Nella foto Amelia Rosselli fotografata da Dino Ignani
di Nicola d’Ugo
Ad Amelia Rosselli
La tua voce di struzzo o cigno scuoiato.
La ricordo in una serata d’estate:
un volto cimiteriale da una luce atrale
in Aula Quattro, a Villa Mirafiori.
La giustificavi a tuo modo, dicendomi:
«È un difetto gutturale, un’imperfezione fisica,
non una scelta musicale!» Ma non mi bastava.
Sapevo come cantavano le voci più prossime
agli angeli, gli spettri del Nordeuropa e le falene
dei poeti. Così ti dissi: «V’è musica con-
temporanea: un suono non musicale,
un accento stonato, il guizzo deviato e deviato.»
* * *
Poi ti rividi, sempre poco in carne,
in vicolo Savelli, pizzeria Montecarlo.
Ero con la mia amante, che mi chiese poi:
«Chi è?» Parlammo ancora un poco di poesia,
sapendo che ciò che contava era
la vita vera. Ci promettemmo di vederci
ancora, ma Roma promette, inganna,
senza malizia: nella più completa noncuranza.
* * *
Parlavi di morte. Ti saliva da dentro,
dall’ombre più solide e compatte.
«Mi truccai da prete della poesia
ma ero morta alla vita», scrivevi.
Ora s’aggrappa alla finestra il tuo «teschio»,
urla impazzito: Siamo pazzi, noi siamo
pazzi! Perché è pazza la vita.
Cosa hai fatto, Amelia, teschio ambulante,
signora? Non hanno più sangue per te le mie mani,
non hanno più vita? È la pura follia in cui viviamo:
la cecità dei tuoi occhi mi tolgono peso
e misura, mi riducono al niente che provo
a coprire. Sono insensibile spoglia, morto
vivente, ma mi provo a cantare per niente,
ora che è notte, che per te non più
«la speranza è un danno forse definitivo».
Roma, 11 febbraio 1996