Luca Lanfredi, “Il tempo che si forma”

luca_manfrediPrefazione di Giacomo Cerrai

Come dissi a Lanfredi la prima volta che entrammo in contatto, io ignoro se il tempo si formi (ci sono svariate e opposte opinioni al riguardo), se sia ciclico o lineare, non so nemmeno, con Agostino di Ippona, che cosa sia davvero, sebbene poi il santo qualche convinzione in proposito l’avesse. Quel che sappiamo è che in poesia il tempo è uno dei tòpoi più ineludibili, e che soprattutto c’è, sta lì da qualche parte anche se non lo nomini, lasciandosi dietro un po’ di scorie, di accidenti e di casualità, e non si lascia misurare se non in termini di istanti.

Mi pare di poter affermare che quella di Lanfredi sia, in effetti, una poesia dell’istante. Non solo per la concisione dei testi ma anche per l’estrema sintesi dell’espressione, quasi una riservatezza del dire o, meglio ancora, un senso di inadeguatezza del linguaggio nei confronti di questo dire, come uno iato tra il cuore e la favella che almeno una volta abbiamo provato tutti, o una supposta mancanza di definizione, per dirla in termini fotografici, a cui la poesia cerca di sopperire o si arrende.
Il testo tipico di Lanfredi è un istante prolungato, un momento in cui qualcosa si realizza in una sua fugace compiutezza, un frame, come guardare fuori attraverso una finestra in giornate uggiose, uno sguardo non tanto su oggetti, su una realtà non sempre materiale (sono rari o indefiniti i luoghi fisici) o su un ambiente in cui la vita agisce le sue dinamiche, quanto su un pensiero, una luce, una improvvisa e temporanea lacerazione di un velo di Maya. Nella loro brevità, che appare essere del tutto funzionale e organica al pensiero dell’autore, le poesie di Lanfredi suggeriscono da un lato la parziale visione dell’esistenza che ci è dato di vivere, la nostra impossibilità di vederci nella nostra totalità, dall’altro la vaghezza autotelica anche di quel poco che riusciamo a vedere. In altre parole una schermaglia dialettica elusione/elisione tra realtà sfuggente e scrittura. Tuttavia la poesia di Lanfredi non è rapsodica poiché non svaria tra le occasioni, al contrario segue un suo filo di pensiero, una necessità di speculazione del piccolo per individuare il significato di qualcosa di più grande. Soprattutto sul versante emotivo della vita, nel trascorrere di un tempo che, essendo come abbiamo detto istantaneo, si realizza per lo più in un quotidiano che Lanfredi dipinge bene e con pochi tratti nel suo inflessibile riproporsi, nel suo “defluire scostante e senza tempo”. Quel che c’è di “occasionale” assomiglia appunto ad uno sguardo che sfiora le cose per poi sfocare e perdersi verso un orizzonte interiore. Si passa ad esempio nel testo dall’osservazione della pioggia ad una sete dell’anima, all’assenza di qualcosa o qualcuno; o addirittura assomiglia a ciò che potremmo chiamare un ” pensiero di pensieri”, cioè un’idea, un’intuizione che rimanda subito ad una piccola realizzazione epifanica, una impressione (usando qui un altro termine fotografico, e del resto anche l’autore in un punto parla di “istantanee rubate”). E quasi sempre si segna un passaggio (o una fuga, se preferite) tra una realtà fisica ed quella interiore, non necessariamente una migliore dell’altra ma che, ammettiamolo, ci trova partecipi come lettori. Tutti, in altre parole, abbiamo sperimentato questo disperdersi, questa perdita di contatto, al seguito di una mente che aspira a riscrivere una realtà corriva.

Il_tempo_che_si_formaTutti questi passaggi sono veloci poiché, come abbiamo detto, la brevità di 10-12 versi liberi e asciutti è la forma della poesia di Lanfredi, il suo farsi e il suo perimetro, la sua prassi e il suo stile, entro i quali mette in scena un linguaggio “moderato”, per molti versi comune, che da questo punto di vista potremmo definire “sociale”, perché economico, efficiente e non esclusivo nei confronti di chi legge. Giacché io credo che Lanfredi abbia una convinzione riguardo alla lingua poetica, e cioè che sia strumento – di evocazione più che di sperimentazione – abbastanza potente anche per quel che di vago, impercettibile e sfuggente c’è nella nostra vita.

