Fabrizio Bajec, “La cura”

Bajec_K-495x332di Alex Caselli

Sulla produzione poetica di Fabrizio Bajec (Tunisi, 1975) sono intervenuto criticamente più volte. C’è qualcosa che continua a interessarmi in questo autore, non soltanto relativamente ai risultati della sua officina, ma nelle ragioni stesse e nel tono dei suoi versi. Ragioni e tono molto personali, come dev’essere per un vero poeta, ma in questo caso interessanti rispetto ad un contesto spesso asfittico com’è quello della poesia italiana contemporanea.

La parabola di Bajec mi pare infatti prestarsi a qualche considerazione di ordine generale. Siamo di fronte ad un poeta dai diversi registri e contenuti, ma nella sua poesia, sia che assuma sfumature elegiache o che abbracci il grottesco, sia che affronti idilli campestri o porti in scena figure umane metropolitane, è sempre presente una particolare grana vocale. Il tentativo di dare corpo a questa voce, ovvero la lingua, nella sua peculiarità, è un dato di partenza difficilmente eludibile. Se la partitura sintattica dei testi è talvolta esile, non vi è però quasi mai un deficit d’intensità. Conseguenza non delle meno rilevanti, quest’ultima, di un percorso umano originale.

Ci sono infatti ragioni tutte biografiche a motivare ciò che in altri suoi coetanei è soltanto debolezza strutturale: l’autore vive da diversi anni a Parigi, ma ha vissuto fino al 2008 in Italia, a Viterbo, mantenendo sempre il bilinguismo. Si aggiungano poi una parte dell’infanzia trascorsa in Egitto, con l’inglese assimilato prima dell’italiano, e un ramo famigliare di origine slovena, a cui ci riporta il cognome, ed ecco che abbiamo un variegato passaporto culturale e linguistico che consente un distacco senza trucchi da più tradizioni. Dati di partenza, questi, con ripercussioni riflesse più o meno consapevolmente nell’opera. Ripercussioni di che genere? In primo luogo, come dicevo, riguardanti la tenuta linguistica. Si respira un’aria internazionale in questi versi, ma a differenza di altri aspiranti versificatori, che sembrano involontariamente parodiare stilemi a cui non possono realmente aggrapparsi, ci sono qui tutti i crismi di un’onestà inevitabile.

Le poesie di Bajec risultano sempre un po’ tradotte, come se avessero subito varie stratificazioni, perdendo quel rapporto di originaria complicità che c’è tra parola e cosa. Ma proprio per queste ragioni possiedono un fascino atemporale. L’effetto che si produce sul lettore non è di freddezza: ad una nervatura metrica povera, non corrisponde quasi mai uno sfarinarsi del verso in misure inconsistenti. Come nota Paolo Febbraro in postfazione, Bajec «conosce pesi e volumi, compresi quelli verbali». La sua forza, o meglio la sua energia, va cercata altrove: in un tono pacato e meditativo che procede, verso dopo verso, alla clausola finale, di volta in volta affermativa, esclamativa o interrogativa.

Entriamo dunque nel merito di questa nuova raccolta. Ci troviamo di fronte a cinque sezioni, abbastanza compatte a livello tonale, non sempre a livello formale e contenutistico. L’exscursus temporale è d’altra parte piuttosto largo. Altro fattore subito da evidenziare: vi sono poesie concepite prima in francese e in seguito tradotte in italiano (tre sezioni su cinque), altre uscite direttamente in italiano (l’intera quarta sezione), altre ancora (quelle della terza parte) – come ci informa la nota finale – «scritte in entrambe le lingue». Non si tratta di una novità, già la precedente raccolta era uscita prima in italiano e poi in francese. Diverse poesie della versione italiana avevano conosciuto inoltre un’originaria redazione in francese. Si nota una differenza sostanziale tra i versi “italiani” e quelli concepiti dopo? C’è sicuramente qualcosa di diverso, soprattutto nella quarta sezione rispetto alle altre. La lingua pare più ancorata ai suoi oggetti. Si avverte una maggiore solidità metrica, con assonanze più esplicite, ma in sostanza, ed è questo che sorprende, non siamo così distanti dalle poesie scritte dopo il trasferimento parigino.Testimonianza, credo, della sincerità che conserva la scrittura di Bajec, ma anche della mancanza di radici, dell’estraneità a cui è costretta la sua immaginazione poetica. Se per lingua si è soliti intendere casa, questo autore sembra in perenne esilio: «Sono senza patria né nome, / ho la rabbia per religione».

