Flannery O’ Connor, “Diario di preghiera”

 

o_connPrefazione di Mariapia Veladiano

Questo piccolo diario di Flannery O’Connor è la preghiera più piena che si possa concepire. Non c’è spazio per niente che non sia quello che in lei è già chiarissimo, talmente luminoso che tutto il resto è sfondo, anche la po-
tente scena del mondo che poi abiterà la sua scrittura come forma di ossessiva fedeltà.

Non è preghiera del vuoto, Signore sono qui, fa’ di me ciò che vuoi. Ciò che vuole, Flannery lo scrive senza il velo del bon ton borghese: “Per favore aiutami caro Dio a essere una brava scrittrice e a riuscire a far accettare qualche altra mia opera”; “Vorrei tanto riuscire a avere successo in questo mondo riguardo ciò che voglio fare”; “Ti prego, fa che i princìpi cristiani pervadano la mia scrittura e fa’ che i miei scritti (pubblicati) siano numerosi abbastanza per diffonderli”.

L’ultima è una dichiarazione di poetica, il resto è al servizio di questa dichiarazione. Non parte, la sua preghiera, da una qualche sontuosa ricerca vocazionale, la sospensione di una vita nel suo inseguir un punto di luce. C’è invece in lei l’unica limpida consapevolezza di voler essere scrittrice cristiana. E chiedere il dono della Grazia coincide con il chiedere il dono della scrittura, e quando finalmente una sera può registrare nel diario l’arrivo di una storia ringrazia Dio e insieme lo incalza nella preghiera perché si prenda cura di “farla sembrare una buona storia”.

Quando Flannery scrive che vuole “essere santa in modo intelligente” intende disegnare un percorso di purificazione delle intenzioni che sia soprattutto purificazione della scrittura dall’ansia di apparire, ma il desiderio, lo scopo della preghiera è diventare esattamente quale lei vuole apparire, cioè scrittrice di un “bel romanzo”. È difficil seguire il filo delle associazioni in questa scrittura di diario che Flannery O’Connor costruisce rigorosa ma che è a ogni passaggio sempre più passionale. Ci sono gli opposti che si attirano e schiantano l’uno sull’altro così potenti da sembrare ironia e abisso insieme, e chi legge trattiene il fiato per la sorpresa eppure crede di capire: “Oh Signore, vado dicendo, al momento sono una scamorza, fai di me una mistica, immediatamente.”

Immediatamente. Non c’è la pazienza dell’attesa, né l’idea del tempo che porta esperienza e saggezza. L’immediatezza non richiama qui il miracolo e nemmeno è l’irrequietezza dell’adolescente che non sa il dopo. Semplicemente qui si dice il bisogno. C’è l’urgenza di quella che Dietrich Bonhoeffer chiama preghiera di tribolazione: “Invocami nel giorno della sventura: ti salverò e tu mi darai gloria” (Salmo 50). Salvata dalla sua mediocrità o dalla paura di questa mediocrità che lascia il foglio bianco, Flannery può dar gloria al Signore e questo diventa subito (subito) gloria per l’umanità che conosce il vero della sua condizione splendidamente raccontata da Flannery, scrittrice resa libera dalla paura di non scrivere e dalla Grazia ormai ricevuta.

La preghiera al Dio che può trasformare le scamorze in mistici racconta un’intimità raggiunta e perfetta per quel che può essere perfetta un’intimità qui vissuta sulla terra.

Lei lo sa, ma entra e esce drammaticamente da questa consapevolezza così da poter esplorare con la scrittura l’ampiezza, la profondità, la ricchezza dell’umanissimo dubbio che continua a abitarla, a abitarci, altrimenti tutto sarebbe ideologia, fanatismo, fattura, quasi, fattura diabolica che infanga l’unione mistica, che invece vive della tensione di una ricerca ininterrotta e che muore solo quando ci seduce l’illusione che sia raggiunta nella forma del possesso, qualcosa che rende quieto l’io pugile, che invece deve restare pugile perché non può essere assorbito, acquietato. “Solo un amore che non trova soddisfazione può durare,” dice Flannery insieme a Proust. È nella sua natura dell’essere qui, amore di mortali, il resistere, come è nella sua natura di amore che viene da Dio il voler finalmente riposare nella vicinanza che ci accoglie. Ma, scrive Flannery, è vicinanza che viene solo dopo la morte, e se la si vede prima questa vicinanza, la vita diventa intollerabile. Intollerabile distanza dopo aver sperimentato la vicinanza.

31XnCDjYnqL._SX331_BO1,204,203,200_La felicità possibile, quella che si vive qui in terra, è intravista come un profilo di capriolo nella luce improvvisa del mattino presto, sotto un abete dietro la curva del sentiero, in basso, lontano. Scappato al nostro trattenere il respiro per la sorpresa e la felicità. Ma c’era e non era illusione e si può cercarlo per sempre e poter far parte del quadro, almeno nella narrazione.

Flannery vuole raccontare, sa le regole del nostro inquieto restare, ma vuole raccontare lo stesso anche se sa di essere una scamorza, o una ragazza insaziabile di biscotti ai cereali. Questo resta e va accolto: “Non c’è nient’altro da dire, su di me.” Così si conclude questo straordinario frammento della sua vita fissata nelle parole del diario.

D’ora in poi dal luogo giusto, mai perfetto, un interstizio sapiente da cui osservare il mondo, inizia la possibilità di narrare, narrare, narrare.

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Diario di preghiera” di Flannery  O’ Connor, è uscito in Italia con Bompiani nel 2016 con la Prefazione di Mariapia Veladiano e la traduzione di Elena Buia e Andrew Rutt.

 

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