(Fabio Ciriachi, fotografato da Dino Ignani)
Da un’idea di Luigia Sorrentino
A cura di Fabrizio Fantoni
__
Autoritratto, di Fabio Ciriachi
Sono una persona stanca. La maschera comincia a cedere, le fessure si allargano, l’identità sta per mostrarsi, e questo non è un bene. (“Persona”, dall’etrusco phersu, maschera. “Maschera”, dal preindeuropeo masca, strega. “Strega”, variante popolare del greco strix, uccello notturno… non c’è scampo nell’etimologia). Al buio, il mio sbattere d’ali stenta, perde il volo. Non esistono più sonno e veglia, sogno e realtà, finzione e finzioni. C’è un lento ripassare le immagini predilette, un sereno carezzarle con gli occhi di dentro.
Su tutte, splende l’acqua del Tevere che mi ha risparmiato, benigna, quando a nove anni la sfidavo nuotando da una sponda all’altra alle porte di Roma; pulita, a quel tempo, senza neanche l’acqua nervosa dell’Aniene affluente più a valle. Ma prima che attorno ai pratoni della Salaria, il Tevere l’ho imparato a Testaccio, dove sono nato nel 1944, e da casa dei nonni paterni lo vedevo uscire incolume dalle arcate di ponte Sublicio e smottare lento verso i ferri incrociati del gasometro; e sentivo, con quella certezza per cui ancora benedico l’infanzia, che se avessi seguito il suo esempio, se come il fiume fossi stato capace di restare e andare al tempo stesso, mi sarei salvato. Sorella coeva di tanta folgorazione, la scoperta della lettura, l’alveo intoccabile del mio autonomo fiume interiore; i giorni e giorni fra le pagine di Cooper e Verne, di Salgari e Molnar, fino ai giovanili trasalimenti de La nausea, La pelle, I fiori del male per i quali ho fatto il mio accesso nell’universo adulto della letteratura.
Maschera e identità, dicevo. In un film giapponese visto a Parigi nel ’66 (credo s’intitolasse Onibaba), un uomo che cela il suo viso dietro una maschera di legno, per ragioni che non ricordo decide di togliersela; ma l’aveva portata talmente a lungo che si era incollata alla pelle. Benché il viso dell’uomo ne fosse uscito piagato, i suoi tratti, però, non erano venuti meno. La mia maschera, invece, si stacca con facilità perché non aderisce a nessuna fisionomia. I miei tratti a un certo punto, per una qualche rappresaglia del destino (guai a non seguirne pedissequamente le direttive), si devono essere atrofizzati: protuberanze scomparse, cavità richiuse, tutto ridotto a una forma liscia, a un ovale senza i rilievi degli zigomi, la sagoma della mascella, la carenatura della fronte, senza occhi e sopracciglia, senza naso e bocca, proprio come il mostro dei miei terrori infantili (se quelle che allora sembravano insensate paure di bambino in realtà erano l’annuncio di ciò che mi sta capitando, è possibile supporre che le paure di cui si ignora la causa siano l’anticipazione di disgrazie future?).
Leggere è la faccia di un Giano dietro cui abita la scrittura, e prima o poi la passione di lettore spinge a curiosare attorno all’altro elemento del doppio. Alla stoltezza giovanile, cui devo le prime prove da scrivente (poesie e raccontini senza importanza alcuna), ho fatto seguire una consistente inattività creativa (venti anni circa), vera e propria specializzazione nell’arte del leggere: non solo libri, ma visi, amori, paesaggi, finestrini, rischi. Questa lunga pausa – culminata nei quindici anni di assenza dalla mia città natale, di cui nove nello splendido isolamento di una comune agricola in Toscana (alle prime parole scritte, intanto, avevo fatto seguire la pittura e la fotografia) – si è interrotta col ritorno a Roma, agli inizi dell’87. Lì, allora, ho cominciato a scrivere davvero. E siccome nel frattempo era passata tanta Storia con tutti i suoi scompigli, il punto di vista scelto è stato quello del testimone; ruolo importante in un processo evidentemente in corso di cui non sapevo (né so) nulla, se non che dare atto del vissuto è irrinunciabile, per quanto di poca o nessuna utilità collettiva.
Pubblicare non è stato facile. La prima raccolta di poesie è uscita nel ’99 (presso Empiria, come le due successive), la prima raccolta di racconti e il primo romanzo hanno dovuto aspettare il 2008, ma nei quasi trent’anni di scrittura trascorsi da quell’inizio’87, oltre agli otto libri editi fra narrativa e poesia, ho accumulato così tanto materiale da avere due romanzi conclusi in via di rifinitura, uno molto ambizioso appena messo in cantiere, e un considerevole numero di poesie con le quali affrontare il lungo lavoro della quarta e ultima raccolta.
