(Elio Pecora fotografato da Dino Ignani)
Da un’idea di Luigia Sorrentino
a cura di Fabrizio Fantoni
La scrittura, ? Quando sono cominciate e da che? L’ho raccontato più volte a scolaresche curiose, ad amici e lettori insistenti. Certo tutto cominciò dalle poesie imparate a memoria nelle prime classi elementari ( tante e di qualità in quei miei primi anni) e più esattamente dal silenzio e dall’attenzione che si facevano intorno a quelle parole: che sonavano esatte e necessarie, come in uno spartito musicale. (E il canto di mia madre era già per me ebbrezza e malinconia: un canto insieme avvolgente e misterioso. ) Presto, nella primissima adolescenza, cercai anch’io parole che durassero, che dicessero quel che dentro di me premeva, spingeva. E gli incontri e gli impulsi vennero in grandissima parte dalle molte letture, da veri invaghimenti di testi che mi svelavano a me stesso, che mi educavano ai sentimenti. I versi di Leopardi, le canzonette di Metastasio, gli accordi di Pascoli e di D’Annunzio, ma più ancora i frammenti di Saffo e di Alceo, le accensioni di Catullo, le visioni di Lucrezio: mi parvero e mi paiono impareggiabili. Le protagoniste e i protagonisti dei romanzi che leggevo, le Bovary, le Karenine, e Jean Sorel e il Marcel proustiano, solo per nominarne alcuni, vennero ad abitare nella mia stanza, ne parlavo con parenti e coetanei come di creature vive e prossime.
Penso ai pomeriggi estivi, nella casa del paese nativo dove tornavo per lunghe vacanze: in un piano della casa disabitato, dalle casse-armadio, che avevano seguito mio padre sulle navi della Marina Militare, cavavo i libri più diversi e mi perdevo in quelle pagine e mi ritrovavo uguale e diverso. Andavo così costruendomi , e non in solitudine se a nutrirmi e a vigilarmi erano autori amatissimi. Vivevo a Napoli e furono anni, quelli fra i quattordici e i venti, in cui scrissi soprattutto componimenti in versi e pagine di diario. Una volta iscritto all’università, alla facoltà di giurispriudenza, frequentavo assiduamente la Biblioteca Nazionale e non certo per i miei studi di legge, quando stracciai molti di quei fogli e foglietti e salvai un fascetto di scritti che diedi da leggere a Lanfranco Orsini, scrittore e saggista di rilievo, del tutto estraneo ai rumori mondani. Me ne venne qualche lode, che presto dimenticai seguitando ad accumulare appunti. Passarono anni prima che i miei quaderni e le mie poesie confluissero in un libro.
Fu necessario che lasciassi Napoli per Roma, che passassi per diverse occupazioni, che dietro un amore trascorressi diversi mesi a Monaco in Germania e ne tornassi con un volumetto smilzo che raccoglieva i frutti di esperienze e di riflessioni . Quel libro, in dattiloscritto, fece un suo cammino prima ancora di venire pubblicato dall’editore Cappelli. Passò per diversi amici entusiasti, fu finalista a un premio milanese e, una volta pubblicato, mi portò, fra gli altri, l’amicizia di Elsa Morante e di Wilcock e la collaborazione prima a “Mondo Operaio”, quindi a “La Voce Repubblicana”, infine ai programmi Rai.
Di incontri ne ho fatti tanti, e da gran parte di quegli incontri me ne sono venuti affetti e frequentazioni. Sarebbe lungo l’elenco, da Moravia a Palazzeschi, da Penna ad Amelia Rosselli, ma anche musicisti e attori, registi e psicoanalisti, matematici e antropologi. Di nessuno di questi amici mi sono in nessuna misura giovato, mi è bastato dare e ricevere affetto. Invece mi sono molto nutrito del molto che leggevo, della scrittura che praticavo quotidianamente collaborando a quotidiani e settimanali, del tanto che mi veniva da conversazioni accanite, e prima ancora di una curiosità che mi accompagna da sempre. Avevo meno di ventanni quando lessi i diari di Max Frisch, i romanzi di Virginia Wolf, i “Tropici “ di Henry Miller, i saggi di Bertrand Russell e di Canetti. Quelli sono stati gli incontri che mi hanno segnato. Con le energie che mi venivano da quegli incontri mi sono presentato agli italiani più che illustri che mi sono diventati amici. E ritengo che questi ultimi mi hanno dato attenzione e rispetto perché tutti hanno compreso quanto fosse vero il mio disinteresse, quanto mi fosse estranea l’avidità di potere e il piacere del rumore così sovrastanti nel nostro tempo.
E’ Virginia Wolf a scrivere di una stanza interiore che lo scrittore e l’artista, si costruiscono dentro. Una stanza in cui lavorano a se stessi, e che è governata da quel silenzio che germina se non opere destinate alla fama e al successo, certo la consapevolezza di rendesri vivi dentro la propria vita solo così muovendosi partecipi e insieme liberi nel mondo di tutti.