Esce oggi in Italia il romanzo “Vera”, di Jean-Pierre Orban (Gremese Editore, 2016) vincitore del Premio libro europeo 2015. La traduzione italiana è di Micol Bertolazzi.
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Il libro sarà presentato alla Feltrinelli di Via Appia, a Roma, l’11 Maggio 2016. Sarà presente l’autore e interverrà Erri De Luca.
“Quella sera a Parigi, o il giorno dopo, non so, tutti forziamo la verità, sì, tutti mentiamo, ho cominciato a scrivere.”
Conversazione con Jean-Pierre Orban
di Silvia Guzzi
«Collar the lot – Acciuffateli tutti », queste parole pronunciate da Winston Churchill sono in qualche modo il punto di partenza del suo racconto ai quali fanno eco gli inni mussoliniani che hanno inaugurato il mito degli “Italiani all’estero”. Il percorso della protagonista, Vera, figlia di immigrati italiani a Londra all’epoca della Seconda Guerra Mondiale e all’indomani di questa, è una lenta traversata alla ricerca di radici e di una identità.
Perché ha scelto quel periodo storico? In quale misura le è caro?
Il legame è innanzitutto familiare. I miei nonni sono emigrati negli anni venti in Belgio, dalla Romagna. Ho trascorso parte della mia infanzia in Africa e sono anche vissuto, in Belgio, nella periferia operaia di Liegi dove ho visto la vita della comunità italiana e i suoi comportamenti (e la volontà ad integrarsi, o addirittura assimilarsi al nuovo paese), le sue lingue, la sua “missione” cattolica gestita da preti e religiose venuti direttamente dall’Italia. In Africa vedevo i missionari belgi evangelizzare gli Africani, in Belgio vedevo i “missionari” italiani sostenere la fede “italiana” degli immigrati.
C’è anche da dire che mia madre mi parlò molto del fascismo e fu la tipica donna con l’ambizione di riuscire nel paese del quale aveva acquisito la nazionalità unicamente per via del suo matrimonio con un Belga, e allo stesso tempo la fierezza della sua differenza e la nostalgia delle radici, radici che lei possedeva attraverso la lingua, i legami con la famiglia rimasta in « paese », i viaggi, le letture, l’immaginazione anche…
Tutto questo disegna dei percorsi attraverso l’Europa ma anche attraverso una storia, quella del XX secolo. E un confronto a volte violento, a volte assurdo fra donne e uomini che non avevano, a causa di una loro situazione sociale che gli imponeva la sottomissione, i mezzi non solo per capire ma per pensare di poter capire. Gente presa fra i lacci della Storia.
Se ho voluto rendere giustizia alla storia? Sì, la storia con la “s” piccola, contro l’ingiustizia, spesso, della Storia con la “S” grande. Contro il potere degli uomini (e dopo anche delle donne) politici che giocano con i paesi di cui pensano di essere i proprietari e con i milioni di vite e di… morti di cui raramente rendono conto. E questo potere lo voglio denunciare in quanto a volte viene usurpato anche da quelli che diventano – attraverso i meandri della Storia – eroi, “salvatori”. Indubbiamente Churchill ha contribuito a salvare l’Europa dal nazismo. Ma è stato a lungo un ammiratore di Mussolini. Come altri dirigenti europei, ha cambiato parere quando Mussolini ha attaccato lo spazio riservato alle colonie europee in Africa. Poi, quando l’Italia ha dichiarato la guerra alla Gran Bretagna, ha lanciato quel terribile grido, Collar the lot, non solo contro i nemici del suo paese ma, in maniera indifferenziata, contro tutti i residenti di origine italiana, anche quelli che avevano la nazionalità britannica e ha arrestato rifugiati tedeschi e austriaci che fuggivano dal regime nazista.
Bisogna sempre ricordare agli uomini e alle donne di Stato che non sono proprietari del potere che gli è stato dato ma che devono riconsegnarlo, e riconsegnarlo pulito ed integro!
