di Sebastiano Aglieco
Si potrebbe dire che il grande tema della perdita attraversi tutto il nuovo libro di Luigi Cannillo. Ne è prova, ma non solo, il primo nucleo di poesie “L’ordine della madre”, concentrate intorno ai gesti postumi del figlio in lutto e che improvvisamente deve ricostruire e capire: la morte della madre tutto è, tranne che una questione sentimentale.
Così la parola si fa responsabile, le immagini vogliono respirare dentro un ordine e sembra quasi, leggendo, che ogni parola sia dovuta per compito. I versi non si sciolgono; restano alti, chiedono al lettore un’attenzione, un essere presenti, in coro. Troviamo le ricorrenze del limite, dove le parole vorrebbero custodire ciò che resta del dolore della casa.
Più ti incammini e la materia
si esaurisce asciugata dalla luce
che resta a segnare i confini
La distanza fra le case
ogni dislivello, tutto
pulsa unito nel salto
Ecco: da una parte la distanza, la corsa verso una luce infinita; dall’altra la finitezza che ci abita e che non ci chiede la resa ma l’ordine. Ora. Qui. Perché, dopo, esiste il tempo di un altro respiro, la dispersione delle orme.
L’esperienza del distacco dalle cose è la necessità della maturazione, del passaggio in un secondo tempo della vita quando una voce ci parla più sommessa, senza urlare e ci chiede uno sguardo più aperto, capace di abbracciare anche la morte, di darle una forma e un nome meno terribile.
Il tema della perdita, allora, non può che essere declinato nell’altro, ben più vasto, della condizione destinale delle creature, fatta di meteore che attraversano improvvisamente la vita e la illuminano brevemente della luce di una verità postuma.
Ecco allora delimitato un atlante di direzioni riconoscibilissime: sono i regni di competenza dei “dodici segni”, forse i testi più compatti di questo libro, in cui la meditazione poetica perviene a delineare, con immagini e simbologie, i limiti e gli splendori di un agire per estrema ratio, bastante a se stessi, ai propri rischi mortali.
In funzione centrale, allora, sia per il tema, sia per lo svolgimento, non può che trovarsi il terzo segno, i Gemelli:
«cercami nel profilo sulla parete / nel vuoto scavato nell’aria / quando ci allontaniamo / Siamo i lembi separati da sempre / da sempre ricongiunti / destinati a inseguirci / e fuggire appena sfiorati».
Si dice, qui, della diversità congiunta alla somiglianza, della necessità dell’altro; dell’ essere che si specchia nella vasta realtà del cielo da cui proviene, riconoscendo in sé il luogo di passaggio di forze oscure, eppure familiari.
Così, nel segno successivo, il Cancro, Cannillo sente il bisogno di restituire a una logica più alta, il senso incomprensibile della perdita della madre, perché, come egli dice in un passaggio, «Nel nome della madre / completeremo il cerchio dell’esilio / noi stessi madre tramandata / nella consolazione».
L’origine, allora, quando si accomiata da noi, ancora rimane nella forma delle lettere del nome: “madre”, a riconoscere nello spazio del corpo, un ordine ben più vasto e imperscrutabile.
Eppure questo corpo, il luogo dei soli avvenimenti che possiamo comprendere – gli altri ci circondano e ci accerchiano come conseguenze di ragioni a noi oscure – questo corpo non accenna a
rinunciare al suo splendore, alla possibilità di pensarsi ed educarsi, esso stesso, per resistere agli attacchi del tempo con la sola forza di un necessario esistere, della sua consunzione nel tempo.
Così il racconto di questo corpo, è ora fatto di soste, di luoghi rivisitati dopo anni, sdoppiati, dunque, da una memoria che prova a ricollocare il senso misterioso del transeunte nella più vasta epopea delle stelle; e di un altro segno in particolare, l’acquario, in cui la perdita di qualcosa che è stato, un evento custodito dalla memoria, si stringe intorno alla possibilità della parola a incarnarsi nel dolore dell’umano. «Ci stringeremo liquidi finché / dalla fonte trapassi in corpo muto / imprevista la parola».
Con questa funzione e con questa necessità si apre in effetti la sezione “Il rovescio del corpo”. Se quello della madre era un corpo-nome, icona necessaria della restituzione di tutti i sensi, il corpo in sé anela, come si è detto, alla vita, vivendo le precarie occasioni e immergendosi in un sontuoso erotismo che, dopo la luce dell’istante, è condannato tuttavia a mancare a se stesso, alla propria sete di assolutezza.
È un tema, questo, trattato in versi bellissimi in cui la descrizione dell’incontro spesso è seguita dalla preghiera di una pacificazione, dall’affannoso perpetrarsi dei piccoli altari della vita.
Il senso del corpo, allora, sembra essere restituito nella pienezza controllata della parola, e dall’ordine con cui la memoria prova a ridisegnare i luoghi dell’incontro, il partecipare nuovamente dell’evento ma questa volta nella luce malinconica – eppure più giusta – di ciò che essenzialmente è avvenuto e che ora ancora rimane:
Anche da qui si scrive
con il coraggio della separazione
Diversi sono il viaggio, e l’attesa
il passo sospeso sulla nuova soglia
ma l’esilio è seminato ovunque
Appare chiaro da questo libro, il senso misterioso di ogni scrittura: ridare un nuovo spazio alle cose rimaste accerchiate dai fantasmi futuri del dissenso; riconsegnarle a una nuova luce di grazia. Lavoro necessario nel luogo di attraversamento che abitiamo, una galleria del vento, esposti alla dispersione, ma anche alle possibilità della vita sotto i colpi di «un capitano (che) naviga il destino».
