Pubblichiamo in anteprima un estratto da “Il racconto dello sguardo acceso” di Franco Buffoni, appena uscito nelle librerie italiane con l’Editore Marcos y Marcos (2016).
Scorrendo le pagine di questo libro di racconti, pubblicato a distanza di un breve lasso di tempo rispetto ai due libri precedenti, Jucci, (Mondadori, 2014) e Avrei fatto la fine di Turing (Donzelli, 2015), comprendiamo che Il racconto dello sguardo acceso chiude una sorta di trilogia, iniziata con Jucci, che caratterizza la seconda fase della scrittura di Franco Buffoni.
Un libro di racconti in cui l’autore osserva il mondo con gli occhi colmi di domande e il cuore pronto a ricevere la sorpresa dalle risposte. Siamo di fronte al libro della consapevolezza, della maturità, dell’uomo e del poeta, che dice: “Pasolini non è morto invano”.
MILANO ROMA
Capitolo IV
IL RACCONTO DELLA TRADUZIONE
Mai come quello stralcio di conversazione che colsi in metropolitana tra due elegantissime hostess durante un weekend di Sant’Ambrogio. In quei giorni, per antica tradizione, si tiene a Milano, nei pressi dell’omonima basilica, la fiera degli oh bej oh bej, che in dialetto meneghino significa: oh belli, oh belli, con riferimento agli oggetti, alla cianfrusaglie, ai dolciumi in vendita sulle bancarelle. Una delle giovani signore raccontava all’altra della sua visita alla fiera degli oh buy oh buy, pronunciato all’inglese (una sorta di acquista! acquista!), oppure stava solo pronunciando in tedesco l’originale espressione milanese? Sorridendo, mi rivolsi a lei e glielo chiesi. Con uno sguardo interrogativo rispose: “Ma come si dovrebbe dire, esattamente?”. “Obey and Buy”, risposi serissimo.
E che dire di quando con un gruppo ristretto della laurea specialistica mi permisi di dettare i tre versi del Dies Irae attribuito a Tommaso da Celano (“Lacrimosa dies illa / Qua resurget ex favilla / Iudicandus homo reus”) che W.H. Auden pone in epigrafe a The Age of Anxiety? E poi in sede d’esame, sfogliando i loro appunti, mi accorsi che molti di loro avevano scritto “omo reus”. E quando chiesi a una soave fanciulla di che cosa fosse mai colpevole tale “omo”, rispose senza incertezze: “Di omosessualità, come Auden stesso, per altro”. Facendomi quasi preferire quel ragazzotto “de borgata”, incontrato anni prima alla Festa trasteverina “de noantri”, che poi mi disse: “Mi fratello nun sa che vado co’ li omini sessuali”.
TRAGEDIE E GENIUS LOCI
Ma vi sono anche situazioni drammatiche, al limite della sopportazione umana, in cui la traduzione riesce a svolgere un ruolo straniante, persino comico. Mi raccontava mio padre che ad Amburgo, nel giugno del 1945, quando tra le macerie cominciarono a funzionare le prime mense per i poveri, apparve un cartello: “Nur mit Besteck”. E centinaia di prigionieri italiani, appena liberati dai campi, venivano respinti all’ingresso, perché alla domanda “Besteck?” rispondevano di no, scrollando il capo: “Ma figurati! Se ho già la bistecca, me la mangio per conto mio”.
Quando qualcuno spiegò loro che Besteck in tedesco significa “posate”, quei giovani italiani affamati s’ingegnarono al volo, stabilendo dei turni con una sola forchetta, o addirittura fingendo di averla, rispondendo ja alla fatidica domanda, o tenendo il dito indice teso a fingere un coltello nella tasca della misera giacca. Sul cui retro era scritto IMI in vernice bianca: internato militare italiano.
