Prendendo spunto da Goethe, «maestro del dire essenziale», Handke propone in questo poemetto una sua personale ricerca sul concetto di durata, l’entità che fornisce contorno a quanto ha la tendenza a dissolversi. Connessa al ripetersi degli eventi quotidiani, ma al contempo svincolata dalla permanenza in luoghi o itinerari consueti, la sensazione della durata è l’esito della fedeltà a ciò che l’individuo sente come più profondamente proprio: fedeltà al divenire di una persona, fedeltà a «certe piccole cose» che ci accompagnano «in tutti i traslochi», fedeltà infine a determinati luoghi, un lago, una piazza, una sorgente alla periferia di Parigi. La durata tuttavia non esiste a priori, bisogna cercarla, andarle incontro; un compito cui può assolvere soprattutto il poeta che, rimettendosi sempre in cammino come il viandante goethiano, con ogni nuova creazione ristabilisce il fragile equilibrio fra mutamento e continuità: nella poesia, la durata troverà così il suo punto di mai definitiva, sempre instabile quiete. La poesia – dice Handke – è uno dei migliori supporti in questa ricerca interiore. Ed è dunque naturale che questo libro di meditazione filosofica sia stato scritto in versi, quasi per bussare alla porta di quella condizione sapienziale tipica della poesia di ogni tempo.
UN ESTRATTO DAL LIBRO
Il canto della durata è una poesia d’amore.
Parla di un amore al primo sguardo
seguito da numerosi altri sguardi.
E questo amore
ha la sua durata non in qualche atto,
ma piuttosto in un prima e in un dopo,
dove per il diverso tempo del quando si ama,
il prima era anche un dopo
e il dopo anche un prima.
Ci eravamo già uniti
prima di esserci uniti,
continuavamo a unirci
dopo esserci uniti
giacendo così per anni
fianco a fianco,, il respiro nel respiro
uno accanto all’altra.
I tuoi capelli bruni si coloravano di rosso
e diventavano biondi.
Le tue cicatrici si moltiplicavano
e diventavano poi introvabili.
La tua voce tremava,
si fece ferma, sussurrava, trasaliva,
si volgeva in una cantilena,
era l’unico suono nella notte del mondo,
taceva al mio fianco.
Testo originale a fronte
Traduzione e Postfazione di Hans Kitzmüller
Peter Handke è nato a Griffen, in Carinzia, nel 1942 e attualmente vive a Chaville, nei pressi di Parigi. Fra le numerose opere tradotte in Italia, citiamo Infelicità senza desideri (1976), Esseri irragionevoli in via d’estinzione (Einaudi 1976), La donna mancina (1979), L’ora del vero sentire (1980), Lento ritorno a casa (1986), Il cinese del dolore (1988), Saggio sulla stanchezza (1991), Saggio sul juke-box (1992), Saggio sulla giornata riuscita (1993), Canto alla durata (Einaudi 1995, ultima edizione «Collezione di poesia» 2016), Il mio anno nella baia di nessuno (1996), Un viaggio d’inverno (Einaudi 1996), Appendice estiva a un viaggio d’inverno (Einaudi 1997), In una notte buia uscii dalla mia casa silenziosa (1998), Lucia nel bosco con quelle cose lí (2001) e Un disinvolto mondo di criminali (Einaudi 2002). Handke ha inoltre firmato la sceneggiatura di alcuni film di Wim Wenders.
A volte penso di tornare in Austria, ma non è una via percorribile. Il mio centro del mondo è dove è mia figlia. Il mio tavolo è qui a Chaville, sono qui le mie matite, i miei alberi quando li attraversa il vento e quando di tanto in tanto regna una certa tranquillità. Del resto non saprei dove andare. Gli austriaci hanno perfettamente ragione a non voler avere a che fare con gente come me. Vogliono starsene fra di loro! È molto piú tranquillo e piú bello! Cosa c’entra un estraneo come me? Ogni popolo sente il bisogno di essere lasciato in pace. […] Non mi sento a casa da nessuna parte, sono uno scrittore senza retroterra. Prima nel mondo avevo ancora dei luoghi. Ad esempio ero molto legato alla regione carsica dei Balcani. Ma la Iugoslavia non esiste piú, e quando sopraggiungono momenti di dolore ci i dice: Smettila di fare il bambino. […] In una certa fase l’ America, se paragonata all’Austria, anche per me ha significato la vastità. La letteratura e i film americani erano come delle scosse elettriche che ti attraversavano dalla testa ai piedi. […]
Ho sempre oscillato fra mitezza e furore. È la mia condizione esistenziale, e a volte dà sui nervi anche a me. Quando i taliban hanno bombardato le statue del Buddha, che in fondo significano pace ed eternità, ho reagito con incomprensione davanti a quella che era una situazione di abbandono e solitudine e allo stesso tempo di cupa testardaggine. È stato allora che mi si è presentata un’immagine: quand’è che attaccheranno la Statua della Libertà, che sebbene in passato fosse importante, da molto tempo ormai non ha piú alcun significato? Però quando c’è della gente che muore, svanisce ogni possibilità di intendersi. D’altra parte, non si risvegliano i morti americani uccidendo degli afghani…
Peter Handke, «News», XLVI (2001)