Ho sempre criticato con forza Leopoldo II, re dei Belgi, per il potere che si era arrogato appropriandosi di una terra, il Congo, 18 volte più grande del Belgio. Lo farò o vorrei farlo ogni volta che un uomo o una donna dimentica gli individui del suo popolo e dei popoli stranieri con i quali ha a che fare.
(Foto di Jean-Pierre Orban©George Daniel Murphy)
Quali sono state le sue fonti di documentazione e il suo percorso d’autore?
Sono vissuto a Londra per quasi otto anni. Ho intrapreso la scrittura di una serie di romanzi, di cui “Vera” fa parte, e ho voluto ricollocare in Gran Bretagna la storia che conosco dell’immigrazione italiana. Ho voluto con questa presa di distanza che il racconto non fosse direttamente legato alle mie fonti familiari. Ho fatto delle ricerche sulla comunità italiana in Gran Bretagna, alla British Library e altrove, ho percorso di lungo in largo il quartiere di Clerkenwell, la vecchia Little Italy, oggi un quartiere in, e mi sono imbattuto tra l’altro nella memoria del naufragio dell ’Andora Star dove sono annegati, nel Luglio del 1940, centinaia di Italiani, Tedeschi e… Britannici (i militari) mentre venivano deportati verso il Canada su ordine di Churchill.
Come autore, ho esplorato diversi generi perché il passare dall’uno all’altro è qualcosa che mi affascina (il passaggio delle frontiere, in tutti i sensi del termine, è un tema che mi ossessiona): libri per giovani, racconti, teatro, saggi, racconti poetici. La poesia è l’arte letteraria più pura, la perla insomma, ma il romanzo offre maggiori possibilità per raccontare una visione del mondo (e di sé, e degli altri in questo mondo). Ho sperimentato altre scritture attorno al romanzo e, come dicevo sopra, dopo aver rimesso in discussione la mia visione di questo genere (dopo gli esperimenti degli anni 80-90 dove la narrazione riprendeva i suoi diritti), ho intrapreso un progetto ampio, quasi mastodontico, con una serie nella quale “Vera” si inserisce. Mi diletto dunque nella scrittura, sapendo che mi richiederà tempo perché le prossime parti saranno anch’esse ampie.
Ha dato molto spazio alla lingua, alle lingue, come strumento principale di comunicazione, di integrazione o esclusione, segno di modernità (e di dissolvenza nel paese di accoglienza) o segno di attaccamento alle origini. Inoltre, la descrizione dei genitori di “Vera” il personaggio che propone in questo libro, veicola l’immagine di Italiani estratti da un contesto povero, incolto, incluso sommesso. Due temi assieme conturbanti e fonte d’ispirazione. Quando Vera si “vergogna” dei suoi genitori, quando intraprende la sua “ascesa sociale”, lotta per una vita nuova. Eppure la sua reazione di distacco dai suoi genitori che hanno “scelto” di espatriare è controbilanciata dalla ricerca avida delle sue proprie radici. Perché ne ha fatto una combattente? Quali sono le maggiori fragilità di questa donna? In che modo è una preda per i movimenti fascisti, e in che modo è vulnerabile nel paese di accoglienza?
La lingua, per me, è uno strumento essenziale di relazione col mondo. Dice ciò che del mondo vediamo. Ogni lingua porta in sé una singolarità propria. Non si dicono le stesse cose in una lingua o in un’altra. Ma, per me, la lingua è anche di più: una terra, un paese. La terra che non può essere strappata, che rimane in bocca, nella carne per sempre.
