Barbara Herzog, “Se non nel silenzio”

barbara_herzogPrefazione
di Francesca Serragnoli

C’è una chiarezza nel mondo, senza confini, chiamata sofferenza. Vicina o lontana che sia, ne siamo impastati nel corpo e nello spirito dalle origini del mondo. Franco Loi in una sua poesia, cito a memoria, scriveva: “ogni volta che mangio, qualcuno muore”. Immagino si riferisse alle notizie del telegiornale. Ecco, questo libro non sono le news di prima pagina raccontate con gli occhi della poesia. Non è un libro furbo che ha trovato un argomento “commerciale”  (l’esagerazione non politicamente corretta è per capirsi). Certo, il primo commento, buttato lì, è quello che il dolore che il libro tocca (con mano) è quello che percorre un fiume sotterraneo, parallelo: i migranti, i futuri rifugiati, i derelitti. Noi lo vediamo alla televisione e, come gli operatori, ci mettiamo i guanti di gomma. Ma non è questo, ripetiamo, il commentino che può torturare la mente e la pancia. Lo scontro principale è su “cos’è umano” e la chiave di lettura, credo, sia “non si assomigliano/ se non nel silenzio”.

I clienti sono i volti, dovrebbero esserlo sempre, e i volti indicano una strada indimenticabile, insostituibile, unica. Siamo umani perché soffriamo? Siamo simili nella sofferenza quindi siamo umani? Barbara ha avuto la forza di non isolare il dolore come ultimo pungiglione (sotto teca) che definisce quello che è una persona. Il pungiglione sono i volti, con i loro orizzonti vasti come quelli dei grandi paesaggi collinari che ci circondano. Non si tratta di contenere la sfilata di profughi che entrano nelle nostre città, di contare, di classificare, qui c’è una grande similitudine che sorregge tutte le nostre poesie: la migrazione in questo mondo, senza confini, dolorosa, turbata, il grande viaggio della vita spinto dal desiderio di stare meglio, cioè della felicità. Si potrebbe dire che noi occidentali vendiamo felicità a buon prezzo, ma quando si tratta di vita o di morte, la felicità che uno cerca non è solo il benessere, ma una specie di salvezza dal male. Lo stare meglio può coincidere con la liberazione dal male, ma credo che per queste piaghe non bastino cerotti, soldi e case a riempire i vuoti. se_non_nel_silenzioAllora cosa rimargina le ferite? Un amico mi ricordava in una mail una frase di Leon Bloy: “soffrire passa, ma avere sofferto non passa mai”. Occorre una conso-lazione immensa, profonda come è fondo il dolore. Barbara intravede qualcosa di più del carcere dei fatti accaduti, del curriculum tremendo. Una signora, compagna di stanza di mia madre in ospedale, parlando delle pesche, diceva che suo marito decideva che erano da raccogliere quando “i ha fat è vulton”. Non si riesce a tradurre e io non voglio nemmeno capire di meno di questa frase che per me ha a che vedere con il volto, il sole, l’attesa fiduciosa, la bellezza, la pazienza. Si potrebbe dire che una pesca non è un uomo. Verissimo. Ma siamo tutti appesi a un ramo che non è il nostro. E vulton è desiderabile e basta. “Non si somigliano/ se non nel silenzio”, dicevamo, la chiave di lettura di questi testi. La somiglianza è quello che permette di guardarci in faccia e riconoscerci, senza che un colpo di macete ci divida. Non parleremo certo del modo di aiutare queste persone, ma del perché. In Amarcord, ad un certo punto, nella scena della grande nebbia, il nonno esce di casa e si perde. Sente poi arrivare una carrozza e grida “Ferma! C’è un uomo qui!”.  Ogni volta che in ospedale, per la strada, in un ufficio, in una sala d’aspetto si ravvisa questa somiglianza, non dico che ci sia salvezza o garanzia di non essere colpiti con un pugno, ma ci si allarga come laghi, ci si senti in fondo in buone mani, la pasta di cui siamo fatti è buona. E in quella bontà siamo fatti nuovi, vestiti come con il vestito della domenica. “C’è un uomo qui!” basta e avanza. Non c’è nulla che ci sfami e disseti come un gesto umano che è quasi divino. Questo è lo specchio che ci fa belli, il belvedere. La poesia, anche quella civile, contro le guerre, non salva (la vita), Barbara lo sa. Ma allora a che serve un libro di poesie? È un volto come gli altri, sperduto, che dai barconi ci guarda e lava i disperati come lavasse se stesso. È retorica poetica questa? Retorica sulla poesia? Sicuramente lo è, ma occorreva compensare la mancanza di retorica di queste poesie.