Le mie esperienze sono state molto meno tragiche: a un nonno colpito dai gas nervini austriaci e a un padre che trascorse due anni nei Lager tedeschi, io posso solo opporre quel periodo folle tra 68 e 77 (e seguenti) in cui in Italia parve che fare quadrare la bilancia dei pagamenti non fosse più necessario, che il salario fosse una variabile indipendente, e altre gustose amenità che stiamo tuttora scontando. In compenso potei cogliere il genius loci delle varie città in cui mi accadde di lavorare. A Trieste, per esempio, ricordo una scritta, all’ingresso della Facoltà di Economia, mai rimossa negli anni tra il 78 e l’83 quando vi insegnai, che la diceva lunga sulla collocazione politica della maggioranza di quegli studenti. Era allora molto in auge Autonomia operaia, e la scritta recitava: “Fàbrica cava fonderìa / i xè la cura per l’autonomia”.
Più recentemente Roma mi si è svelata in tutta l’allegoria della sua sgamata ironia.
“Semo venuti già menati” stava scritto su uno striscione a un corteo giovanile nel novembre 2012: la settimana precedente in una manifestazione analoga molti studenti erano stati pesantemente malmenati dalle forze dell’ordine.
All’ingresso di un liceo, preceduto dal nome di un avversario politico in consiglio di istituto, si può leggere “e kitteseneincula”, con l’antica kappa kossighiana.
“Fateve ‘na vita, ve prego” è invece l’espressione che ho sentito rivolgere a un gruppo di militanti troppo ansiosi di conoscere nel dettaglio questioni private di un loro avversario.
Ma forse fu a Napoli, ancora al tempo di Maradona, che colsi lo scambio di battute più bruciante. La città festeggiava impazzita lo scudetto e sul muro del cimitero apparve in vernice azzurra la scritta: “Che ve siete persi!”
Il giorno seguente, accanto, in vernice rossa: “E tu che ne sai?”
Napoli, geniale Napoli. Ai tempi duri di Lotta continua, un militante dall’eloquio efficace era impegnato in opera di proselitismo a Scampia. Tra gli ascoltatori un gruppo di giovani apparentemente interessati a quella lotta che sempre, con ogni mezzo, doveva essere “continuata”. Al termine del comizio uno dei ragazzi si avvicina all’oratore e gli chiede: “Dottò, scusate, io sarei molto interessato… posso fare una domanda?”.
“Certo, compagno”, rispose l’oratore ravviandosi i capelli alla Gramsci.
E il ragazzo, con un lampo nello sguardo acceso: “Ma proprio continua ha da esse ‘sta lotta?”.
Non ci stavano pause in quella lotta, come non si trovano pause nell’acronimo SEMPER, che l’amico filologo Pietro Taravacci ha pensato di attribuire al Seminario permanente di poesia e traduzione da lui istituito presso l’Università di Trento. E al primo invito, per introdurre il mio libro Guerra uscito nello Specchio nel 2005, raccontai proprio l’aneddoto napoletano…
Non ci stavano pause in quella lotta, infatti, come nel servizio che il mio anaffettivo padre doveva prestare nell’Esercito. Dopo essere stato un IMI nei Lager tedeschi, e dopo avermi promulgato nel 1948, egli divenne uno SPE, un ufficiale in servizio permanente effettivo. Per me verso i dodici anni quella formula, ripetuta con la “a” al posto della “e”, diventò una specie di litania. Mi sorprendo ancora oggi a sperare che egli sia stato affettivo almeno coi suoi “uomini”.
Riflettendo su come, in poesia, si compiano inconsapevolmente determinate scelte lessicali – che poi restano lì, a stampa, come solenni moniti e spie delle ossessioni e dei vezzi del poeta – ricordo un dialogo avvenuto all’inizio degli anni novanta col mio validissimo traduttore francese, poi scomparso prematuramente, Bernard Simeone.
Egli aveva appena tradotto Suora carmelitana, il racconto in versi in cui la sorella di mio padre, carmelitana scalza, stimolata dalle domande del nipote, svela lacerti della propria esperienza. In particolare, Simeone mi interrogò sulla X strofa:
Quando ero militare mi diceva che capiva.
Gli orari ben scanditi e quella forma
Di disciplina.
Il padre provinciale e il cardinale
Ai superiori si doveva dare
Obbedienza continua.