Non si è studiato abbastanza ciò che la lingua, le lingue, il passaggio o no da una lingua a un’altra, dice delle difficoltà, delle ambiguità d’integrazione dei migranti. In “Vera” provo – ovviamente perché sono vissuto e vivo in un contesto plurilinguistico (francese, inglese, italiano, e quando sono in Belgio anche fiammingo) – a rimettere in discussione questo tema in un racconto, un racconto di vita certo fittizia ma altrettanto reale. La storia di Vera passa dalla lingua: ne rifiuta una (l’inglese), s’innamora di un’altra (l’italiano) per poi diffidarne pensando di poter trovare un no man’s land, una terra e una vita nuove in una terza lingua, il francese. Questa è la sua utopia ma è una bella utopia, tuttavia sempre un’utopia perché se è vero che ha voluto fare di suo figlio un cosmopolita, multi-sfaccettato, multilingue, si ritrova di fronte ad un ragazzo che si chiude nel mutismo, che non capisce perché non è concesso, anche a lui, di avere delle semplici radici. Questo per me simboleggia la grandezza del nostro mondo oggi aperto, di una mondializzazione culturale che dovrebbe essere positiva, ma anche la difficoltà per ognuno a trovare i suoi riferimenti. Proprio questa ambiguità, insieme vantaggio e dolore, è particolarmente sentita tra i giovani, specie tra quelli provenienti dall’immigrazione. È evidente.
Il contesto di povertà dei genitori di Vera? Ho conosciuto quel mondo, quelle persone che dicevano ai loro figli di non farsi notare, di rasentare i muri. È un’attitudine comune alle prime generazioni di ogni migrazione, italiana, ebrea, araba. E poi, l’immigrazione è al 90% “povera”. Spesso ci scordiamo che lei è, loro sono – questi migranti “poveri” o diventati “poveri” proprio a causa dell’immigrazione – l’anello debole delle nostre storie/Storie di sedentari. E i sedentari non capiscono niente dei nomadi. È la storia ancestrale, mitica di Caino e Abele.
Di fronte a queste tensioni create dall’immigrazione, la seconda generazione e le successive reagiscono diversamente dalla prima. Alcuni tentano e riescono ad assimilarsi, altri si fanno carico della “sofferenza” e della rivolta che i loro genitori o nonni non hanno potuto o voluto assumersi. Alcuni diventano dei combattenti. Oggi ne vediamo il parossismo nelle generazioni di origine araba, anche se poi vi si mescola una deriva delinquenziale, che è lei stessa una manifestazione del malessere dell’immigrazione e dell’integrazione mal riuscita. In questo contesto, la “vergogna” dei giovani nei confronti della sottomissione e, più forte ancora, della povertà, del lato miserevole dei genitori, è un sentimento classico. Altrettanto classico è la disperazione dei genitori che vedono i loro figli abbracciare ideologie ingannevoli giunte dai loro paesi di origine. Che fare però quando si dice – come diceva Mussolini – ad un(a) giovane, come Vera per esempio, che non è più una di quei miserevoli immigrati bensì un’Italiana all’estero, una rappresentante della grandezza dell’Italia, a sua volta erede dell’impero romano? Che fare dinnanzi a questi giovani oggi che, non sentendosi accettati nei paesi di accoglienza, si sentono dire che sono gli eredi di qualche grande civilizzazione, di un’antica potenza e quando vengono attratti da un “califfato” – un termine mitico – per diventare degli eroi, o per lo meno dei combattenti e non più degli scarti o dei delinquenti?
La fragilità di Vera deriva anche dalla sua capacità a riscattarsi. Il problema sta nell’orientare questo riscatto…
Perché ha scelto di seguire il percorso di una donna? Il suo libro sarebbe stato molto diverso se il protagonista fosse stato un uomo?
Bella domanda. « Vera » rappresenta una parte dell’insieme dei miei romanzi. Era il titolo per questa parte: il racconto di questa donna. Il racconto è suo, non mio. Mi sono messo profondamente al servizio della sua parola, o meglio della sua presa di parola. Mi è piaciuto tanto: essere un altro, un’altra, e per un uomo, una donna è insieme molto vicina e molto diversa. Il mio unico timore era che le donne mi dicessero poi che non avevo capito nulla di loro, che ero un impostore.
E poi, scrivere a nome di una donna mi permetteva anche di prendere le distanze dalle mie emozioni, dalle mie opinioni personali sui temi trattati. Guardavo come qualcun altro – che non ero io – reagiva alle difficoltà e alla felicità.
