Da un’idea di Luigia Sorrentino
A cura di Fabrizio Fantoni
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Mi recavo, nel settembre 1971, alla segreteria della Statale di Milano per iscrivermi alla facoltà di Filosofia, che, complice il mio professore (al quale mi sentivo legato da un patto di lealtà e di riconoscenza), mi pareva la scelta più giusta, quasi inevitabile, per soddisfare la mia ansia di verità e la mia passione per gli studi. In realtà, da almeno un paio d’anni, sentivo che la filosofia non mi bastava più. Leggevo Dostoevskij, Pavese, Camus, in quei giorni; e se mi volgevo ai filosofi, era a Pascal, Kierkegaard, Nietzsche che mi accostavo, o magari a certe pagine utopiche di Tommaso Moro e di Campanella, piuttosto che alle vertiginose scale teoretiche di Spinoza, da me un tempo tanto amato.
La giornata era di un sole ancora fulgido, benché l’estate volgesse all’equinozio; e contemplando, mentre camminavo pensoso lungo le vie di Milano che portano dalla Centrale a via Festa del Perdono, qualche spicchio di cielo azzurro, mi parve all’improvviso di vedere – incisa come sopra una tavola votiva – la risposta che andavo cercando ai miei pensieri ondivaghi: sentivo che la filosofia, nonostante la sua grandezza, ignorava proprio quel cielo, quell’aria così dolce e limpida, quella dimensione avventurosa e sensibile del nostro animo che rilutta a ogni definizione, quella forma della verità che si dà – involontaria, discontinua, quasi imprendibile – ben oltre la potenza logica di un pensiero ordinato e inflessibile; ignorava, soprattutto, la forza scura e contraddittoria del vivere, quella corrente che vibra e oscilla, ci infiamma e ci sgomenta, e che avevo percepito solo nelle grandi pagine dei tragici, nei versi dei simbolisti francesi o dei poeti erotici latini. Giunto in via Larga, avevo già deciso che mi sarei iscritto a Lettere.
Gli anni passarono; l’Università mi deludeva; i compagni mi parevano persi in pratiche ideologiche astratte; la poesia divisa, sterilmente, tra contenutismo e sperimentalismo, ricerche linguistiche sul significante e blabla politico. Nella solitudine in cui mi trovavo – nell’impossibilità, cioè, di trovare interlocutori all’altezza della grande poesia che andavo leggendo – seguivo il consiglio di Petrarca: «fare andare nel tempo la memoria e vagare con l’animo per tutte le terre, per tutti i secoli, incontrarsi qua e là e parlare con tutti coloro che furono uomini illustri». Ma il mio animo impetuoso non poteva sottrarsi a quelle dispute in cui pareva esaurirsi lo spirito di un’epoca plumbea e in fondo intellettualistica. Sostenere che il tempo della poesia non è il tempo della storia; che la parola poetica affonda nel caos degli inizi, anche quando essa sia nutrita da un raffinato culto della forma; sentire anzi che ogni parola della poesia è mitica e arcaica, non costava solo l’accusa di essere reazionari, ma anche una sorta di damnatio civile e culturale. L’incontro con Milo de Angelis, al quale telefonai d’impulso – vincendo la mia naturale discrezione – subito dopo aver letto Somiglianze, fu per me una sorta di atto liberatorio: in quel libro non trovavo solo ciò che avevo intuito per anni, ma anche una risposta intransigente a coloro che pretendevano di fare della poesia una sovrastruttura, di piegarla a qualche ricatto ideologico, alla poltiglia informe dell’esistente.
Eppure, mi ci vollero anni per comprendere come qualcos’altro premesse in me, qualcosa che doveva lentamente distaccarmi dalla poesia di «Niebo», come dagli emblemi colorati e rapinosi della Parola innamorata: la necessità di non escludere dalla parola della poesia il sogno umanistico – utopico – di una civiltà: sentivo che nella grande poesia aveva sempre agito – nel corpo fisico di un suono, di un pensiero, di una corrente immaginativa – questa doppia istanza: far sentire le sciabolate tragiche della vita cosmica, che negano ogni salvezza all’uomo, e insieme fare della parola il fondamento di una comunità più giusta e generosa; tornare a far risplendere nell’unità di un verso la potenza argomentativa del pensiero e l’energia mitica del mondo.
Sentii allora, verso la fine degli anni Ottanta, di dovermi avventurare in una terra nuova: pensavo ai giardini di Lucrezio, alle ecloghe di Virgilio, a una poesia di «nomi felici», che sapessero dire ciò che è vero e fatale, e insieme celebrare la forza enigmatica e sovrana della vita. Mi ero imposto, già da diversi anni, di non scrivere più alcun verso, e mi trovavo – quasi per forza ipnotica, come trascinato dai miei modelli poetici, dagli scrittori che andavo man mano traducendo (Sallustio, con la tensione drammatica e patetica dello stile, la severità epigrafica della narrazione; Pindaro, con l’energia densa e fantastica, arcaica e fiammeggiante delle immagini) – a scrivere di nuovo, come se lo facessi per la prima volta, e furono i versi di Con parole remote. Se dovessi, oggi, restituire l’animo con cui li scrissi, non potrei che rinviare agli otto frammenti di Gnomai, pubblicati in Bosco del tempo: nell’ultimo, soprattutto, in cui mi pare riassumersi tutta la mia idea di poesia e di mondo:
Ci avvincano le rose, e le tenebre
d’estate. E i tuoi scuri occhi,
vita.