Umberto Piersanti


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La foto di Umberto Piersanti è di Dino Ignani
 
AUTORITRATTO

Da un’idea di Luigia Sorrentino
A cura di Fabrizio Fantoni

 

Sono nato il 26 febbraio del 1941: a Urbino c’era il nevone o così è stato tramandato. Mio padre era in Jugolavia dove infuriava la guerriglia partigiana. Mia madre mi ha sempre raccontato che per nascere non ho aspettato l’ ospedale, ma sono sceso al mondo nella lettiga dove era trasportata giu’ per via Raffaello. A me piace pensare d’ essere nato davanti alla porta del mio piu’ grande concittadino, ma le probabilita’ sono scarse. La mia famiglia, mio padre, mia madre, io e due sorelle una di sette anni e l’ altra di quattordici più grandi di me, stava a villa Gloria situata a pochi metri dalle mura: una casa con vari appartamenti, abbastanza bella, abitata da professori universitari, dirigenti, insomma da una borghesia medio-alta. Il nostro pero’, era un piccolo appartamento situato nel sottoscala: mio padre lavorava alla fornace di Volponi, sicuramente eravamo i più poveri del palazzo. L’orto attorno alla villa nel mio ricordo e’ grande e bellissimo: e quando era a casa, mio padre faceva l’ortolano.

Alcuni ricordi della mia primissima infanzia. Siamo tutti sui tetti a urlare e guardare i carri armati dell’ ottava armata britannica che scendono verso Urbino e la linea gotica. Un indiano scuro e con il turbante provoca la mia paura e il mio pianto. Mia sorella Anna, la più giovane, arriva da me con delle enormi cioccolate che i soldati le hanno regalato. Vicino villa Gloria si sente suonare: e’ estate e tutti i grandi vanno a ballare al Ragno d’ Oro. Mia sorella Ebe, la più grande, forse e’ lì dentro. Alcuni inglesi entrano a casa nostra, uno in particolare ci porta barattoli di pesche sciroppate e sta sempre vicino a mia sorella. Si racconta con raccapriccio che quelli di colore hanno fatto del male, un grande male, a una madre e due figlie. La madre non e’ riuscita a salvare le figlie inchiavando la stanza.

La guerra finisce: vado spesso alle case delle mie nonne, paterne e materne. Quest’ ultima sta in fondo ad un fosso, circondata da macchie folte. Da Urbino per arrivarci bisogna camminare cinque ore. Sono stato nelle foreste americane e nel Sahara, mai pero’ ho provato un senso di distanza come quando i torricini del palazzo ducale sparivano dalla mia vista.
Il mio bisnonno si chiama Madìo, ha quasi cent’ anni e mi racconta una strana storia.
«Lo sai Umbertino sà m’ e’ success ogg?»
«Racconta nonno?»
«Andavo giu’ per il fosso di Che’ Spasso e ho visto un cagnetto pccin, pccin: m’ ha fatt anca compassion e l’ ho fatto salire nel biroccio. Santa Madonna, non l’ avessi mai fatto! Il cagnetto diventava sempre più nero e più grosso e dal pelo mandava i lusini e i lampi. Allora sei il diavolo! e gli ho dato una frustrata: quello ha messo le ali, è volato dietro il monte della Conserva.»
E mio nonno mi faceva di questi racconti come se mi parlasse d’ andare a prendere il caffè da un amico o di mietere il grano. Sono dunque cresciuto in un mondo dove la parola e il racconto, più o meno visionario, avevano un grande peso.

Non c’ era la televisione o la radio e non c’era neanche l’ acqua in casa e la luce elettrica.
Le nebbie cerchiavano la casa e nelle notti serene le stelle splendevano grandissime.
Poi c’era la scuola ad Urbino: la mia maestra mi aveva letto una poesia di Ungaretti dedicata alla madre, che era bellissima, un po’ dentro la terra un po’ dentro il cielo.
Ho avuto un ottimo rapporto con la scuola: maestri professori straordinari. Alle medie il professor Tenella che aveva fatto la guerra in Russia da cavalleggiero, ci spiego’ Davanti San Guido. Mi piaceva di immaginarmi con la stessa eta’ di Carducci, ero un vecchio poeta che ritornava a vedere i luoghi della sua infanzia.

