di Daniele Campanari
Pensandoci, il cuore se ne va da qualsiasi posto se non ci vuole stare. Gli occhi pure, che non sanno soltanto guardare avanti ma anche dietro. Le mani, poi, le mani riescono addirittura a toccare le cose che stanno più in alto di tutte. Anatomie in fuga sembra dire ciò che può fare un corpo umano, che se non è agguantare è fuggire. Da chi, da cosa? Certamente non dalla poesia. Perché Cristina Annino (pseudonimo di Cristina Fratini) è estremamente poetica coi suoi versi raccolti in questo libretto di centoquattordici pagine. “[…] è un libro dalla genesi particolarissima, composto in un arco di tempo molto ampio, e frutto di un continuo tornare dell’autrice suoi propri passi, ritoccando, correggendo, rimuovendo o aggiornando un corpo di testi che solo ora vedono la luce […]”. A dirlo è Maurizio Cucchi nell’introduzione, e non a caso parla di luce, non a caso parla di “un corpo di testi”. Del corpo abbiamo detto, ma non ancora di questo faro che è sempre puntato su qualcosa e qualcuno: “Passò Elliot in barca. Pareva / vivo tant’era lieve con la racchetta. / Ti sei messa a gridare. Perché remava?! / Io gli isterici li capisco, come / a teatro col balletto, si fa così, / si va per svenire, anche la musica / fa questo[…]”. Insomma Elliot, il poeta, è “Una barca di libri” (titolo della poesia, pag.34), non il poeta stesso. Appena due pagine indietro, invece, un tipico e immaginato lampeggiante di soccorso mette l’artista in allarme, col suo dolore gentile e fragile: “[…] Ma qui, non crediate, c’è il cane che si lamenta, / il pelo gli cresce, il Tempo tira / la sua palla di pietra / a un centimetro da me, / dolore cortese, di carta […]”, così compare il cane, “la fulgina e umilissima bestia dei miracoli”, “Il cane sapiente”, “Il cane del buon consiglio”, semplicemente per dire che “C’è un cane in questa casa” al quale la Annino dedica una parte della raccolta. Dunque i versi scivolano sul corpo di chi legge e vanno in fuga, provano a non farsi prendere e quando raggiungono il tendine in basso cadono a terra. Un modo per rialzarsi, non è questa una sequenza per farsi calpestare, piuttosto per farsi ri-accogliere. Un’operazione che non fa male alla comprensione, visto che la scrittura della Annino è indiretta e c’è la necessità, a volte, di fare qualche metro in più per capirla. Dalla metafora del corridore si può dire che la lettura di alcune poesie è una corsa ai 100 metri: vorresti che non finiscano ma è necessario sapere chi ha vinto. Qui a vincere è il verso che abbaia, forse perché vuole le coccole oppure per la fame della pagina successiva. Insomma, siamo in fuga da qualcosa (amore, lavoro, banca) e i cani, guarda caso, corrono dietro. Questo il poeta lo sa, ogni tanto ce lo ricorda.
C’è un cane in questa casa,
azzurro quasi una lampada,
il collo pieno d’odori,
che gira e si aggrappa
e sul cranio
ha un inizio di tetra ansietà.
Diritto, dimentica
il viso nell’ombra
sul cumulo della schiena;
pensa all’aria, a scatti,
dove arriva, a gatti interminabili
che nella sua azzurra testa
lasciano occhi e saliva.
CRISTINA ANNINO Cresciuta ad Arezzo, a Firenze studia Lettere moderne e frequenta il Caffè Paszkowski dove entra in contatto con il Gruppo 70. Nel 1969, con le edizioni Tèchne di Firenze, pubblica il suo primo libro di poesia, Non me lo dire, non posso crederci. Nel 1984 Walter Siti la include nel terzo volume dei Nuovi poeti italiani (Einaudi). Nel 2001 Franco Loi e Davide Rondoni la inseriscono nell’antologia Il pensiero dominante. Poesia italiana 1970-2000 (Garzanti, 2001). I suoi versi sono stati tradotti in diverse lingue.