Ed è anche, perché non dirlo, una sorta di omaggio alla madre, a mia madre, anche se il percorso fattuale, storico, non è il suo. In questo romanzo, sono insieme la madre e il figlio. Meriterebbe un’analisi freudiana…
(Parlamento Europeo, Bruxelles 8 Dicembre 2015. Consegna del 9° Premio del libro europeo.
Da sinistra, Erri De Luca, presidente della giuria accompagnato da Giusi Nicolini, sindaco di Lampedusa, France Roque, e lo scrittore belga Jean-Pierre Orban, vincitore del premio per il suo libro « Vera » nella categoria romanzo.)
Uscendo dal periodo storico che descrive, si potrebbe allargare questa doppia lotta attorno alle origini ad ogni conflitto generazionale?
In effetti, lo si potrebbe, tuttavia per me non è al centro delle mie preoccupazioni in questo romanzo. Il conflitto generazionale esiste ma come ho detto prima, esiste nella visione dell’integrazione, delle radici, nella relazione alla terra di origine e alla terra di accoglienza.
Il tema della morte, della perdita, è onnipresente. Un’analisi psicologica dei personaggi, in particolare di Ben, il figlio di Vera, la terza generazione insomma, indica un finale tragico che trova origine in qualche modo nella sofferenza di lutti non compiuti. Esiste un legame fra il lutto per le persone care e il lutto per le radici identitarie?
La morte – e anche una certa follia – pervade tutto il romanzo. Il personaggio che ne porta le tracce più forti è Ada, la madre di Vera. Fa pienamente sua questa relazione con la morte. Per lei, che ha dovuto abbandonare i primi figli morti in Italia, solo la morte è reale. Il resto è gioco e impostura degli umani. È lei che tiene il discorso più radicale sugli umani.
La morte è presente nella guerra che Vera attraversa come un mondo di corpi svalutati, che sfocia in una sua deriva sessuale.
In quanto a Ben, forse sì in lui c’è un lutto non compiuto. In ogni caso, come per le terze e quarte generazioni che conosciamo oggi, c’è questa eredità di una morte, di un disastro, di cataclismi storici o individuali ai quali non sono state direttamente confrontate ma di cui devono portare il peso senza capirne i meccanismi, le poste in gioco. Di fronte a questa eredità, le risposte possono essere diverse. O l’indifferenza che finisce in un rifiuto o in una immersione nel materialismo più concreto, più volgare insomma. O il prendere su di sé la morte in una lotta letale, forse anche come un sacrificio: è la deriva verso la guerra, la delinquenza sanguinosa, il terrorismo violento (anche noi abbiamo la nostra morte, il nostro sangue, quel sangue che Vera immagina di sentirsi colare fra le gambe al Foro romano). Oppure il mutismo, come per Ben, che lo rinchiude tutto: un po’ di delinquenza, un po’ di indifferenza e il ravvicinamento con la nonna che va di cimitero in cimitero, lei per cui le radici sono questi morti sotto terra. E per Ben, la morte che la nonna esalta è probabilmente, inconsciamente, il silenzio più grande. Il culto della morte, la rivolta più estrema.
Oserei dire che il suo romanzo propone un finale aperto, il lettore sceglierà fra la disperazione di un mutismo definitivo e la speranza di una parola ritrovata… Fra il grido di una nonna che giudica i viventi come delle bestie, dal bès-ci, e un racconto come il suo che tornerebbe a dare la parola ad un vissuto annegato nell’invisibilità… Illusione di speranza o speranza reale?
Un romanzo, per me, vale soprattutto se permette letture diverse. Quindi più letture ci sono, più un romanzo ha valore. L’apice lo raggiunge l’opera di Kafka, le cui letture sono infinite.
Sì, ha ragione, in « Vera », c’è questa tensione fra la parola cercata, forse ritrovata, di Vera e il silenzio di Ben. Ma c’è, in queste ultime righe, la speranza per Vera che Ben un giorno esca dal suo mutismo e riorganizzi il suo discorso fatto di esitazioni, frammenti, lingue diverse. Quindi alla fine mi auguro che la speranza la vinca sulla disperazione…
A partire da una parola chiave, lo « sradicamento », lei dipinge un vissuto storico che risuonerà probabilmente molto forte in Italia ma pensa che si possa leggere questo tema anche in modo più globale alla luce dei fatti di attualità ?