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Non si assomigliano

Non si assomigliano
se non nel silenzio
del sorriso tranciato
talvolta
lontana la violenza
un volto che colma lo spazio
le crepe si restringono
cauto
il battito riprende

***

Stupro

Quando i polsi si afflosciano
sotto la stretta
e le scosse del torace
si acquietano

quando la gola si sgonfia
le cosce smettono di fare resistenza
ginocchia cadono di lato
piedi non scalciano più

quando il mondo continua a girare
mentre esala l’ultima implorazione

il gelo prende il sopravvento

soltanto abbandono
della propria umanità
felice scontrosa viva

abbandono
per volare lontano

mentre la carne viene martellata
consumata
digerita

***

Dettato o discendenza

Ti sei schierato
la discendenza
a costo di tua figlia
che uomo saresti
senza credo
da difendere
con i denti
come ogni fede degna
dei denti dei fedeli

***

Offerte

Torniamo indietro un attimo. Hai detto che sei arrivata in Libia e da lì sei salita sul barcone. Che qualcuno ti ha aiutata. Racconta ancora una volta che non ho capito bene.
“Ho incontrato un uomo libico che mi ha offerto il viaggio per l’Europa.”
Bene. Quanto hai pagato?
“Non ho pagato.”
Ti ha regalato il viaggio?
“Sì.”
Non hai pagato in alcun modo?
“Beh. No. Mi ha detto che sono molto bella e che vuole dormire con me. Ho pianto e gli ho chiesto di per favore non farlo. Allora mi ha lasciata andare. Ha trovato il posto sul barcone e ha detto – dammi una stretta di mano. E così mi ha lasciata andare.”

Non storco gli occhi. Nemmeno un’ombra di dubbio affiora sul viso. Non è questo il luogo dell’assalto. Le dico che avremo altre occasioni per parlare del viaggio.
Ma la ragazza che ti ospita. Com’era che l’avevi conosciuta?
“In stazione. E’ una connazionale. Ha ascoltato tutta la mia storia e mi ha portata a casa sua.”
Vedo che hai le fototessera che ti ho chiesto, fatte dal fotografo. Ha pagato lei?
“Sì, ha offerto le foto. Come il cibo, i vestiti.”
Ti ha chiesto qualcosa in cambio?
“Non capisco. Mi ospita.”
Intendo dire, ti ha chiesto di fare qualcosa per pagare tutto quello che ti dà?
“Non so. Forse. Ieri ha iniziato a dirmi qualcosa. Che avrei iniziato a lavorare. Non ha detto cosa. Ha detto che sabato saremmo andate a comprare dei vestiti per me. E poi mi avrebbe portato in un posto. Dove avrei iniziato a lavorare.”

Nella tua posizione attuale, sola, che non parli la lingua, non hai documenti, c’è un unico lavoro che puoi fare. I vestiti saranno succinti e scollati. E quando ti porteranno in quel posto, non ci sarà una via di fuga. Più piangerai più verrai bastonata. Forse drogata. Educata al tuo nuovo mestiere.
Se vuoi avere fiducia in me, vieni via da quella casa ora.

Sei stordita dalle mie parole.
Sembri accettare l’accoglienza presso le suore.
Le chiamo. Domani mattina ti accoglieranno.
Non dire niente a chi ti ospita. Non fare vedere la mappa, l’indirizzo. Dì che hai un altro appuntamento con me. Se dirai qualcosa, le azioni verranno anticipate. E dopo, tutto è tanto più difficile. Tanto.
Se ti fidi di me ora, potrai avere dei dubbi nei prossimi mesi. Negli orari stretti e nelle zuppe delle suore. Senza un euro in tasca né la parlata familiare. Ma avrai scampato ciò che nessuna donna dovrebbe vivere. Senza saperlo.

