Un bestiario, di Mariagiorgia Ulbar

ulbar_libridi Maddalena Lotter

Nella sua opera per bambini “Pierino e il lupo” (Petja i volk, 1936), il compositore russo Sergej Prokofiev sceglie di affidare ad ogni strumento musicale il ruolo di uno dei personaggi della storia. Il suono allusivo del clarinetto è il gatto, la leggerezza del flauto è l’uccellino, i tre corni francesi sono il lupo, e così via. Questo perché è più semplice, nel caso di Prokofiev, per un pubblico di bambini, far comprendere il messaggio artistico attraverso la personificazione/animalizzazione della musica in figure già note agli ascoltatori per alcune caratteristiche: il gatto è sornione, l’uccellino è vivace, il lupo è forte.
Nell’universo letterario medievale, i bestiari erano testi che contenevano descrizioni di animali reali o immaginari accompagnate spesso da alcune considerazioni simboliche, moralizzanti e religiose. E’ facile comprendere come già allora la catalogazione delle bestie fungesse da descrizione e spiegazione dei caratteri umani.

Nel suo bestiario del XXI secolo, (Nervi edizioni, 2015) Mariagiorgia Ulbar è un poeta scienziato e ci offre un’arte precisa, una poesia che per darsi necessita di oltrepassare la parola stessa, fino a farsi dipinto, graffito di figure di animali: ci muoviamo così dalle foche alle lucertole ai minuscoli ragni rossi alle silenziose balene degli abissi, e in ognuno di questi inconsueti personaggi siamo portati a riconoscere una trama della realtà. “Siamo le aquile qui oggi e i falchi” scrive la poetessa, coinvolgendo i suoi lettori e se stessa in una grande arca che forse non salva dai diluvi. Le lucertole sono animali a sangue freddo, “freddo sangue, come le fredde cose / degli istanti in cui soli si è / e si sarà soli sempre.”; umana è anche l’inavvicinabilità dei lupi, selvaggi in tutto, anche nell’espressione degli istinti più intimi e crudeli; ma i più uomini sono proprio i ragni rossi che “assediano i balconi / a fare percorsi svelti di pietra / senza avere però nessuna meta / schiacciati con grazia dai piedi / di chi nell’incedere senza pensarci / fa i suoi passi e insieme fa una strage.” Vi è poi la possibilità di un’evasione con l’elefante, “l’animale che cavalco” per vivere un viaggio favoloso che porti lontano dalla prigione della mente, un viaggio carnale, forse anche d’amore e di erotismo: “sedergli sopra, aver trovato un mezzo / mastodontico e forte che ci perdo / tutta la fragile ragione se lo guardo.”

In “Un bestiario”, la natura è specchio della vita umana e più generalmente della vita tutta. Forse, come in Prokofiev, anche per Ulbar risulta più semplice osservare la vita degli animali per intendere la propria, poiché guardare quella umana è un compito troppo confuso: gli uomini hanno la testa e nella testa si mescolano tutte le carte della realtà. “Un bestiario”, invece, è un testo senza psiche. L’indagine dell’anima è allontanata per lasciare spazio all’evidenza della Natura, a una vivisezione empirica, che permette di parlare degli uomini attraverso gli animali.

L’intuizione sottesa a questo catalogo bestiale è che la condizione umana e animale sia in fondo la stessa, e cioè quella di sopravvivere nel mistero, il mistero inspiegabile del tempo, dell’incontro e dell’abbandono, di essere uno e non un altro (o forse sì? “Un cavallo ora è il sesso ora la morte / la libertà oppure la liberazione, / mi stendo e sogno ancora: / io sogno un cavallo e poi il sogno / è un cavallo / e io femmina e maschio messi insieme.); è insomma il mistero dell’esistenza, un tema, questo, che ricorre in tutta la produzione di Mariagiorgia Ulbar; si pensi al suo Gli eroi sono gli eroi, (Marcos y Marcos, 2015) libro denso, simbolico, se per simbolo s’intende un luogo visibile e invisibile che restituisce senso ad ogni sua rilettura. Fra tutti gli animali che abitano il mondo, comunque, la risposta al mistero della vita risiede in quelli più distanti da noi: le balene, nei recessi profondi del mare: “E tra noi e loro solo il buio / e l’acqua immobile / e secoli di sconoscenza / di vita animale perduta / di vivere per cibo e per stanchezza / e vastità che non sappiamo immaginare.”

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ESTRATTI
Da “Un bestiario” – Mariagiorgia Ulbar
Nervi edizioni, 2015

Noi finiremo come i ragni rossi
minuscoli che assediano i balconi
a fare percorsi svelti di pietra
senza avere però nessuna meta
schiacciati con grazia dai piedi
di chi nell’incedere senza pensarci
fa i suoi passi e insieme fa una strage.
Piangeremo allora i nostri morti
metteremo a memoria, noi ricorderemo
ma usciremo per natura nostra ancòra,
quando di nuovo tornerà l’estate,
a correre in tondo sulle pietre
per essere infine macchie rosse
a segnare stagioni ripetute.

*
Ho visto le balene una notte
arenate nei pressi di uno stagno.
Tu dormivi teso nel respiro
e io vegliavo, tesa anch’io ma senza sonno.
Dormivano loro per sempre o
quasi per sempre
una almeno, mezzo respiro e un soffio più sottile.
E tra noi e loro solo il buio
e l’acqua immobile
e secoli di sconoscenza
di vita animale perduta
di vivere per cibo e per stanchezza
e vastità che non sappiamo immaginare.
Siamo tra la camera e lo stagno
e come ci arrivammo non si sa;
nessuna differenza, nessuna, amore,
due morti e due vivi per poco soltanto.

*
Corpo teso, membra così belle
e una testa divisa e paurosa,
io fui sempre distante
cavalcai velocissima in un sogno
senza briglie mi tenevo a niente
e poi ancora in sogno
o forse allucinata dalla febbre
cavalli sauri in riga
un battito di zoccoli insistente.
Un cavallo ora è il sesso ora la morte
la libertà oppure la liberazione,
mi stendo e sogno ancora:
io sogno un cavallo e poi il sogno
è un cavallo
e io femmina e maschio messi insieme.

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