L’ambiente letterario, salve poche eccezioni, non mi ama e non mi piace. A parte l’esperienza della Rassegna Nazionale di Poesia “Confluenze”, che nel corso degli anni Ottanta ha portato ad Arezzo quasi tutti i maggiori poeti italiani, la redazione della rivista di poesia “Pagine” nata a inizi Novanta, e la recente partecipazione al gruppo-fantasma de “i parlamenti”, che a tratti ancora si materializza nell’accogliente casa di Carla Vasio, tendo a stare da solo, a fare sempre più i conti esclusivamente con la pagina scritta, e a vedere nel self-publishing l’unica alternativa al marasma vessatorio della maggior parte dell’editoria italiana (oltre a Empiria fa eccezione, nella mia esperienza, la Coazinzola Press di Riccardo Duranti).
Ora vivo così, concentrato e distaccato al tempo stesso. Mi sveglio, dormo, mi risveglio, eseguo i compiti che mi sono dato e anche gli imprevisti necessari, sto in casa, vado fuori, di nuovo in casa. Risparmio le energie. A volte dovrei uscire ancora ma rinuncio. Per stanchezza amo sempre più il tavolo da lavoro e sempre meno gli eventi pubblici. È anche accaduto che nel passare davanti allo specchio mi sia girato e abbia detto al riflesso che mi guardava: “Tu sei Fabio, lo so, ma ignoro cosa voglia dire, e cosa ci si aspetti da me e da te, data la circostanza, e se mi giovi, e perché, riconoscere la tua identità, che poi non so neanche cosa significhi. Identico a chi? Identico chi?”. Non ho aspettato risposte e la cosa è morta lì.
La consequenzialità delle mie azioni è solo apparente, ogni singolo gesto potrebbe essere tolto dall’ordine cronologico in cui prende forma e, assemblato in modo diverso, dare luogo a sviluppi inediti. Né fantasia né sogno, nessun pathos creativo: solo obbedire a proprietà combinatorie che rotolano nel bussolotto del caso prima di venir pescate e diventare a buon diritto “quel che accade”, anzi, “quel che mi accade”. Questo è quanto mi rimane del libero arbitrio, e non è detto che non potesse andare peggio.
In poesia, per lo più sono fedele all’endecasillabo la cui misura è intimamente simile al modo in cui verbalizzo il pensiero. Per rimanere all’italiano (è la sola lingua straniera che conosco bene), attorno a Montale, che sta al centro del mio continuo apprendistato, gravitano le accensioni di Penna, l’accogliente ragione di Sereni e degli altri “padani”, il sole pietroso di Cattafi. Nella narrativa, pratico un realismo di facciata dietro il quale costruisco un continuo proporsi di interrogazioni e riflessioni che rendono sempre protagonista il gioco della conoscenza. Se D’Arrigo resta inimitabile per il ventennale corpo a corpo con l’opera da cui trae origine Horcynus Orca, i motivi di maggiore interesse li trovo, oggi, nella lezione di Volponi e della Ortese, i soli autori che, rileggendoli, mi fanno capire quanto, col postmoderno, ad andare in crisi non sono state le narrazioni bensì le capacità percettive dei fruitori. In poesia aspiro al massimo della durezza; nella prosa, alla porosità. Con entrambe, faccio sì che gli eventi siano spezzati e riaggregati in un modo diverso da come li offre il quotidiano, perché niente, in realtà, accade in ordine cronologico, neanche la vita.
Nutro ancora un forte amore per la lettura e la scrittura. Guardo alle continue modificazioni della rete e del web come a un uragano esploso all’esterno della mia incrollabile casa trasparente: non è ben chiaro cosa crei e cosa distrugga, la sua furia, ma ho imparato a diffidare delle tante verità che di continuo decreta. Ogni giorno lascio qualche riga nel segno di un rispetto sempre più necessario del dovere d’autore, e per resistere all’indifferenza dell’ambiente letterario fantastico che almeno ai miei figli sarà riservato il piacere di un riconoscimento postumo del mio lavoro. Sono libero di lavorare, e non dipendere più dagli altri, nel complesso, è una bella sensazione, molto simile a quella di quando guardavo rapito il Tevere a Testaccio. E se ora, in questa autonomia che invoglia alla quiete, mi sembra di avere in parte imparato a restare e ad andare al tempo stesso, proprio come il mio luminoso fiume dell’infanzia, posso anche illudermi di essere su una strada che, forse, prima o poi porterà alla salvezza.