la_curaRitrovare la lingua perduta (La lingua ritrovata era il titolo della sezione d’apertura della precedente raccolta) diventa un’operazione impossibile da condurre al singolare. Non resta che aggrapparsi ad un patrimonio idiomatico vastissimo e dunque impossibile da possedere. Ed è in questo inappagato desiderio di una parola viva, di un po’ di calore umano, che possiamo rintracciare una delle radici psicologiche di questa scrittura. Il cui prius stilistico si può poi spesso individuare in un approccio in prima battuta voyeuristico, dove il poeta-promeneur assiste a immagini esterne che lo riportano all’introspezione (è il caso di testi come Mi recavo al Bois de Boulogne, Nelle mie passeggiate, Cittadini). Un habitus non recente, già riscontrabile nelle prime prove e nella bellissima plaquette di requiem per la madre (Gli ultimi, Transeuropa, 2009). Se questo è spesso un punto di partenza, non lo è invece d’arrivo. Bajec sembra non accontentarsi della liscia apparenza di ciò che osserva. Non si limita ad un rapporto superficiale d’osservazione, ma vuole scendere nella profondità dell’oggetto. C’è una tensione conoscitiva che lo anima. Per questo diversi suoi testi si concludono con uno scatto sapienziale in cui, con modalità induttiva, la verità sembra emanarsi dagli stessi elementi intuiti o osservati. E il poeta sembra a volte farsi da parte, in un tentativo di spersonalizzazione dai connotati quasi mistici. Quando accade, l’io scompare in favore di un’oggettività a tratti allegorica (si veda La traversata), a tratti assorbita interamente nella rappresentazione di altre vite. Lo sguardo sembra allora farsi macchina da presa in registrazione (come accade in Life style, la poesia che chiude il libro). In piena distensione narrativa, ci si allontana apparentemente dai connotati autobiografici, che pure sono sempre presenti.

Accanto alle traiettorie delineate si possono rintracciare inoltre altri due approcci tra loro quasi antitetici e non marginali. Da un lato abbiamo composizioni dal sapore becero-grottesco (si vedano ad esempio Fraschee Patrimonio) o traboccanti di un maledettismo estetizzante (in questo caso presente a diverse gradazioni in più testi). Dall’altro, poesie che potremmo definire “orientali” in cui, come dicevo, è lo scatto sapienziale finale, che suggella il passo meditativo, a dare energia a tutto l’insieme. Sono per altro testi pregevoli nell’economia dell’intera raccolta (si vedano su tutti Alberi e Piante) e riferimenti intuibili fin dagli esordi dell’autore. Testi che fanno venire in mente ciò che affermava Henri Bremond, grande storico del sentimentreligieux francese, che in un libro bergsoniano intitolato Preghiera e poesia pretendeva di equiparare i territori dell’ispirazione poetica aquelli dello slancio religioso nei mistici. Anche ne La cura chi scrive ha una totale fiducia nei confronti della Poesia, quasi questa appartenesse ad una sfera altra, del sacro. L’approccio infatti non ès acerdotale, ma di mistico abbandono, pur sapendo che i versi non curano le ferite, non consolano di nulla.

Si può aggiungere che all’altezza cronologica de La cura, Bajec possiede probabilmente una maggiore consapevolezza, oltre che degli strumenti poetici impiegati, anche dei temi in delineazione. Consapevolezza che diventa simbolo in quello che ritengouno dei vertici della raccolta: La traversata.

Il dialogo di un uomo col suo cavallo, forse in un deserto, come sembra alludere il riferimento alla sabbia, è l’allegoria di una condizione di sofferenza universale. Priva di correlativi-oggettivi, poiché la scena viene descritta, spiegata e fondata su un paritario botta e risposta tra l’essere umano e la bestia, questa poesia mantiene fino all’explicit una forza fattuale che travalica ogni flusso contingente. In casi come questo, mi sembra di rintracciare il Bajec migliore: simbolico senza essere reticente, chiaro e senza presunzione, non estetizzante perché tutto concentrato nella rappresentazione. Proprio come dev’essere e com’è per un classico.

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Fabrizio Bajec, La cura, Fermenti, 2015, € 12

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