Rosa Gallitelli, “Selva creatura leggera”

salva_creatura_leggeraDALLA QUARTA DI COPERTINA

Selva creatura leggera si muove catarticamente attraverso accavallate realtà, che tutte convergono nel vissuto come in un caleidoscopio che a volte avvicina e a volte allontana, colorando con forza o dolcemente sfumando il molteplice paesaggio che ne forma la cosmogonia. La dualità che appare subito evidente è il raffronto complesso tra il luogo reale della Selva vergine del Costa Rica (dove l’autrice ha abitato a lungo) e la selva dei ricordi originali e degli inediti simboli sorti da questa singolare e travagliata esperienza.

In queste selve perennemente osmotiche, celate e svelate da un’ancestrale alternanza di apparizioni e perdite, il tempo e la natura risuonano con tutta la loro universale potenza, nell’insanabile contrasto con una modernità che sembra condannare all’estinzione la loro inviolata bellezza.

La testimonianza di una purezza primigenia e della sua silenziosa scomparsa si esprime nei contrari precipizi di oscurità e di corporea letizia, che nei testi si alternano in sequenze fotografiche attraverso l’uso di punteggiatura e inarcatura come volano dell’espressione.

Un libro sorprendente e notevole, che fonde reale ed irreale attraverso suoni e visioni autenticati da una peculiare ricerca linguistica e ritmica, i cui versi appaiono sempre sul punto di traboccare in altri che li rammentano o li attraggono, coniugando l’attitudine onirica ed ermetica dell’autrice con la ricca polisemia delle parole e la versatilità dei concetti.

DA: SELVA CREATURA LEGGERA di Rosa Gallitelli, Passigli 2015

FRA MADRE E SECRETO DEL CIELO

(estratto)

Gira un silenzio di focaia grande,
un tono d’inizio in coscienti
che il primate canta concavo albori
sino a fissarsi, abbeverato lungo il suo astro.
E quel tubero in appeso incerto tempo
è la tua stessa più forte memoria,
la tua imprecisa nascita lontana;
poi del comparso allunato,
del transitato solamente,
situato che svapora e svuota
relitto arboreo una sfumata cuna sospesa,
solo resta il detrito o il fondo indaco,
quasi lucciola bevuta da luce
lungo un suo gesto lungo quanto un viaggio,
lento quanto la somiglianza:
arto alla bocca, maschera all’oscuro,
cuoio del nostro più fondato chiaro
primo sguardo destinato all’aria;
e in lanugine un cuore o un volo,
cieco tamburo leggero.

Lo vidi nato fra gli alberi,
appena cosmo raccolto,
fra madre e secreto del cielo
trasalire fra gli alberi perché doveva,
perché tutti iniziammo un sangue arboreo,
perché volevo fosse un giorno ricordato
l’alto rilievo della tenerezza,
chi deteneva in carne vivo il monumento verde,
l’occhio primo della gioia limpida:
quell’iride dove d’istinto
anche tu uomo apriresti un amen, un fogliame,
un punto di partenza o avvento;
è lo stesso, è cantarti a mente
una distanza che ti canta, e ti canta,
un vuoto cui porteresti sempre
fiori che muoiono se manca.

CERCHIA, FAMIGLIA VERDE

(estratto)

È che dopo anni in fondo agli alberi,
in estuari antro dove il mare
veniva a celebrarli spuma,
fra donne verdi fra vento
e uomini in disegni lenti
nella lenza del sonno,
fra bambine fluite in veglie con puma e pesci,
scalze con dipinti lunghi occhi d’uccelle,
ho lasciato la mia ultima femminea scarpa
senz’altra famiglia o pagina;
come una allontanata che li bacia,
ubiqua al disunirsi madida,
rimane in piedi sulla linea di una lacrima
come fosse il suo fondamento,
riconsegnarsi sempre in seno corrente
a quello stesso spartiacque,
da allora in avvenire di stucco
nell’urna delle mancanti voci.

Se nulla ho fondato in quel punto,
se solo appartenemmo a luce,
se quei volti appartennero solo
ad una luce inviolabile;
non so se in questa arborescenza lascio,
se sia presto o tardi o se ho ripreso
a scriverti che chiude una voliera,
un corindone spento per sempre.

