti perfino
a guardarti dritto in faccia – tu come
un altro te stesso (tu
civetta) ma sempre tu,
a minacciarti dritto
gli occhi con gli occhi tuoi di quell’altro (la
sempre
nostra parentetica
parentela di sguardi):

“tu non conosci la rissa, non hai
idea di cosa accada nel bel mezzo
dell’odio, se accada qualcosa;
capiresti altrimenti
capiresti l’agguato alle spalle
l’onesta brusca botta che toglie
l’ultimo in gola fiato che taglia
espelle ciò che resta
dal respiro già corto, annaspato”.

Che ogni via tortuosa porti
la verità discutevamo
intenti a crederlo, credendoci
d’accordo su tutto. « Ma io»
disse fra se e sé « vi tradirò
tutti, con l’esattezza di un enunciato
fallimentare: brillante».

Poi la testa che gira. Ma di poco
sembrava variare, fuori e dentro
la galleria l’eco del domani
sul limitare del fallimento
politico
(la teologia si ritrasse
in boschi o spinose
imboscate). E invece

poco dopo, l’uomo sorrise:
« sapessero quanto bene gli voglio,
mi odierebbero».

prova_del_noveuna poesia d’amore

L’ho visto, la notte di Natale
quel barboncino col muso
raso terra e un vento
che mulinellava il pelo
e l’occhio mesto, come se
fossimo stati in piena Siberia
come nel cuore della steppa
nella bufera. «Io so
tutta la sua gioia» mi sono detto.
«La so, comunque».

Pochi metri più avanti
seppi anche uno dei nostri
tre gatti, sul ciglio della strada
col corpo ancora fumante
e non so bene quale
degli organi rotolato fuori.

*
È davvero così che avviene
dopo secoli d’ottundimento
ed esitazione, disarmarti è d’obbligo:
un silenzio sradicato dall’asfalto, quasi
davvero potesse impollinarci lo sguardo
che finalmente impara
passo dopo passo l’età del tempo:

«adesso vorrei semplicemente
prendere la sua testa e stringerla
tra le mani, stringerla
forte al petto».

*

(ma io so, io vorrei sapere
tu sappia quanta vita vissuta
ci appartiene e quanta ancora
a venire, e quanta furbizia
per ritrovarsi inermi
nel mondo intero, intatti

ma io so, e vorrei tu ne fossi certa
che alla fine – nel cuore
pulsante dello sfacelo –
basterà abbracciarsi)

*

La resina dei giorni perduti
dei giorni anzitempo creduti
tali e mai davvero persi
non temere, e neanche quella
che credi banale insensata
vita che ti si incolla fastidiosa
tra le dita. La resina
dei tuoi occhi
con questa preghiera in versi
io raccolgo scrostandoti
non per farne ambra suppellettile
come certi del passato poeti
ma per toglierla dalla tua vista
per sgombrarti la strada
liberarti dal simulacro
che potresti divenirmi
e divenire a te stessa
e che forse
almeno in parte
già sei. «Ma è umano», mi dico
«davvero, sta’ tranquilla»: la bellezza
– ne sono certo – ha radici invisibili
chilometriche
e la fiducia cieca brilla
sotto la patina di cataratta
credendo sempre la vita più forte,
sempre la vita che brucia
ogni residuo di morte.

*

E bene o male tu puoi
ricordare almeno questo
arboreo ritornello, puoi
amarlo: “ma nei nodi
nei nodi nulla
mai davvero può il tarlo”.

Dalla sezione: DALL’UNO ALL’ALTRO

Poesia per la vecchiaia

Per questi che dicono dell’età
mitica dei vent’anni, della pienezza
di vivere che più non torna,
per loro scrivo (ma non per loro
sia ben chiaro) che non saprei

controbattere ma neanche
tacere del tutto accettando
questi anni solo come i migliori
e poi per cosa quando tutti
gli anni assumono su di sé gli altri

e crescono in – ezze sagge
o stolte divenendo.
Ma cosa può trattenerla la pienezza
anche di sbagli disgiunta a se stessa?
Cosa, se io immagino un vecchio

che pianta un albero e un altro
che cura un seme nel bicchiere
di plastica che prevede tutta una storia
di pozzi e guizzi di nera materia
e docili raffinazioni di party seriali?

E tu artefice di quelle
idee in artrosi di capolavori serali
che frenano degli astri il giro,
tu lentamente condanni te
a credere ancora alla sconfitta degl’anni?

*

Vorrei anzitutto non dover utilizzare
la parola vecchio, ed è anche
per questo che vorrei
che tutti i vecchi del mondo
si riunissero per prenderci a pugni
per espiarci e forte picchiarci fino
allo sfinimento, per poi ridargliele
di santa ragione i incolparli
giustamente di tutte le incongruenze
le finanze le piattaforme multimediali
e ogni forma per niente piatta
che costruisce all’orizzonte
l’orizzonte stesso; per uscirne
fuori indenni, tutti, dalla rabbiosa
tenerezza e dentro.

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