Egli aveva tradotto l’espressione “obbedienza continua” con “obéissance perpetuelle”, e mi chiedeva se in italiano l’espressione canonica fosse proprio “obbedienza continua”. Fui costretto a riflettere a fondo sulla mia scelta lessicale. Perché è vero che in poesia suono e significato nascono “consustanziati”, e dunque che nel mio testo la prevalenza dei fonemi in “i” portò alla scelta di “continua” al posto di “perpetua”: in particolare per la simil-rima tra “disciplina” e “continua”.
Ma queste sono le ragioni che si danno a posteriori. In realtà nell’impasto semantico/sonoro di quella strofa giocò un ruolo essenziale la mia esigenza (inconsapevole?) di un ammicco ironico a “Lotta continua”.
ORESTE E WOODY
L’altra sera a casa di amici, per trenta minuti si è potuto cenare in pace perché Rino e Michele, due splendidi gemelli di tre anni, e la loro vispa sorellina Clara di quattro, erano completamente assorti nella visione dei cartoni animati.
Chiunque si occupi di apprendimento linguistico sa bene come esso avvenga tanto più spontaneamente quanto più giovane è l’età del soggetto. Mi pianse il cuore perciò quando mi accorsi che il cartone oggetto di tanta attenzione da parte dei bambini era doppiato in italiano.
Mentre i loro coetanei in ogni parte del mondo guardano quello stesso cartone in inglese.
Che tristezza pensare alla fatica che Clara, Rino e Michele faranno tra qualche anno, quando – ormai alfabetizzati – dovranno sedersi sui banchi per cercare di apprendere (male), magari da un’insegnante italiana, gli stessi fonemi che sono stati loro negati dal doppiaggio. E comunque, anche se l’insegnante fosse di madrelingua, che noia – sui banchi – a fare fatica… per ottenere ciò che prima non sarebbe costato nulla, se non puro divertimento.
La scuola italiana di doppiaggio – ben impostata tecnicamente e teoricamente in epoca fascista – continua a sfornare abilissimi professionisti, al punto che la frase “gli italiani sono i migliori doppiatori al mondo” è ormai acquisita ovunque come inoppugnabile. In alcuni casi i risultati sono talmente straordinari da superare persino l’audio originale per vivacità e freschezza. Si pensi – per portare un esempio ormai di scuola – a Oreste Lionello doppiatore di Woody Allen.
Tutto bene, dunque? Manco per niente. Il contraltare potrebbe consistere nello scarso e deprimente inglese parlato dagli italiani, nella loro strascicata incompetenza fonetica, nella loro immane fatica a parlare con scioltezza la lingua di Whitman e di Elton John.
In breve: vi è mai capitato di ascoltare un tg in Olanda? Se parla il presidente degli Stati Uniti vi accorgete che state ascoltando la sua viva voce, al più corredata di un commento. In Italia viene doppiato anche se dice “buongiorno”.
Il secondo disastro culturale provocato da tanta bravura nel doppiaggio concerne la cinematografia del cosiddetto terzo e quarto mondo. Non essendo gli italiani abituati alla visione di film sottotitolati, una pellicola se non è doppiata non entra nel circuito della distribuzione. Questo provincialismo danneggia soprattutto la produzione cinematografica più povera, non in grado di sostenere i costi del doppiaggio. Una produzione che spesso è più interessante e culturalmente valida di quella “canonica”. Non sarà un caso se a Parigi vi sono almeno cinque sale cinematografiche che trasmettono film in lingua originale, mentre a Roma e a Milano ve n’è a malapena una, funzionante a intermittenza.
Chapeau dunque ai più bravi doppiatori del mondo, ma non alla pigrizia dei loro immarcescibili fruitori.
CALABRIA E PICCADILLY
Se Dario Fo, con il suo grammelot, porta alle estreme conseguenze la riflessione sulla traduzione come sintesi fonemica, il caso di Imma produce un risultato simile come sintesi ontologica.