Credo di aver risposto già in parte a questa domanda, che è essenziale per me. La questione delle frontiere, dei passaggi delle frontiere, degli spostamenti d’individui e di popolazioni sarà il tema chiave del XXI secolo, del suo inizio in ogni caso. Assieme al tema del clima. E i due saranno probabilmente legati. La ricomposizione dei territori fuori dalle grandi guerre, ma causata da una molteplicità di piccoli conflitti e tragedie locali, tutto ciò provocherà degli incroci di erranza dovunque. Cosa faremo allora? Alzeremo muri? È illusorio, ridicolo e disumano. Bisognerebbe cambiare noi stessi, adattarci all’altro (e questo vale sia per chi accoglie che per i migranti), oppure ci scanneremo. Wait and see. Però il vaso è colmo. È oggi che bisogna agire!
UN ESTRATTO DAL LIBRO
“Acciuffateli tutti. Churchill parlava l’italiano? Conosceva qualche parola di questa lingua? E avrebbe impartito quell’ordine nella lingua di Augusto, il padre di Vera? Si ha il coraggio, una volta fatto lo sforzo di tradurre il nostro pensiero nelle parole dell’altro, di condannarlo all’esilio? E mandarlo a morire? Mandarlo a fondo, come Augusto, “l’imperatore-clown”? Il fondo, Churchill non poteva prevederlo. È quel che è stato detto e che si dirà. Si dicono tante cose, dopo. Ma è prima, che bisogna evitare di dirle. In seguito si parlerebbe di meno. Si starebbe zitti. Non ci si lascerebbe incantare dalle menzogne. Non ci si lancerebbe in affabulazioni. Tutte quelle storie che si inventano solo per nascondere i propri difetti. Tutti quei racconti che si costruiscono poco a poco, parola dopo parola, man mano che scompaiono gli esseri, le cose, i fatti che dovrebbero rappresentare. Ogni cosa di meno, o un uomo di meno, è poi una parola di troppo. Staremmo zitti. Oppure parleremmo per dimenticare. Ogni parola ridurrebbe al nulla il fatto che c’è dietro. Ogni frase farebbe scivolare i fatti che racconta nella nebbia, da cui non sarebbero mai dovuti uscire, come un canto che si spegne. Nella notte. O nelle acque. Come Augusto. Piede. Gamba. Braccio. Ventre. Bocca. Scrivere come si cancella.”
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Jean-Pierre Orban è nato in Belgio, di madre italiana e di padre belga. Ha trascorso la sua infanzia in Africa e la sua giovinezza in Belgio. È vissuto a Bruxelles, Londra e vive attualmente a Parigi. Filosofo e giornalista di formazione, ha anche fatto studi di teatro e ha lavorato per l’editoria, il giornalismo e la pubblicità. Oggi dirige una collezione di libri ed è ricercatore associato presso un istituto di ricerca letteraria a Parigi (ITEM). Ha tradotto opere dall’inglese (fra cui alcune di Mark Twain e Hanif Kureishi) e dal fiammingo. Ha iniziato scrivendo poesia, poi letteratura per i giovani e racconti per adulti. In seguito si è dedicato al teatro, al romanzo e alla saggistica. Fra le sue opere, ricordiamo Madame t’es vieille (giovani), Chronique des fins (racconto), Les Rois sauvages (« micro-romanzo »), King Leopold II (teatro), Nous nous ressemblons tant (racconto poetico). Il suo romanzo Vera (Mercure de France, 2014) ha ricevuto quattro premi, tra cui il Premio del primo romanzo francese 2015, il Premio del primo romanzo belga francofono 2015 e il Premio del libro europeo 2015 attribuito dal Parlamento europeo da una giuria presieduta da Erri De Luca.