Alle medie ho incominciato a scrivere, lo facevano alcuni dei miei amici, uno in particolare, Luciano Fabi che aveva iniziato per primo. Il mio era un lungo poema sull’ Atlantide mescolando la lettura dell’ Iliade tradotta da Monti ed Emilio Salgari. Alle superiori formammo un circolo giovanile: c’era una bacheca a scuola dove mettavamo racconti e poesie pretendendo che gli altri studenti e i professori li leggessero. Credo che il racconto un po’ più impegnativo fosse quello di una salita sull’ Olimpo fatta in un tempo remoto da tre personaggi che andavano a vedere se lassu’ c’erano davvero gli Dei. Storia che ho ripreso nel romanzo Olimpo ( Avagliano 2006)

La mia adolescenza è stata intensa e bella, l’ unica eta’ che in un qualche modo può rivaleggiare nella mia vita con l’ infanzia. Circoli culturali, viaggi, passeggiate sulle Cesane, discese nei vulcani spenti. Tutto questo rivive nel mio film L’età breve (1969) e nel mio primo libro di poesia La breve stagione (Ad libitum 1967). E’ in questi anni che si forma e si consolida una mia idea dell’ amore che sarà fondamentale in tanta parte della mia opera. Un amore magari breve, ma totale ed assoluto, teso alla ricerca del «fermati un attimo sei bello!». Un uomo ed una donna lontano dal chiacchiericcio e dal quotidiano che dominano la vita: magari persi in una trattoria tra i monti o distesi in un campo mentre scende il sole. Una donna classica e romantica nello stesso tempo: il sesso come dimensione importante, ma sublimata dentro la perfezione del quadro.

Poi c’e’ la giovinezza che continua con la ricerca degli amori e degli incontri e si arricchisce del gusto della lotta e dell’ impegno civile. C’ erano gli amici per andare a ballare a Cattolica o Riccione e quelli con cui discutere sulle sorti del mondo e della rivoluzione. Se ad Urbino, dove seguivo i corsi di lettere e filosofia, avevo un certo successo con le ragazze, a Riccione e Cattolica, nei dancing della riviera, per me era proprio un disastro.

Intanto le mie letture erano intense e continue: avevo cominciato le elementari a casa di mia sorella Ebe e di mio cognato Eolo a leggere poemi cavallereschi. Anni prima dal loro viaggio di nozze Eolo ed Ebe mi avevano portato Le due tigri di Salgari. Quest’ ultimo mi piaceva più di Verne e di altri acclamati autori per ragazzi: c’erano cosi’ tante battaglie e tigri e serpenti, lotte con i pugnali e le scimitarre, senza quei difficili e astrusi discorsi scientifici che si trovavano in Verne. Dopo, tra i sedici e i diciotto anni, ho divorato tanti classici della letteratura mondiale, più romanzi che poesie. Ma c’era Leopardi e lui era cosi’ totale ed assoluto, dire Leopardi era come dire poesia. Adolescente amavo anche moltissimo l’ Aminta del Tasso, il sogno d’ una radura perfetta e riparata dalla durezza del vivere.

All’ universita’, ma ancor prima al liceo, amavo i grandi italiani vissuti tra la fine dell’ ottocento e i primi del novecento: Carducci, Pascoli, D’ Annunzio. Trovavo in loro quella musica, quella distesa forza delle immagini che mi sono entrate dentro. Certo, come tutti i giovani leggevo Baudelaire e gli altri « maledetti». Non ho mai fatto parte dei tanti che esaltando questi autori irridevano i poeti italiani dello stesso periodo. Negli anni universitari sono stati importanti Lorca e Neruda. Avevamo prima un fondo e poi una soffitta dove stare insieme con le ragazze ed io facevo sempre loro sentire i dischi di Lorca e di Neruda letti da Foa’ e Albertazzi. I miei amici erano un po’ piu belli e con più soldi di me, la poesia restava una delle poche armi di seduzione.

L’ impegno politico mi portava spesso nei paesi dell’ est: uomo di sinistra mi accorsi immediatamente di quanto fossero negativi i loro sistemi di governo e cominciai subito a muovermi su una direzione « socialdemocratica « di tipo europeo. Il sessantotto mi vide tra i contestatori, ho occupato l’ universita’ e partecipato agli scontri: ma per molti ero uno « sporco revisionista» e mentre stalinista suonava allora come un titolo d’ onore, revisionista era quasi peggio di fascista. Inoltre non credevo nella rivoluzione culturale cinese e nei vari regimi terzomondisti che la sinistra contrabbandava come progressisti e rivoluzionari: bastava che fossero antiamericani. La violenza di quegli anni entra nelle mie poesie e sono molto duro contro gli assassini rossi a quelli neri somiglianti, le compagne sensistive di Lotta Continua e tanto altro che consideravo ciarpame. Poesie di questo tipo si possono leggere in Nascere nel ’40 (Shakespeare & co.) e in Passaggio di sequenza (Cappelli 1986). Su quegli anni ritornero’ nel romanzo Cupo tempo gentile (Marcos y Marcos 2012)

Attorno ai trent’ anni ho avuto una grave crisi di carattere esistenziale provocata da un incontro latamente religioso che non avevo cercato, ma che mi era stato preparato in modo ingannevole. Non e’ stata una cosa semplice, ma drammatica e mi ha lasciato inquietudini e paure varie. Racconto tutto questo nella raccolta L’ urlo della mente ( Vallecchi, 1977 ).

