Intervista a Alessandro Canzian

CANZIAN_NUOVA

foto di Dino Ignani

Alessandro Canzian: Che cos’è  la poesia

A cura di Luigia Sorrentino

In questi giorni nella rubrica di poesia Il Teeteto che sto curando per la rivista on line Zest (neonata rivista che conta però già una redazione d’eccezione: Mariangela Camocardi, Federica D’Amato, Otello Marcacci, Alessandra Nenna, Giovanni Nuti, Paolo Risi, Davide Rondoni, Carlotta Susca)  diversi poeti di ottimo livello stanno rispondendo alla medesima domanda: la poesia, per me, è un’esperienza del mondo (Giovanna Rosadini); è solo quest’ultima che davvero “inventa” la lingua, che realmente la rinnova (Franco Buffoni); la poesia esprime il superfluo per eccellenza (Maria Grazia Calandrone); la poesia è un estremo tentativo di riparazione (Luigia Sorrentino); lo strumento che cerca il senso delle cose e lo strumento che (a tratti, per illuminazioni) scopre quel segreto e lo segnala (Alessandro Fo).

Con questo voglio intendere un significato di poesia che abbraccio completamente: un linguaggio, uno strumento che rielabora continuamente lo strumento stesso e un atto di esperienza/conoscenza del mondo capace di rielaborare (allo stesso modo) il mondo. Non a caso nell’intitolare la succitata rivista ho voluto riprendere il dialogo platonico sulla conoscenza. Un dialogo aporetico, tra l’altro, che fondamentalmente è mancante della risposta valida. Ed è in quella zona d’ombra, quel non direttamente razionalizzabile che si inserisce la materia grezza che poi dà modo alla poesia di farsi. E che è sostanzialmente (e forse anche banalmente) la vita. La poesia ovviamente non è la vita (ho conosciuto un grandissimo poeta, Arnold de Vos, che considerava la poesia il fine ultimo di ogni sua cosa – ecco devo ammettere che quello mi sembrava un buttarsi via), ma senza vita non può nascere la poesia.

 

 

Cos’è per te la tua Poesia?

 

Al momento è necessariamente un atto di studio della parola, delle sue possibilità e del mondo. Ci sono veramente pochissimi poeti nella Storia abbastanza grandi da poter rispondere con consapevolezza a tale domanda. Poeti intendo sotto i quarant’anni. Anche se poi, come giustamente suggerisce Buffoni, sono le prime due decadi della vita che influiscono più di tutto. Con questo voglio dire che la poesia implica anche un atto di consapevolezza che personalmente spero di avere ma non considero di avere ancora dimostrato. Ho pubblicato un paio di libriccini, tra cui Il colore dell’acqua (prefazione di Mario Fresa), dove sostanzialmente la poesia è uno studio da una parte della parola da un altro punto di vista del mondo che ho direttamente vissuto. Non ritengo infatti a me applicabile la celebre frase pessoiana il poeta è un fingitore perchè credo e voglio che la poesia (nello specifico la mia) sia un dire cose conosciute cercandone il legame/metafora con una realtà più ampia, più collettiva e condivisibile. Quasi qualche piccola istruzione per l’uso dell’essere umano fra le pieghe di ciò che ho privatamente vissuto. E fino ad Aftermath, secondo periodo de Il colore dell’acqua, era fondamentalmente questo. Da La ragazza di nome Olga, terzo e ultimo periodo de Il colore dell’acqua che apre a un nuovo progetto che sto scrivendo in questi mesi, ho spostato invece l’attenzione verso gli altri. Quindi potrei in conclusione ammettere che la mia poesia fino a pochi mesi fa era un raccontarmi cercando la morale della favola (intesa come favola umana), oggi è un osservare gli altri cercando un bagliore di verità (verità umana).

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