Ma in questo lineamento tardo
lascia io possa almeno,
nella circolazione del ricordo
lascia io possa almeno a mente
cerchiarci, amore, in fulgido tempo,
dalla spina nello smeraldo in poi
cui appendesti la prima maglia
fra i nomi della luminosa bestia;
li possa salva, anche in noi, data potente,
possa Selve impugnando pianger le verdissime,
loro grandezze aperte
di seme da soglie libero.

Questa la memoria: un foro nel vento,
perché non si debba più fingere
di odiare luce e leggerezza,
di scordare aldilà sfiniti
quei fuggevoli animali e volti, e occhi scorsi.
Ci attendono. Guarda. Circondano.
È tardi, andiamo, la terra obnubila.

Argilla, cuore sasso gettato,
là dove ci separarono
dall’orma dispersa esperta,
cerchia, famiglia verde.

L’ULTIMA ADOLESCENZA TERRESTRE

(estratto)

E a mente ho stremo uomo e rivo,
uomo e puma, uomo in rio aureo,
e in fauci dei volati estuari
dove esito in terra è il pesce che svelle,
ne sfrangia l’albore e esegue
con una carnagione ultraterrena,
con una taglia d’ombra oltre il bambino libera:
due lanciatori celestiali,
due lignee punte pure in spume.

Ma se li avessi visti sfollati vivi
dall’acqua, dall’aldilà,
lucente ingrandimento il nullo spazio
cui stranamente un giorno hanno portato
movente una ruota veloce
perché si dividessero in fretta
da tutta la loro chiarezza;
se tu fossi diminuito in un commiato
celato da unite polveri,
da sillabe non dette certo
a scalzi innati tersi,
disincantati fermi in orme e in fede
di un’amicizia tua che si era spogliata
per stringerli, per credere come loro;
non ti volteresti mai più
senza l’odore dell’impaurito,
del consegnato che ha dato:
vita, separazione.

Addio amuleto svuotato,
uscio boreale permanente scudo,
vuoto del vento arbusto,
uomo dell’onda apparso con testuggine
lungo la linea d’esche e volto,
lungo un sorriso liquefatto.
Addio scudiscio d’insenatura
uscito dalla purezza,
da cui si saliva nudriti,
nudi, smemorati col ramo,
col testamento fra torrenti mani
vuote da maree bevute,
dalla robusta rosa che schiude
e ti rilascia rivo, incarnato.

Senza voce si separarono
i nuotatori dal vento,
nudi, dementi vestiti.
Foci testuggini addio;
solo sbucando portaste puerizia al mondo,
riso al fiore di labbra, radice
ai crepuscoli tripudi in questo equoreo
torace tardi giunto al corrente,
che in debito di un congedo
non pesava di colpo: questo è il coraggio,
scorgere in ciò che ardeva e fallisce
quasi carne di calice il vuoto,
parcella della ventilata gioia.

Ma presto, chiamate la Madre,
all’atlante intriso e accovacciatela,
imbattuta e cava di figli,
di tutti gli animali del mare,
dell’aria
e della terra cruciale.

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Nata a Pisticci (Matera) nel 1969, Rosa Gallitelli vive dai primi anni novanta tra Italia (Padova) e Costa Rica, dove ha trascorso lunghi periodi a stretto contatto con le popolazioni native del Guanacaste tra la foresta vergine e l’oceano Pacifico, esperienza cui è dedicato questo libro, cooperando poi nel tempo a progetti di tutela del patrimonio naturale.
Dal 2007 ha tradotto con Tomaso Pieragnolo noti poeti ispanoamericani nella rivista Sagarana, con particolare attenzione alla ricerca di autori da proporre in anteprima in Italia, confluiti poi negli ebooks “Nell’imminenza del giorno” (La Recherche, 2013) e “Ad ora incerta” (La Recherche, 2014), e curato la prima antologia italiana bilingue della grande poetessa costaricana Eunice Odio “Come le rose disordinando l’aria” (Passigli, 2015), definita da Giuseppe Bellini “un’opera importante di traduzione, resa con encomiabile fedeltà, tale da ricreare il clima dell’originale”.

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