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ESTRATTI
Da: “GALLERIA DEL VENTO” di Luigi Cannillo, Ed. La Vita Felice, 2014 (euro 12,00)
L’ordine della madre
Abbiamo suddiviso a bassa voce
la farina del presentimento
Il compleanno coltiva
sulla tavola fiori coraggiosi
ma il profumo si inchina
a un vento sconosciuto
che incrina la casa da dentro
Poi semina dal dolce
i vetri sul cammino.
E stacca dal chiodo il mantello
ci precede oltre la soglia
Dobbiamo andare, vieni,
ci ha fatto strada e stende
una notte senza mattino.
Così il tempo che ci seguiva innocuo
accelera e sorpassa verso il vuoto
Hai separato la porzione, la briciola
hai soffiato come ogni anno sulla luce
ma quel respiro già si avvita in tempesta
***
Al davanzale piomba
una foschia improvvisa
e questo tamburo
annuncia il tradimento
la terra compie il suo dovere
restituire al vuoto
Restano spalancate le lenzuola
e lo spazio del sentiero limpido
si dilata nelle future stanze
sulle terrazze aperte
Dove stai andando, così di corsa?
Non c’è voce umana a raggiungerla
né sguardo che la insegua
se una forza contraria alla vita
la convoca e spinge
come volando,
come freccia scoccata nella nebbia
* * *
Gli oggetti della casa
anticipano il lutto
al giro della chiave estranea
ogni cesto inanimato si assesta
contiene il rancore delle cose:
l’elica del cucchiaio immobile
senza la mano padrona
lo sguardo che la spinge
Senza intenzione prima,
tace la ragione quotidiana
che genera vita nei ritratti
matura le fruttiere
Ma noi non possiamo seguirla
in uno sciame di anime e di oggetti
che si ricomponga in ogni luogo
Qui ogni parete aspetta
di aprirsi al ritorno
Adesso intanto si difende rapida
confina un territorio, lo nasconde
e vedova si chiude nel dolore
* * *
E’ l’avvento, fuori
fioriscono precoci le corone
nel tempo che dai cesti
espande la vigilia
Dalla nostra pietra di dolore
invisibile a ogni passante
dobbiamo scrutare il traguardo
il cuore rovesciato del futuro
La prua della finestra si dirige
decisa verso un teatro vuoto
ma prima dei fuochi
dobbiamo ancora digiunare
maturare le bacche nella brina
* * *
Pare che quando nessuno
di noi resta sveglio
qualcuno salga a cercarli
Ha portato un frutto da lontano
l’abbraccio di uno scialle bianco
Dalle corsie in penombra
hanno sentito chiamare
E all’appello si sollevano,
nella potenza del sonno apparente
attraversano il taglio dei raggi
Due forme fluttuanti affrontano
affiancate il cuore della notte
Un nastro invisibile già unisce
corpi e ombre in visita
E’ tornato anche stanotte
l’ospite premuroso
caldo di sangue e pianto,
ha ripreso il posto tra i vivi
Il suo saluto segreto
riempie i corridoi, indica l’uscita
* * *
Si è abbattuta
su quelle nuche fragili
provate dai chiodi nei cuscini
un’ala di grandine bruciante
una battaglia al petto
La parola trattenuta in gola
riunisce l’esito all’origine
la parola madre che flagella
i tendaggi, affila tutti gli aghi.
Dal passato ormai nitido
fioriscono gli abiti dagli armadi
la sua onda di capelli
anziché soccorrere trascina
il branco di madri
ai singhiozzi alla fuga impossibile
Finchè la pietà improvvisamente
spicca da un coro ciascuna
dal letto increspato
invocherà questa notte il suo nome
* * *
L’ordine della madre impronta
forme e limiti, ogni creta
e vetro in ogni armadio:
quanto accanto, quanto a distanza
mormorando il nome
Ha soffiato vento nelle spugne
acceso le luci necessarie
E i nomi scomposti così sussurrati
si definiscono attorno ai confini
conversano, è quel discorrere
l’ordine ad animare la casa
Il materno si dichiara al mondo
nella cura, la scriminatura
nel tesoro delle bocche.
L’origine, lo spazio si dispongono
nelle valigie, così l’universo
viaggia con noi, stabilito
nei nostri gesti e nel sonno
* * *
Vedi, tutto si riduce ad attesa
il superfluo brucerà nella memoria
Restano poche insegne a scorrere
tutto è ieri e sembra solo osso,
Poche righe accompagnano
che la gola restituisce all’aria
E così che l’orizzonte viene
a riprenderci, così minimi e arresi
Di fronte un quaderno aperto
continua a cercarti e chiama
dove si nasconde il proprio male
prima di arrendersi
Ripete in ogni pagina mamma
ormai è buio, è ora di tornare
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Luigi Cannillo, poeta, saggista e traduttore, consulente editoriale, è nato e vive a Milano. Ha pubblicato, tra le sue raccolte di poesia più recenti, Cielo Privato, Ed. Joker, 2005; e Galleria del Vento, Ed. La Vita Felice, 2014. E’ presente, come poeta, curatore o con interventi critici, in antologie e raccolte di saggi.. E redattore della collana Sguardi dell’Editore “La Vita Felice”. Collabora alla rivista internazionale “Gradiva”, New York/Firenze.