Per Valentino Zeichen

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foto di ELISABETTA CATALANO

di Biancamaria Frabotta

Man mano che i giorni passano dalla sua morte annunciata eppure da tutti percepita come improvvisa gli amici di Valentino Zeichen ne sentono la mancanza.Ed ancora di più la sua poesia manca all’Italia che non la conosce. E che del resto ignora gran parte della poesia italiana contemporanea. Per la verità nel corso degli anni della sua fortunosa vicenda umana non si può dire che le pagine più avvertite dei giornali  abbiano del tutto trascurato un personaggio che tranquillamente e senza frastornare i suoi simili fu pago di  essere un poeta e basta, protagonista di una sorta di  apologo lieve  e malinconico, di una favola straordinaria eppure vacua, come quasi tutto ciò che riguarda la vita umana. E infatti Elio Pagliarani per il suo primo libro, Area di rigore, principiò da Palazzeschi, non tanto per i modi del poetare del suo esordio, ma “perché il vivere di Valentino gli imita Perelà”. Già: l’omino di fumo, la sua etica della non Etica, con la maiuscola, intendo, spesso retorica, ipocrita  se non equivoca etichetta incollata sulle pericolose teorie, a noi ben note, dello stato gentiliano. Renzi, attuale presidente del consiglio, lo ha elogiato, post mortem, come “un uomo mite”. E capisco che chi ha che vedere con la politica, attività umana che io non ho mai disprezzato, possa alla distanza così percepire un poeta. Un po’ come dire, uno che non farebbe male a una mosca. Pochi prendevano sul serio le sue idee di ecologista antiprogressista, di maschilista amante delle donne, di sedentario fan del  calcio, di ironico stratega delle  guerre perdute, di curiosissimo lettore di scienze, fisiche, astrofisiche, di anticlassicista cultore della Roma antica, dell’arte e della poesia manierista. Di lui sorridevano, quando esponeva i suoi principi con una veemenza non inferiore alle battaglie che scatenava nei ristoranti che cedendo alla melliflua moda dei Pachino cacciavano dalle tavole  la più solida compattezza dei San Marzano. Ancora meno lo ascoltavano, quando accusava la neoavanguardia di aver reso illeggibile la letteratura, o dichiarava di amare Montale, o quando si spendeva in difesa degli amici, della generazione dei “vecchi ragazzi” cui voleva appartenere, forte del suo destino di irrecuperabile outsider. Eppure nulla di ciò fu estraneo alla sua poesia, semiseria , inappuntabile, cerimoniosa , razionale e irragionevole . Zeichen non amava raccontare la sua vita, indulgendo piuttosto alla mitobiografia, alla cura di un personaggio indistinguibile dalla persona, dalla indimenticabile voce interna ai suoi versi senza musica. E senza intimità, senza indulgenze viscerali, senza nostalgia, che inventando dal nulla, o quasi, un’intonazione inimitabile, aggirava il falsetto, le dissonanze di una superata modernità, le arie del dandy, il tragico superomismo che sempre eccede il presente, che  invece Zeichen ha interpretato, alleggerendolo e rendendolo migliore, con insuperabile coerenza. Tutta la sua poesia è  una lettera al mondo in cui si continuerà a vivere, probabilmente, senza di lui.

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