Ironico e bizzarro, funambolico e beffardo, Valentino Zeichen è noto ai lettori di poesia per il tono distaccato e impassibile, per quel suo “non prendersi sul serio” che ha caratterizzato, sin dagli esordi, gran parte della sua produzione poetica.
Tuttavia, se si analizza a fondo la sua opera, non si può fare a meno di notare la presenza di una vena assorta e malinconica che di tanto in tanto, quasi fosse un fiume carsico, emerge con sorprendente energia in componimenti quali “A Evelina mia madre” pubblicato nella raccolta “Metafisica Tascabile” del 1997:
Dove saranno finiti
la veduta marina,
il secchiello e la paletta,
e i granelli di sabbia
che l’istantaneo prodigio
tramutò in attimi fuggenti,
travasandoli dal nulla
in un altro nulla?
Dove sarà finito lo vale
di mia madre
che fu il suo volto e
che il tempo arreso medaglia?
Perché non mi sfiora più
con le sue labbra,
dove sarà volato quel soffio
che raffreddava la
mia minestrina?
Dove le impronte di quel
lesto e disordinato
sparire delle cose?
In quale prigione di numeri
è rinchiuso il tempo?
Rispondimi! Dolore sapiente,
autorità senza voce.
Ed è proprio a questo tono sensibilmente meditativo, venato da toccante nostalgia che Zeichen ha fatto ricorso per realizzare la sua ultima – e forse più importante – raccolta di versi intitolata “Casa di rieducazione” (Mondadori, 2011). Costruito come una sorta di diario, il libro di Zeichen appare incentrato sul tema del tempo “che nasconde nei numeri / i secoli trascorsi, / e non dichiara mai /la sua vera età” e della sua azione di sgretolamento dell’esistenza umana. Del resto, come ebbe a dire lo stesso autore in un’intervista rilasciata a Luigia Sorrentino: “Se il tempo fosse un dio, io ne sarei il sacerdote”.
E così, seguendo questo filo rosso, ecco apparire pagina dopo pagina, il ricordo dei tanti amici persi, il poeta Dario Bellezza, Giancarlo Nanni e della Roma conosciuta durante la sua giovinezza trascorsa a Villa Borghese o, ancora, dell’odiata matrigna e del padre giardiniere. Non mancano certo, anche in questa raccolta, le arguzie e i paradossi cari a Zeichen che riesce, come sempre, a destreggiarsi con abilità tra temi fra loro apparentemente incompatibli quali l’economia domestica e l’arte visiva, le abitudini dell’alta società e i risvolti più umili della vita quotidiana. Eppure, anche questi componimenti appaiono contrassegnati da un senso di provvisorietà, dal presentimento di una morte sempre in agguato che raggiunge la sua più compiuta espressione nella poesia “Un ladro venuto dallo specchio”:
Rimanevo sullo sfondo
e l’ammiravo da dietro
mentre si truccava
alla specchiera Déco.
Un giorno, un ladro
rubò il suo riflesso.
Curiosavo assai spesso
sul retro dello specchio
per capire se ci fosse
un’invisibile porticina,
un trompe-loil
da cui si fuorusciva
per un’altra dimensione,
da cui si rientrava anche.
E’ sera, come mai non torna
la mia mammina?
Per Zeichen sembrerebbe che l’essere umano sia un effimero riflesso nelle acque torbide di un lago. Prima o poi l’autorità del tempo, che Zeichen definisce una “divinità crudele”, cancellerà la nostra immagine liquida, il nostro “riflesso”e il ricordo di noi sarà affidato agli oggetti della vita quotidiana o meglio, come nella poesia “Mio padre giardiniere”, alle marche dei prodotti da noi usati.
Valentino Zeichen è sicuramente stato una delle voci più originali e sorprendenti della nostra poesia capace di esprimere, con la sua sottigliezza ironica ed epigrammatica, le articolazioni più complesse dell’animo umano.
Poesia della tristezza per la consapevolezza che la vita è condannata a finire, e del dolore legato all’umana fragilità. La constatazione che il tempo è un nulla astratto capace tuttavia di svuotarci d’ogni nostra realtà. Apprezzo il linguaggio lontano da ogni sofisticazione.