Luigia Sorrentino legge la poesia da “Se questo è un uomo” di Primo Levi
Nota di Luigia Sorrentino
Tra il 1945 e il 1947, Primo Levi scrive il romanzo autobiografico “Se questo è un uomo“, dopo essere tornato in Italia dal campo di lavoro di Monowitz, uno dei tre campi che formavano il complesso di Auschwitz, in Polonia.
Fondato nel 1942, il campo divenne la sede della più grande fabbrica d’Europa per la produzione di gomma sintetica Buna-Werke – che però non entrò mai in produzione – presso la quale l’autore riuscì a trovare impiego come chimico riuscendo così a salvarsi la vita.
Nel campo di lavoro, liberato dall’Armata Rossa il 27 gennaio 1945, transitarono circa trentacinquemila deportati, tra di essi Primo Levi ed Elie Wiesel.
In epigrafe al romanzo “Se questo è un uomo”, Primo Levi inserisce una sua poesia, un appello rivolto al lettore a non voltare lo sguardo da un’altra parte come se quello che accadrà nelle pagine del libro non gli appartenesse.
Nel breve componimento, definito da Franco Fortini “alto e testamentario”, il lettore è apostrofato con parole durissime alle quali nemmeno l’autore che scrive si sottrae, allo scopo di essere egli stesso partecipe e di rendere compartecipe il lettore della gravità dei fatti che stanno per essere narrati. “Voi che vivete sicuri nelle vostre tiepide case” è l’incipit.
Primo Levi, sopravvissuto a un’esperienza terribile, scrivendo “Se questo è un uomo” si fa totalmente carico dell’esperienza che l’ha reso diverso da chi legge. Si rivolge al lettore e a se stesso, con tono autoritario, chiedendo a sé e all’altro, di non dimenticare: “Meditate che questo è stato/ Vi comando queste parole/Scolpitele nel vostro cuore” […]
Il romanzo è una meditazione sulla natura umana e bestiale dell’uomo che non si prefigge lo scopo di aggiungere nulla alla verità storica. Quel “vi comando” è un ordine che l’autore impartisce a se stesso in prima persona e al lettore, chiedendosi e chiedendo di “scolpire” le parole contenute nel romanzo in un cuore pietrificato dalla banalità del male.
L’esortazione e la speranza di Primo Levi è l’iterazione pedissequa della parola, che deve passare da padre a figlio: […] “Ripetetele ai vostri figli”. Tutti dobbiamo portate la parola della Shoah, della Catastrofe e non dimenticarla, affinché essa non si ripeta. Non ignorate quanto è accaduto, chiede perentoriamente lo scrittore: “O vi si sfaccia la casa/ La malattia vi impedisca/ I vostri nati torcano il viso da voi.”