Anche se la crisi lascia segni nel profondo, gli anni seguenti sono ricchi e movimentati. Viaggi, amori, libri, incontri. Racconto questo tempo sostanzialmente lieto nella raccolta Passaggio di sequenza (Cappelli, 1986 )

In questi anni, organizzo ad Urbino grandi eventi: il primo e’ un festival nazionale di poesia del 1977 al quale partecipano tanti autori gia’ noti ma che il tempo avrebbe ulteriormente confermato. Seguiranno altri incontri ad Urbino e Fano: in questa città io e Fabio Doplicher creiamo « Poesia della metamorfosi»: il titolo e’ dell’ autore triestino. A Fano facciamo venire alcuni tra i più importanti autori e critici come Giorgio Caproni e Carlo Bo.

Nel 1994 escono da Einaudi I luoghi persi. Questo libro ha avuto ben nove edizioni e credo che sia stato quello che mi ha fatto conoscere ad un pubblico più vasto. « Il tempo differente e « I luoghi persi» sono elementi di fondo della mia poetica. « Il tempo differente» e’ quello vissuto da solo con una donna in uno spazio magico e distante, così come magica e distante appare l’ ora vissuta nella memoria. «I luoghi persi» sono quelli fuori dalle strade maestre, un sentiero che si inerpica tra le macchie dove la vita si rivela più intensa e vera rispetto al quotidiano che ci opprime. Ma soprattutto sono i luoghi della memoria: quella casa laggiu’ nel fosso, quel mio bisnonno che mi racconta dello sprovinglo, Il diavolo contadino delle Cesane, la mia nonna Fenisa che cerca i funghi e parla con le anime nei boschi. Un mondo contadino rivissuto attraverso una memoria che lo rende mito. « Una volta passati sogni e ricordi sono la stessa cosa» dice il protagonista del mio romanzo L’ uomo delle Cesane ( Camunia, 1994). In questi anni viene a definirsi e a completarsi la mia poetica. L’ infanzia, le figure parentali, gli avi, le sorelle acquistano una precisa forza e consistenza, cosi’ come le Cesane diventano una vera e propria «patria poetica» . La casa nel fosso e’ il luogo specifico da dove si muovono vicende e memorie.

Seguiranno altri due libri usciti da Einaudi. Nel tempo che precede ( 2002) e L’albero delle nebbie ( 2008). «Il tempo che precede» e’ quello che precede, accompagna e segue di poco la nostra nascita. E’ il tempo dove impariamo a percepire il mondo e a collocare nello spazio e nel tempo cose, persone ed eventi. « L’ albero delle nebbie» e’ lo scotano, arbusto di origine balcanica, che cresce nelle zone attorno Urbino: il suo colore rosso acceso illumina la strada del pastore nella nebbia come la poesia da’ un senso alla vita di chi la scrive.

Anche la narrativa ha un posto nella mia opera: dopo L’uomo delle Cesane esce nel 2002 da Marsilio L’ estate dell’ altro millennio. L’amore per la natura si incontra con il gusto della storia in un grande affresco della seconda guerra mondiale.

Nel frattempo irrompe nella mia poesia la figura di mio figlio Jacopo. Fino a quattro anni e mezzo bambino eccezionale: sa raccontare le favole che gli insegno, distingue i colori più sfumati come il fucsia e da’ loro il nome esatto. Dopo arriva la sindrome autistica, in una forma piuttosto dura: «disturbo pervasivo dello sviluppo». Per un certo periodo provo a non parlarne, ma e’ impossibile. Jacopo diventa nei miei versi un essere straordinario, lontano e magico da coniugare con quelle figure favolose dei miei avi sulle Cesane. Dopo qualcosa cambia: tornato a vivere con lui e con la madre dopo un lungo e tormentato rapporto, Jacopo mi appare nella sua nuda realta’ di fatica e dolore che pero’ non intacca la tenerezza e la dolcezza, cosi’ come precedentemente il mito non aveva intaccato la smorfia di dolore e la sofferenza. Jacopo di questi anni e’ protagonista di Nel folto dei sentieri (Marcos y Marcos 2015) E la natura intanto si arricchisce anche di quadri marini.

In questi giorni nei prati e nei campi delle Marche fiorisce il favagello, un fiore che ha i petali d’un colore giallo squillante e le foglie d’un verde intenso e umido. Nella mia poesia sono tanti i fiori e le erbe: ma il favagello nessun altro poeta lo ha mai nominato nella storia della letteratura italiana. Io lo guardo e non capisco come possa essere successo: e’ cosi bello e luminoso.

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