Imma nasce a Roma all’inizio degli anni settanta, figlia di una coppia di immigrati calabresi, portinai (o come si dice a Roma: portieri) in un grande stabile (a Roma si dice palazzo) d’una zona alto borghese. Sprovvisti d’istruzione ma molto volonterosi, i genitori di Imma sanno conquistarsi la stima anche degli inquilini inglesi del terzo piano, una coppia senza figli, lui direttore e lei insegnante nella scuola inglese distante poche centinaia di metri.
Imma a tre anni si trova così iscritta a quella scuola, dapprima imparando alla materna canzoncine e buone maniere, poi come allieva della primaria, quindi delle medie e del liceo fino alla maturità, che supera brillantemente. E sempre frequentando anche la casa dei genitori inglesi “adottivi”. Mentre ogni estate trascorre tre mesi in Calabria a Cirò da nonna Immacolata a va al mare con gli zii.
Conobbi Imma quando si iscrisse al primo anno di università. Mi si rivolse subito nel suo inglese perfetto, dall’intonazione leggermente ironica (che mesi dopo ebbi modo di riconoscere – identica – nella madre “adottiva”). Imma – due grandi occhi neri ardenti, capelli fluenti corvini e intercalari lievemente cockney nei momenti di pausa – era talmente più “avanti” rispetto ai compagni di corso che subito le affidai delle mansioni organizzative relative ai seminari.
Per qualche settimana non me ne resi conto: tutto cambiò la mattina in cui entrai in aula prima del previsto. Imma era seduta sulla cattedra a gambe divaricate e stava impartendo ordini sguaiati in… italiano? No, non era italiano quel miscuglio di calabro-romanesco che usciva dalla bocca di quel tomboy… persino le sue labbra assumevano un disegno che non le conoscevo. Come si accorse di me, si ricompose, le labbra ridivennero quiete, l’inglese riprese il sopravvento e l’intonazione tornò ad essere quella consueta, leggermente ironica…
Io restai impietrito. Dai colleghi poi seppi delle difficoltà di Imma in storia e letteratura italiana, e degli sforzi tremendi che doveva compiere per pronunciare la seconda lingua straniera, il tedesco.
Passarono i semestri: Imma si era molto affezionata a me, e io cercavo ogni occasione per farla parlare… in italiano. Correggendole pronuncia e intonazione e dandole da leggere romanzi italiani ben scritti, e poi chiedendole di riassumerli, sia per iscritto sia oralmente. All’inizio fu un vero disastro, ma Imma era (ed è) molto tenace e piano piano imparò a cavarsela. Si laureò e poi si legò sentimentalmente e andò a vivere con un’insegnante inglese della mitica scuola in cui si era formata, e dove anche lei era stata assunta.
Una sera le due giovani signore mi invitarono a cena. Menù vegano molto british, intonazione sobriamente ironica e controllatissima in entrambe. “E in Calabria ci andate?”. “E i tuoi genitori come hanno preso la vostra unione?”. Risposte evasive, molto eleganti, leggermente prive di contenuto…
Il giorno dopo Imma mi telefona, ha bisogno di parlarmi. Viene a casa mia. E finalmente si sfoga. Da donna intelligente quale è, Imma si rende perfettamente conto dello stato di scissione in cui vive. “Sugli stessi argomenti”, mi confessa, “io PENSO in modo diverso a seconda che ne parli in italiano o in inglese”.
“Non è una questione di traduzione o di lingua. Ma della mentalità al cui interno mi sono formata”.
“Se avessi frequentato il liceo italiano, probabilmente sarei riuscita ad amalgamare i due…”, si blocca, mi guarda con le lacrime agli occhi, “i due cast of mind, quello dei miei genitori e di nonna Immacolata da una parte (per me l’italiano è quello) e quello inglese dall’altro. Così vivo con Jane e con lei mi nutro vegana, insegno a scuola e andiamo in Inghilterra dai suoi… Ma quando torno a Roma o addirittura in Calabria, dopo due giorni a morseddhu e sagne chine, non riuscirei mai a dire in italiano we’re a lesbian couple, e Jane torna ad essere soltanto la mia amica”.