E invece non ci vai. Neanche vieni all’appuntamento per la trascrizione delle memorie. Torni dopo una settimana con i capelli nuovi ed una storia nuova.
E’ difficile affidare la verità a chi ha un colore ed un’inflessione diversa. La necessità. I riti di giuramento con le ossa e le dita sulla cassa da morto. Il debito.
Ci sono delle opportunità. E delle ragazze alle quali non sono morti i famigliari in modi misteriosi nonostante abbiano voltato le spalle alla promessa.
Avevi dei sogni per la tua vita. Che non erano sopravvivenza e soldi.
Ci sono persone che dettano la storia da raccontare in questo ufficio per avere un documento facile. Non è affatto facile. E’ lungo e dall’esito incerto.

Non ti trovi dalla polizia. E se anche fai l’elenco di nomi ed indirizzi e chiedi di tacere, verranno
taciuti. Non ti si vuole rendere la vita più difficile. Ma aiutarti. Qualunque sarà la tua decisione, nessuno interferirà e continuerai ad avere ogni assistenza possibile. Soltanto che con la storia dettata non vai da nessuna parte. Con la verità, se e quando vorrai, ci sarà una base da cui partire.

Tentenni. A tratti ti metti le mani sul viso. Sembri sorridere sotto i baffi ma hai per la prima volta gli occhi colmi di lacrime.
Dopo la lunga e ponderata tesa di mano la diga si rompe. Non ti fermi più per tutto lo spazio che serve a raccontare. I fratelli che non possono andare a scuola, la verginità da regalare al marito, mamma e sorella legate e bendate per i tre giorni in cui hai cercato di fuggire.
“Mama, help me.”

***

Infermiera

Facevo l’infermiera nell’unico ospedale nel raggio di centinaia di chilometri.
Per diventare dottore i soldi non sarebbero bastati.
Nella mia zona erano molto attive le milizie del governo. Reclutavano a forza i maschi, e per lo svago prendevano le femmine. Soprattutto le sorelle e figlie dei maschi che si rifiutavano di eseguire gli ordini.
Qualche volta eseguivano punizioni esemplari.
Si divertivano a mutilare. Ma non in modo da far sopravvivere. Bastava quel poco tempo che serviva per arrivare strisciando piano per terra, fino all’ospedale, con la vagina esplosa. Così noi tutti sapevamo che non bisognava resistere.
Ero una brava infermiera. Ma in certi casi non ci puoi fare nulla.
Un giorno, tornando a casa dal lavoro, mi hanno presa.
Mi hanno buttato dentro ad una stanza buia e puzzolente. Sentivo che c’erano altre donne, ma non potevo chiedere perché avevo la faccia tumefatta e la mascella rotta.
Per due anni sono stata lì dentro.
Ogni giorno quindici uomini entravano nel buio e mi prendevano o a turno, o insieme.
Anche quando avevo ancora la mascella rotta.
Sentivo che attorno a me succedeva la stessa cosa.
Poi, col tempo, hanno incominciato ad usarci anche per i lavori. Così ho visto come hanno sotterrato una donna col grembo gonfio. Viva. Dicevano che fertilizza i campi.
Una sera erano tutti ubriachi. Ormai non ci rinchiudevano più fino a tardi. Ridevano tanto che non si stavano accorgendo di nulla.
Sono riuscita a scappare. Ho corso per chilometri. Ho camminato. Sono collassata vicino ad una macchina.
L’uomo che era dentro si è preso paura alla mia vista.
Mi ha caricata nella sua macchina, e mi ha fatta lavare da sua moglie. Mi hanno dato un vestito. Mi era mancato aver un vestito. Ho mangiato tanto.
Mi hanno detto di un cugino che sapeva come ottenere dei documenti e biglietti per un aereo. Non so perché l’hanno fatto.
Sono arrivata qui.
So che sono in Europa.
Dove sono?
Vi prego, aiutatemi.

***

Gesti si placano

Gesti si placano
sguardo diventa limpido
dimentico un lungo istante
delle notti passate in stazione
maglietta addosso da tre mesi
gentile riflesso
riconosci
non sei solo

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Barbara Herzog si è trasferita dalla Svizzera in Italia a vent’anni e si è laureata in Lingue e Letterature Straniere con una tesi in Letteratura Africana.
Lavora presso lo Sportello Protezioni Internazionali dove dà sostegno a rifugiati ed aspiranti tali.
Collabora a progetti contro le Mutilazioni Genitali Femminili in Italia e in Africa.
Ha pubblicato la raccolta “Sopravvento” nel 2012 con Raffaelli Editore.
La presente raccolta di poesie e racconti esplicita gli anni dedicati al lavoro che svolge quotidianamente.

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