L’indefinito, o magari l’indefinibile, è infatti l’altra cifra della poetica di questo libro e forse uno dei suoi temi di fondo. E’ quello che mi pare di percepire scorrendolo: leggendo ci si accorge che è una poesia, questa di Lanfredi, che lascia sospese molte domande (dove, chi, cosa, quale,…) come se ci si trovasse nel mezzo di una azione scenica già iniziata o gettassimo lo sguardo in un appartamento da un treno in corsa. Siamo spettatori di una apparizione, non meno di quanto lo sia il poeta, che è il primo a denunciare (in sarebbe come accontentarsi) che “questa vita, poi, […] appare / e disappare con uno svaporìo / di indizi”, una vita a sua volta disciolta in un fluidissimo tempo/spazio “nel giorno che potrebbe essere dovunque” (in con un tratto di linea i punti). A volte si avvertono, come al di là di una porta, frammenti di conversazioni con qualcuno (dici, avevi detto,…), spesso senza replica di chi (l’autore) ne registra gli effetti come cerchi concentrici alle sponde di uno stagno (in i vetri, nella sezione La pronuncia del nome), brani che il lettore è chiamato a ricomporre idealmente; altre volte, come per proustiane intermittenze, cose minute (uno “slabbrato sentimento dell’istante”, un “afferrare le chiacchiere frantumate”, un “segno chiuso”) precipitano nel giro di pochi versi in una domanda capitale: “Che cosa faremo, quando non saremo?” (in il narrare del nostro fluire), oppure verso una conclusione apodittica e sconfortata, un ribadito “Tutto qua” (in ultime notizie; e un altro testo, qua e alle pagine seguenti, esordisce con un identico “Tutto qui”).

E’ questo palesarsi, in sostanza, che attesta una realtà vissuta in maniera inquieta, proprio perché può essere còlta (e questo è un tratto di molta poesia attuale) solo per sintomi, più che per cause e radici. Anche la catastrofe, e quindi il dramma, in ragione di quel che c’è di “eventuale” nell’orizzonte poetico di Lanfredi, può essere insieme istantanea e minuta: “quante volte, la morte è poco più / che un passo non guardato?” magari nascosta dietro “solamente un gioco di parole”, si domanda il poeta (in lettera aperta). La scena è quella di una topografia incerta, anzi “insicura” dice l’autore, quasi metafisica e insieme ermetico/crepuscolare (ma è poco importante definirne gli ambiti letterari), nella quale, in una sua “crespa”, le parole (o la loro mancanza) sconfinano e precipitano, mentre l’agire si invischia (“piace l’eterna indecisione della azioni”, in inventario di una fine estate); o quella di “una stanza vuota (che) non si può dire vuota ma piena di niente” (in qua e alle pagine seguenti), ma che tuttavia vuota non è, anzi, per le ragioni che la poesia deve darsi, vuota non può essere.

Qui, insieme al poeta siamo anche noi, colpiti come mosche da questi segnali intermittenti e affascinanti, da questi istanti significativi; qui, in questa stanza come mosche “trattenuti, come da un bicchiere capovolto”.

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TROVARE TUTTO

(ogni tanto cambiano le immagini)

Ogni tanto cambiano le immagini:
è un defluire scostante e senza tempo
come di chiodi che ci sono
appartenuti.
E – vedi? – ci meravigliano le pietre
e le parole, i nostri
corpi negli occhiali, il fiotto scuro,
le pareti, le strade
gettate alla rinfusa
sopra i letti.

(l’impazienza)

 

Così, mi sto accorgendo
di non avere più quella
impazienza
che c’era da bambini a mezza sera:
di qua, l’affanno quieto delle biciclette
appena smesse; di là,
la soffice inquietudine
dell’ombra.

(l’accento)

Si è come gli alberi infilati,
questo sì. Sotto, l’asfalto
che diradica e indosso
le cortecce da sbalzare.

Dicevamo di noi, un tempo,
con quell’accento allegro
che colora e solo la realtà
può fare lingua.


(l’ottavo mese dell’anno)

Giocavano a pétanque sotto il sole.
Ricordo questo, quando mi venne dato conto
dell’assenza.
Era un borgo non grande, ma con la ghiaia
aperta perché le bocce potessero brillare.
Allora,
misi tutto il mio gesto in quella busta.


(terra tra lago e confine)

Ed anche pensavo a quell’attesa,
all’aspetto nostrano della danza, quel
pas de deux del gesto quando prima di me
passavi a salutare l’altra porta.
Morire è un niente. Succede così,
che si va via una sera e ci si
attesta.

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Luca Lanfredi è nato nel 1964. Abita e lavora a Brescia. Ha pubblicato, in formato e-book nel maggio 2009 la silloge A mezza luce (Clepsydra Edizioni). Il tempo che si forma (L’Arcolaio, 2015) è la sua prima raccolta.

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